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SPIRITUALITÀ E DINTORNI
“Sono impressionanti i dati riguardanti le persone costrette a fuggire dal pro-
prio paese per espatriare o semplicemente per finire in campi profughi.”
di Mons. Vinicio Albanesi
L
a
UNHCR - agenzia dell’O-
NU -
ne ha conteggiate
65
milioni
, come se l’intera
Ita-
lia
fosse costretta ad emi-
grare, senza conoscere il proprio futu-
ro. Il totale di
65.3 milioni
comprende
3.2 milioni
di persone che erano in
attesa (dati 2016) di decisione sulla
loro richiesta d’asilo;
21.3 milioni
di
rifugiati nel mondo e
40.8 milioni
di
persone costrette a fuggire dalla pro-
pria casa ma che si trovavano ancora
all’interno dei confini del loro paese.
Metà di questa popolazione ha un’età
inferiore dei 18 anni.
A livello globale, con una popolazione mondiale di
7.349 miliardi
di persone, questi
numeri significano che
1
persona su
113
è oggi un richiedente asilo, sfollato interno
o rifugiato.
Tre paesi producono metà dei rifugiati. L
a
Siria
con
4.9 milioni
di rifugiati, l’
Af-
ghanistan
con
2.7 milioni
e la
Somalia
con
1.1 milioni
. Allo stesso tempo, la
Co-
lombia
, con
6.9 milioni
, è il paese con il più alto numero di sfollati interni, seguita
dalla
Siria
, con
6.6 milioni
, e l’
Iraq
, con
4.4 milioni
. Lo
Yemen
è il paese che ha
dato origine recentemente al maggior numero di nuovi sfollati interni
2.5 milioni
di
persone, il
9%
della sua popolazione.
I freddi numeri minimizzano la tragedia di intere famiglie senza più nulla: casa, la-
voro, legami, parentele. Eppure non si riesce a trovare il bandolo di una soluzione o
almeno di un rallentamento del fenomeno dell’emigrazione forzata.
Superficialmente la responsabilità di guerre ed emigrazioni si affida alla politica. In
realtà, ad una più attenta analisi, il nocciolo duro di simili fenomeni è da intestare
alla cultura dominante dei paesi ad alto reddito.
Infatti la grande massa delle persone costrette a lasciare il proprio paese appartie-
ne a popoli di basso e medio reddito: insomma i ricchi sanno ben tutelare i propri
territori e non si affannano ad occuparsi di problemi altrui.
Si spiega così l’odiosa retorica di chi afferma – sempre di più – di non doversi oc-
cupare di questioni altrui. I paesi che, per alcuni versi sono collegati globalmente,
improvvisamente diventano autoctoni, pieni di tutele per i propri cittadini, senza
preoccuparsi di altro.
Eppure le politiche commerciali, finanziarie, l’approvvigionamento delle materie
prime, i beni essenziali al benessere della popolazione si intercettano e si scambia-
no tra tutti i paesi. Improvvisamente tale collegamento viene negato al momento
di affrontare i problemi di quei paesi che pure sono utili per le loro materie prime.
Si pensi al petrolio, al gas, al legno, ai cereali, al mais, ai minerali da cave. Pro-
vengono per la maggior parte da quei paesi che pure non riescono a garantire la
sicurezza e il benessere di base alla propria gente.
Un’ingiustizia che si perpetua, grazie al potere assoluto (finanziario, commerciale,
di comunicazione) che pochi paesi hanno nei confronti di molti altri che pure po-
trebbero autoalimentarsi e vivere dignitosamente.
Non è sopportabile che questi collegamenti siano ignorati; anzi, c’è qualcuno che
nega le dipendenze dai paesi terzi, illudendo su un protezionismo che non soprav-
vivrebbe mai con una politica autarchica.
Non è questione di ignoranza, ma
semplicemente di egoismo: diffuso,
sfacciato, disumano. Purtroppo il ricatto
è commerciale, approfittando
delle contraddizioni che anche
nei paesi cosiddetti emergenti sono
gravi e numerose; così possiamo continuare
ad approfittarci della situazione.
Il problema è per il futuro: una società globalizzata deve trovare un equilibrio che
permetta il benessere – almeno quello di base – come l’istruzione, la salute, il lavo-
ro sia garantito a tutti. In maniera contraria le contraddizioni potrebbero riversarsi
anche nei nostri paesi: primo fra tutti il terrorismo o altre forme di violenza. Si stan-
no vivendo giù le prime avvisaglie.
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