Itaca n. 7 - page 14

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interviste
perl’appunto
Avvocato della famiglia di Stefano Cucchi,
il suo nome è legato anche ai casi Aldro-
vandi, Uva, Magherini. È tra i vincitori del
Premio nazionale Paolo Borsellino 2016 e
con il suo lavoro sta contribuendo a riscri-
vere la storia dei diritti civili in Italia, so-
prattutto dei soggetti più fragili e a rischio
della nostra società. Nell’intervista ci rac-
conta l’Associazione Stefano Cucchi, il
destino del reato di tortura e “gli ultimi”.
Di Redazione
C
hi è Fabio Anselmo? Perché ha
scelto gli ultimi e i morti di stato? E
come è cambiato, se è cambiato, il
suo rapporto con la legge dopo
questa scelta?
La scelta è stata casuale, nel senso che il
mio rapporto con la legge ed il concetto di
giustizia in Italia già avevano subito un cam-
biamento in chiave critica quando sono stato
colpito da una vicenda personale di grave
responsabilità medica. Partendo da questa
esperienza particolarmente drammatica, sia
le enormi difficoltà di risoluzione della vicenda
clinica, sia le difficoltà processuali nell’otte-
nere ragione di una grave negligenza medica,
mi hanno spinto a pensare che l’amministra-
zione della giustizia fosse una cosa che fino
ad allora avevo immaginato un po’ diversa
rispetto a quello che vedevo di fronte a me.
Il mio interessamento e il mio coinvolgimento
nella vicenda della morte di Federico Aldro-
vandi sono scaturiti direttamente da questa
esperienza. Il filo conduttore tra le due è co-
stituito proprio dalla “difficoltà” (per non uti-
lizzare termini più duri) della medicina legale
di poter riconoscere una causa di morte vice-
versa evidente, ascrivibile al comportamento
dei poliziotti. Le stesse criticità dal punto di
vista medico-legale che ho riscontrato nella
mia vicenda personale in un ambito diverso,
le ho riscontrate nella vicenda di Aldrovandi;
criticità che si sono poi estese ad altri aspetti
di carattere processuale e ad altre difficoltà di
carattere ambientale, particolarmente impor-
tanti da generare poi procedimenti penali au-
tonomi nei confronti di coloro che hanno fatto
le indagini sulla morte di Federico. Il collega-
mento è stato questo: le vittime di malasanità
sono “ultimi” esattamente come le vittime di
Stato, perché le difficoltà nell’ottenere giusti-
zia per le vittime di malasanità e per le vittime
di Stato sono del tutto analoghe.
Il 16 febbraio a 7 anni di distanza dalla
morte di Stefano è nata l’associazione
Stefano Cucchi onlus. La vostra è una
battaglia per la dignità e per i diritti, ma
anche una battaglia contro il pregiudizio.
È sicuramente una battaglia contro il pregiu-
dizio, ma il pregiudizio fa parte di quelle diffi-
coltà che i soggetti più deboli incontrano per
poter effettivamente ottenere quel rispetto e
quella considerazione dalla giustizia che me-
ritano, al pari di tutti gli altri cittadini. La legge
deve essere uguale per tutti, invece in realtà
così non è: ci sono processi iper garantiti e
processi che invece sono “da carne”. I pro-
cessi iper garantiti sono quelli, ad esempio,
per le responsabilità mediche, per le quali
anche le ultime modifiche normative vanno
nel senso di una depenalizzazione della re-
sponsabilità. E per quanto riguarda invece i
casi più noti legati alla nascita di questa as-
sociazione è evidente il contesto ambientale
particolarmente difficile perché lo Stato non
processa assolutamente volentieri se stesso,
anzi. In particolare quello italiano, che viene
sistematicamente denunciato dalle sentenze
della Corte europea per i diritti dell’uomo, è
particolarmente refrattario a mettersi in di-
scussione e a mettere coloro che lo rappre-
sentano sullo stesso piano dei cittadini nei
confronti dei quali si rivolge la sua azione.
“La legge è uguale per tutti” è un bel prin-
cipio che sta in tutte le aule di giustizia, ma
è un principio che in realtà raramente viene
rispettato. Purtroppo abbiamo una giustizia
privatizzata, poiché le possibilità di ottenere
tutela è prerogativa di pochi, di coloro che ri-
vestono posizioni forti. La vicenda di Stefano
Cucchi e della sua associazione sono emble-
matiche: Stefano è stato vittima di una giusti-
zia a due velocità nell’ambito della quale da
un lato quando si è presentato come “ultimo”
arrestato per un fatto di droga è stato giudi-
cato con “ciclostile” in un’aula del tribunale di
Roma, dove i magistrati non si sono accorti
del feroce pestaggio che aveva appena su-
bito, e dove nessuno ha poi fatto niente per
le condizioni gravi in cui si trovava Stefano
in quel momento. I magistrati si giustificaro-
no, questo va sottolineato, dicendo che non
avevano avuto occasione di guardarlo in fac-
cia; io ricordo che questa giustificazione ci
lasciò particolarmente perplessi. Poi Stefano
si presentò ai giudici con un verbale di arre-
sto che lo qualificava come albanese senza
fissa dimora in una mattinata nell’ambito
della quale si convalidavano gli arresti della
notte e i due arrestati prima di lui erano ef-
fettivamente due albanesi: abbiamo quindi
una giustizia applicata con ciclostile. Stefano
rimane vittima di questo, poi quando muore
è la famiglia ad essere vittima perché il pro-
cesso, anziché farlo nei confronti dei respon-
sabili della morte di Stefano, lo si fa contro
la famiglia e contro Stefano. Fondandolo sul
pregiudizio, sullo scarso valore della sua vita
rispetto al prestigio delle istituzioni che non
devono essere messe in discussione, e tut-
ta l’attività processuale è incentrata sulla vita
di Stefano e sui suoi familiari. È un processo
“storto” quello che si sta definendo che ha
visto l’annullamento dell’assoluzione dei me-
dici coinvolti nell’inchiesta: è un processo a
due velocità. L’associazione ha lo scopo di
rompere l’isolamento, di gettare la maschera,
di cercare di aiutare le vittime di abusi in ma-
teria di diritti umani. In questo Paese esiste
un grosso problema di abusi latenti, e non
lo dice l’avvocato Anselmo, lo dice la Corte
europea dei diritti dell’uomo con le continue
condanne a questo Paese, anche per la man-
cata produzione di una legge efficace contro
la tortura.
Il senato ha introdotto il ddl che prevede
l’introduzione del reato di tortura in Italia.
Sono ormai 30 anni che l’Italia attende que-
sto provvedimento, con l’approvazione del
17 maggio si è arrivati alla terza discussio-
ne e ora si attende l’approvazione della Ca-
mera. Molte però sono le polemiche rispet-
to alle modifiche apportate rispetto al testo
originale. Lei cosa ne pensa?
L’Italia vuole la tortura, non la legge contro
la tortura. È lapidaria questa mia considera-
zione: l’Italia vuole la tortura; l’Italia non vuo-
le punire seriamente coloro che si rendono
responsabili di tortura. Considero partico-
larmente ipocrita tutta la mobilitazione del
Paese ai fatti d’Egitto che hanno procurato
la morte del povero Giulio Regeni quando da
noi dimostriamo in maniera imbarazzante e
palese la nostra volontà di non perseguire e
punire i reati di tortura. La legge che sta per
essere approvata non sarà applicabile a nes-
suno dei casi “noti” di cui ho parlato: Federi-
co Aldrovandi, Stefano Cucchi, la Diaz, Bol-
zaneto… è una legge che è piena di disturbo,
ma ciò che veramente fa pensare e tradisce
la volontà di questo Paese di non dotarsi di
una legge efficace sulla tortura è il fatto che
l’articolo 195bis del codice penale militare di
guerra punisce in maniera ampia ed effica-
ce gli atti di tortura, facendo esplicitamente
rimando alle convenzioni internazionali e
quindi senza i “se” e senza i “ma”, senza i
distinguo della norma che si vuole approvare
oggi, senza tutti quei paletti che questa nor-
ma ha, per fatti terribili commessi per mo-
tivi non estranei alla guerra. Questo articolo
dice quindi “noi puniamo in maniera efficace
la tortura a patto che sia commessa per fatti
non estranei alla guerra”, il che significa che
i cittadini dei Paesi esteri che ipoteticamente
dovessero essere teatro di guerra o in guerra
con noi hanno maggiore tutela rispetto ai no-
stri militari di quanto non ne abbiano i nostri
cittadini nei confronti delle forze dell’ordine.
E questo è un fatto sintomatico e imbaraz-
zante che non ha possibilità di essere giusti-
ficato. Io preferisco una legge che non esiste
piuttosto che una pessima legge, perché una
pessima legge non fa altro che dare la pa-
tente di “non torturatori” a coloro che invece,
come nel caso di Stefano Cucchi o Federico
Aldrovandi o in tutti gli altri casi che ho cita-
to, per la Corte europea dei diritti dell’uomo,
per il diritto internazionale, per le convenzioni
ONU, hanno compiuto atti di tortura a tutti gli
effetti. Rimangono impuniti ed hanno la pa-
tente di “non torturatori” anche se commet-
tono questi atti che sono considerati tortura
secondo il diritto internazionale. Questo è
quello che sta succedendo nel nostro Paese:
il nostro Paese vuole la tortura ed ha paura di
una legge efficace sulla tortura. Questa è una
cosa che ci deve far riflettere.
I “diritti umani”, vuoi perché il lessico viene
percepito come relativo a mondi distanti
(Paesi in ritardo o in via di sviluppo) o ad un
tempo passato, tale nozione sembra col-
locata nel nostro Paese in una dimensione
spazio-temporale altra da noi. È d’accordo?
Questa è la spia più forte di una mancanza di
democraticità, di un difetto di civiltà di que-
sto Paese. Io credo che non esista nessuna
possibilità per un Paese che si vuole definire
civile e democratico di impostare un futu-
ro migliore se non parte dalla prima pietra
fondante: il rispetto dei diritti umani. Da noi
vengono considerati sacrificabili, la nostra
ignoranza culturale è evidente. Basta vede-
re la reazione della politica rispetto ai fatti di
terrorismo dell’Inghilterra e la reazione del-
la politica di quel Paese che è stato colpito
direttamente da quegli atti: lì la politica si è
fermata, ha taciuto, nessuno ha strumentaliz-
zato quei fatti. Invece da noi c’è stata la corsa
alla strumentalizzazione becera ed ignorante
di questi fatti, per parlare alla pancia dei citta-
dini nell’ambito di un disegno, che è evidente
dal punto di vista politico, volto a provocare
una vera e propria guerra tra poveri, facendo
sì che i penultimi attribuiscano agli ultimi le
responsabilità delle loro difficoltà di carattere
economico-sociale. In questo quadro, quale
possibilità di tutela reale possono avere i di-
ritti umani? Nessuna. I diritti umani sono or-
mai un principio privo di fondamento, privo
di reale significato. La nostra è una giustizia
a due velocità, che non applica il principio
di uguaglianza di tutti i cittadini rispetto alla
legge, perché i diritti di difesa vengono rico-
nosciuti in modo diseguale a seconda della
capacità economica e delle posizioni, di po-
tere o meno, rivestite dagli imputati. Il quadro
che ne viene fuori è particolarmente frustran-
te e inquietante. Il problema è che i cittadini
spesso non se ne accorgono poiché la loro
attenzione viene deviata da falsi problemi, da
una presunta situazione di insicurezza che in
realtà non corrisponde all’insicurezza reale.
Se noi guardiamo i dati del Viminale relativi
ai reati contro la persona possiamo vedere
che sono in costante e progressiva diminu-
zione, a dispetto di un’insicurezza percepita
che è ai massimi livelli. Questo fa parte di una
strategia che secondo me è prodromica alla
perdita di democrazia di un Paese. Dopotutto
siamo un Paese che non ha una legge contro
la tortura o un codice identificativo delle for-
ze dell’ordine che partecipano ad operazioni
di ordine pubblico, cosa che invece esiste in
tutti i Paesi europei. Ci sono delle sentenze
della Corte europea per i diritti dell’uomo che
sono particolarmente interessanti, ma anche
particolarmente e giustamente severe nei
confronti del nostro Paese riguardanti questi
problemi, così come il problema delle car-
ceri. È un Paese che chiaramente denuncia
un’involuzione democratica e sociale inquie-
tante. Quindi credo che parlare di progresso
e di sviluppo sia fondamentalmente ipocri-
ta, si dovrebbe iniziare da qui per parlare di
progresso e sviluppo. Cito solo due casi di
questi ultimi tempi: per 2 volte l’Inghilterra ha
rifiutato l’estradizione all’Italia. Nel caso di
Hayle Abdi Badre, richiesta dalla procura di
Firenze, l’estradizione è stata rifiutata perché
sarebbe dovuto essere trasferito al carcere
di Sollicciano che è un carcere considerato
assolutamente non in linea con gli standard
europei, di Paesi civili e democratici. Questo
ai cittadini non interessa. Alla gente interessa
avere paura degli immigrati, interessa guar-
dare all’immigrazione come ad un fenomeno
che mette in discussione la propria ricchezza
e aggrava il proprio disagio e la propria po-
vertà, interessa respingerli, interessa attuare
tutti quei comportamenti che, oltre ad esse-
re incivili, costituirebbero crimini contro l’u-
manità e non risolverebbero certo i problemi
economici di questo Paese. Purtroppo la si-
tuazione politica e culturale di questo Paese
è sicuramente difficile e, devo dire, partico-
larmente grave. Io credo che le nuove gene-
razioni e quelle attuali abbiano ereditato dalla
nostra generazione una situazione veramente
drammatica sia dal punto di vista sociale che
dal punto di vista culturale. Noi abbiamo un
deficit enorme. Ribadisco, guardiamo come
ha reagito l’Inghilterra di fronte ad un gravis-
simo atto di terrorismo, guardiamo come una
classe politica, pure in feroce battaglia per la
campagna elettorale, sospende le attività e
evita comunque di strumentalizzare questa
tragedia. Guardiamo come si sono compor-
tati loro e come, viceversa, questa tragedia
sia stata immediatamente cavalcata in ma-
niera becera da tante forze politiche italiane.
Questo è il deficit culturale che noi abbiamo
noi confronti degli altri Paesi europei. Basta
fermarsi a riflettere e a guardare. Qualcuno
ha persino detto che in Italia non succedono
attentati perché noi siamo conniventi con il
fenomeno dell’immigrazione, con l’invasione
di immigrati, e lo dice impunemente. In quale
altro Paese europeo può succedere questo?
Quali sono i tuoi progetti adesso?
I miei progetti sono quelli di sopravvivere tra
un processo e l’altro. Tra pochi giorni com-
pirò 60 anni e posso dire che un po’ di soddi-
sfazione, quando mi volto indietro, la provo.
Sia quando qualcuno mi riconosce, come
quando ho avuto il Premio Borsellino l’anno
scorso, ma anche nelle parole di attacco fe-
roce che ho subito dal senatore Giovanardi
e da alcuni esponenti sindacali della Polizia,
quando si discusse la penultima volta la leg-
ge sulla tortura. È evidente che se queste
persone, nel bene o nel male, si interessa-
no al mio lavoro, a qualcosa forse questo è
servito. Certamente la strada da percorrere è
molto lunga, però viviamo alla giornata.
I diritti umani, il destino del reato di tortura e “gli ultimi”
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