Itaca n. 7 - page 10

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cultura
ossimori
Là dove lo “spettacolo” non ha più luogo
Troppe razze per un mondo solo
L’immagine oltre lo stereotipo dell’indi-
gnazione, testimonianza artistica ed uma-
na di Letizia Battaglia, fotografa delle vitti-
me innocenti della mafia.
Di Giuseppe Frangi
L
etizia Battaglia, grande fotografa
(con quel nome così felicemente os-
simorico...) racconta che le piace-
rebbe tornare giovane per un solo
motivo: buttarsi nell’avventura di raccontare
con le immagini l’epopea umana dei migranti.
Lo dice ogni volta con quell’aria un po’ di sfi-
da, da ottantaduenne molto più vivace e
sfrontata di tanti che potrebbero essere suoi
nipoti. Il problema secondo lei è questo: i mi-
granti sono fotografati in modo standardizza-
to, pietistico. Immagini che nel migliore dei
casi suscitano commozioni passeggere, sus-
sulti emotivi che non si traducono né in co-
scienza né in conoscenza. Letizia ne sa qual-
cosa, perché lo stesso problema se lo era
trovato davanti quando negli anni 60, per ne-
cessità, le toccò diventare la fotografa di tutti
i fatti di mafia. Anche in quel caso c’era il ri-
schio di cadere nello stereotipo, nell’immagi-
ne schematica che punta sulla ferocia perpe-
trata sul corpo delle vittime, o sul cinismo
impenetrabile dei “mostri”. Lei allora, con il
suo istinto, rimescolò le carte, fotografando
la commistione dei mondi, narrando per im-
magini un fenomeno che permeava la vita
quotidiana, che non lasciava indenni gli inno-
centi. Insomma scelse una foto che per
quanto fosse in bianco e nero, non divideva il
mondo in bianco e in nero. Così oggi noi ab-
biamo coscienza di cosa sia stata e sia la ma-
fia, più dalle immagini di Letizia Battaglia che
da mille saggi. Il vizio è quello di rifugiarsi in
sguardi politicamente e anche moralmente
corretti; sguardi ripetitivi, consolatori, superfi-
cialmente indignati; alla fine omologati. E lei,
Letizia Battaglia, quindi cosa farebbe se
avesse qualche decennio in meno? Glielo ab-
biamo chiesto una volta, mentre la grande
fotografa con quell’ossimoro dento il nome,
era di passaggio a Milano. Non si è tirata in-
dietro. Senza fornire ricette, ha fatto capire
quale può essere una direzione.
Bisogna fotografare
quello che non si vede e
non si racconta. Bisogna
andare dove non si va mai;
provare a guardare ad
esempio nei campi profughi
in Libia. O anche dentro i
nostri centri di raccolta.
Non cercare gli attimi speciali, ma i momenti
qualunque, anche se mediaticamente meno
attraenti. I momenti muti, quelli senza pun-
ti esclamativi, quando le porte si richiudono
alle spalle, i riflettori si spengono e tutti se
ne vanno come se il film fosse finito. Oggi
le narrazioni visive cercano ansiosamente le
situazioni di potenza (paradossale pretende-
re potenza da una condizione umana che è
impregnata di fragilità...): poco cambia che
siano quelle intensamente drammatiche o
quelle simbolicamente “memorabili”. È una
narrazione che evita la commistione. Che
guarda tutto da fuori, senza mai entrare in
intimità con quei corpi e quei respiri. Letizia
Battaglia, per tornare a lei, aveva racconta-
to la mafia fermandosi sempre un attimo più
degli altri anche sul teatro dei più truci fatti di
cronaca. Quando calava il silenzio e lo sgo-
mento s’impossessava di tutto. Sapeva che
la vita, profonda, drammatica, misteriosa si
annida là dove “spettacolo” non ha più luogo.
Classe III A
Liceo Scientifico Statale “B. Rosetti”
H
omo sum: humani nihil a me alienum
puto. Sono un uomo: nulla di umano
mi è estraneo. Questa frase tratta
dall’Heautontimonumeros è stata
scritta dal commediografo latino Terenzio ben
2000 anni fa. Eppure a distanza di secoli questo
concetto, che può essere concretizzato
nell’ “accogliere e cogliere ciò che ci rende si-
mili”, ancora non riusciamo ad applicarlo. Sia-
mo tutti uguali? Questa è la domanda che si
pongono tutti e a cui cerchiamo di rispondere
fin dall’antichità con i più antichi filosofi. Anche
la scienza ci spiega che dal punto di vista biolo-
gico possediamo un patrimonio genetico pres-
soché uguale, e siamo composti dalle stesse
sostanze, ma in quantità diverse. Le persone
scure di pelle, ad esempio, hanno una maggio-
re quantità di melanina, essenziale per la so-
pravvivenza in un ambiente arido, mentre le
popolazioni nordiche hanno pelle bianca per
minor presenza di melanina, poiché superflua
in un ambiente quasi totalmente privo di raggi
solari. Quindi, oggettivamente abbiamo fenotipi
tutti diversi ma geneticamente siamo tutti ugua-
li. Molti però ritengono comunque che la prove-
nienza, la religione e l’orientamento sessuale
possano dividere il genere umano in diverse
“razze”, e che da queste caratteristiche tutti
possono essere giudicati. Noi non crediamo
che una persona possa essere etichettabile da
queste. Ma le persone, in generale, si focalizza-
no di più su ciò che li differenzia, piuttosto che
su ciò che le accomuna. E se per gli anziani è
normale avere una concezione negativa di ciò
che è diverso, oggi, per noi giovani, dovrebbe
essere più semplice rispettare e accettare gli
altri. Dunque ciò che noi trattiamo come un
problema, con il ricambio generazionale, diven-
terà una prassi generalizzata poiché nella storia
i giovani sono sempre stati i portatori di nuove
idee e nuovi modi di pensare. Ritornando al
quesito iniziale, “noi siamo tutti uguali, ma ci
sono ancora persone che credono di essere più
uguali di altre.” - George Orwell, La fattoria degli
animali.
Photo courtesy of
Letizia Battaglia
Photo
Paolo Annibali
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