Itaca n. 7 - page 5

5
attualità
il mondo piccolo
Michele
Questa è la lettera lasciata da Michele, un
trentenne friulano che si è tolto la vita per
la mancanza di prospettive in un mondo di
precariato.
H
o cercato di essere una brava per-
sona, ho commessi molti errori, ho
fatto molti tentativi, ho cercato di
darmi un senso e uno scopo usando
le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
Ma le domande non finiscono mai, e io di
sentirne sono stufo. E sono stufo anche di
pormene. Sono stufo di fare sforzi senza
ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di
colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo
di sprecare sentimenti e desideri per l’altro
genere (che evidentemente non ha bisogno
di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi
cosa si prova a vincere, di dover giustificare
la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di
tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fin-
gere interesse, di illudermi, di essere preso in
giro, di essere messo da parte e di sentirmi
dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero
una grande qualità, sarebbe oggetto di ricer-
ca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché
questa è la realtà sbagliata, è una dimensio-
ne dove conta la praticità che non premia i
talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni,
insulta i sogni e qualunque cosa non si possa
inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la
posso riconoscere come mia.
Da questa realtà non si può pretendere nien-
te. Non si può pretendere un lavoro, non si
può pretendere di essere amati, non si pos-
sono pretendere riconoscimenti, non si può
pretendere di pretendere la sicurezza, non si
può pretendere un ambiente stabile.
A quest’ultimo proposito, le cose per voi si
metteranno talmente male che tra un po’ non
potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità
o acqua corrente, ma ovviamente non è più
un mio problema. Il futuro sarà un disastro
a cui non voglio assistere, e nemmeno par-
tecipare. Buona fortuna a chi se la sente di
affrontarlo.
Non è assolutamente questo il mondo che
mi doveva essere consegnato, e nessuno mi
può costringere a continuare a farne parte. È
un incubo di problemi, privo di identità, privo
di garanzie, privo di punti di riferimento, e pri-
vo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io
non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono
rappresentato da niente di ciò che vedo e non
gli attribuisco nessun senso: io non c’entro
nulla con tutto questo. Non posso passare la
vita a combattere solo per sopravvivere, per
avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quel-
lo che spetta di diritto, cercando di cavare
il meglio dal peggio che si sia mai visto per
avere il minimo possibile. Io non me ne faccio
niente del minimo, volevo il massimo, ma il
massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muo-
re, e non c’è mai stato posto qui per ciò che
volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito.
Io non ho tradito,
io mi sento tradito, da
un’epoca che si permette
di accantonarmi, invece di
accogliermi come sarebbe
suo dovere fare.
Lo stato generale delle cose per me è inac-
cettabile, non intendo più farmene carico e
penso che sia giusto che ogni tanto qualcu-
no ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste
l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere
non può essere un piacere, allora non può
nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho di-
mostrato. Mi rendo conto di fare del male e
di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia
ormai è tale che se non faccio questo, finirà
ancora peggio, e di altro odio non c’è davve-
ro bisogno.
Sono entrato in questo mondo da persona li-
bera, e da persona libera ne sono uscito, per-
ché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta
con le ipocrisie.
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’uni-
co possibile, io modello unico non funziona.
Siete voi che fate i conti con me, non io con
voi. Io sono un anticonformista, da sempre,
e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare
la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste
niente che non si possa separare, la morte è
solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce
all’individuo, non ai comodi degli altri.
Io lo so che questa cosa vi sembra una follia,
ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la
voglia: non qui e non ora. Non posso imporre
la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nul-
la assoluto è sempre meglio di un tutto dove
non puoi essere felice facendo il tuo destino.
Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma
ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c’era caos. Dentro di me
c’era ordine. Questa generazione si vendica
di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa
a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per
i bei momenti insieme, siete tutti migliori di
me. Questo non è un insulto alle mie origini,
ma un’accusa di alto tradimento.
P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che
ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.
Articolo apparso su MessaggeroVeneto
Edizione Udine del 7 febbraio 2017
Di Maria Teresa Medi
Psicologa e psicoterapeuta
CRISS Centro di Ricerca e Servizio per
l’Integrazione Socio-Sanitaria
UNIVPM
L
eggendo la lettera di
Michele
, mi è
venuta subito un’associazione con
un’altra lettera di un altro giovane
suicida degli anni ’60:
Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della
disperazione e della rassegnazione, abbia-
mo deciso di esprimere la nostra protesta e
di scuotere la coscienza del popolo. Il no-
stro gruppo è costituito da volontari, pronti a
bruciarsi per la nostra causa.”
48 anni fa, il
16 gennaio 1969, moriva
J. Palach,
studen-
te di Praga, che si diede fuoco alla maniera
dei monaci buddisti in Piazza San Venceslao
per protestare contro l’occupazione della
Cecoslovacchia da parte delle forze del Pat-
to di Varsavia. Un mese dopo, il 25 febbraio
1969, un altro studente,
Jan Zajíc
, seguì il
suo esempio e si diede fuoco sempre a piaz-
za San Venceslao. Ad aprile a darsi fuoco fu
un altro studente
Evžen Plocek
, nella città
di Jihlava.
Il gesto di J. Palach
e degli altri studenti
era ed è stato
riconosciuto come
un gesto politico.
Scrive sulle pagine di Repubblica il giornali-
sta Bernardo Valli in occasione del trentesi-
mo anniversario della morte di j.Palach: “non
era un suicidio per disperazione, non era una
resa definitiva, portata alle estreme conse-
guenze: era un’azione offensiva.”
L’eco di quei suicidi suscitò una forte inquie-
tudine soprattutto fra quanti, sempre giovani,
in altri paesi d’Europa, in quella stessa epoca
riempivano le piazze per lottare contro il siste-
ma, era la stagione della contestazione giova-
nile a un anno circa dal maggio francese.
La cosa che segna una forte differenza fra le
due diverse azioni “offensive”, riguarda il fat-
to importante che mentre negli anni sessan-
ta/settanta l’urlo, anche il più estremo, con-
teneva una coralità e i luoghi da cui veniva
lanciato erano luoghi pubblici, le piazze ap-
punto, oggi l’urlo è muto, solitario, domesti-
co. Il noi scompare e le battaglie, più o meno
vincenti per difendere i propri diritti o per
sentirsi riconosciuti socialmente, diventano
fatiche personali che se non raggiungono un
esito vengono considerate veri e propri falli-
menti personali. Sono molti i gesti silenziosi
che vengono letti, quasi esclusivamente, con
le categorie della psicopatologia e non come
fenomeni di vero “estraniamento” sociale. Ci
sono i giovani che si chiudono in casa, che
si tagliano, che si sballano quotidianamente,
che smettono di studiare e di cercare lavo-
ro, che migrano senza sapere dove riuscire
a mettere radici. Se lo slogan degli anni ses-
santa era “Il est interdit d’interdire” (vietato
vietare) lo slogan contemporaneo si è tra-
sformato in “vietato sognare”. Michele scrive
Questa generazione si vendica di un furto, il
furto della felicità.”
A questo ho pensato.
1,2,3,4 6,7,8,9,10,11,12,13,14,15,...24
Powered by FlippingBook