Itaca n. 7 - page 4

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attualità
il mondo piccolo
Piccole cose di enormi tragedie
L’esperienza del sisma e la responsabilità di
comprendere, “il non avere neppure la più
pallida idea di cosa significhi mi butta giù”.
Di Gian Mario Bachetti
S
ono tornato ad Ascoli, la prima volta
dopo il terremoto, durante i primi di
Novembre. C’erano state altre scos-
se, la terra aveva tremato ancora e
buttato giù altri muri e altri tetti. Fino a qual-
che mese fa ricordavo i giorni, gli epicentri e
le magnitudo. Ora no, ho dimenticato. Non
voglio googlare.
Continuavo a sentirmi in colpa: erano passati
mesi e non avevo messo piede nella mia cit-
tà, una città di cui seguivo i tormenti dal buco
della serratura offertomi dai gruppi Facebo-
ok, gli status, gli hashtag, le chat di gruppo
su Whatsapp.
Aspettavo l’autobus a Tiburtina. Quell’auto-
bus che si sarebbe piegato lungo le vertebre
della Salaria, una strada che per la prima
volta in quasi dieci anni avrei visto diversa,
con la frana sotto Pescara a sfigurarne i li-
neamenti.
Ricevetti una chiamata di mia madre mentre
ero allo stallo numero 18. Diceva che avrei
dormito a casa dei nonni, perché è a un pia-
no più basso del nostro appartamento e per-
ché anche lei dormiva con la madre - per non
lasciarla sola, per stare tutti insieme.
Perché
non si sa mai.
Quando la sera sono
uscito per incontrare i miei
amici, si è raccomandata
di non chiudere il
chiavistello della
porta d’ingresso quando
fossi rientrato.
Metti che dobbiamo andare via all’improvviso.
Sono riuscito a salire ad
Arquata
: era una
giornata ventosa e i tiranti delle tende faceva-
no un rumore assordante, uno sciame mec-
canico che ronzava contro la plastica blu.
Come se tutto il resto non fosse sufficiente,
c’era anche quel maledetto pandemonio di
ferraglia.
È drammatico e disarmante il modo in cui
non si possano capire certe cose - una nor-
malità che sembrava fantascienza.
Posso vedere i video di mille droni sorvolare
paesi di cui sono rimasti pochi calcinacci, le
bare al telegiornale, le mani sporche di pol-
vere; ma nulla mi ha fatto capire quanto un
evento del genere abbia condizionato le vite
di migliaia di persone come il monito di mia
madre a non chiudere la porta e il rumore dei
tiranti. Così come non ho capito la gigante-
sca follia delle deportazioni naziste finché
non mi hanno raccontato che nei treni che
portavano in
Polonia
l’unico cibo disponi-
bile, per giorni e giorni di viaggio d’estate in
vagoni di ferro, fossero acciughe sotto sale;
perché il caldo e la sete posso capirli, ma non
ho idea di cosa significhi lavorare per ore e
ore di fila senza cibo, seminudo nella neve,
per poi morire di stenti, o con il gas che inva-
de i polmoni. Come non avevo idea di cosa
significasse sbarcare dal
Nord Africa
finché
non ho parlato con un diciassettenne del Mali
partito quattro anni prima da casa; come se
io avessi trascorso i primi anni di liceo ad
attraversare il mondo a piedi, subendo l’inno-
minabile, invece di tradurre Seneca e ubria-
carmi col Cynar liscio all’aperitivo.
Ora sono in un locale con un vinile a rumo-
re di fondo, circondato da ragazzi e ragazze
che bevono centrifughe e caffè americani. Tra
qualche minuto tornerò nel mio appartamen-
to soppalcato, forse vedrò degli amici per
cena. A qualche chilometro da qui c’è gente
che ha perso tutto, dalle case alle tazzine del
caffè, che vive in tende, in appartamenti al-
trui, in box prefabbricati e il non avere neppu-
re la più pallida idea di cosa significhi mi but-
ta giù, ché nelle piccole cose di tutti i giorni si
percepiscono – credo - le tragedie più grandi.
PH Alberto Cicchini -
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