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            “Quando mi hanno telefonato per chiedermi di scrivere nuovamente del terre-
          
        
        
          
            moto ho pensato che fosse una cosa giusta”.
          
        
        
          
            
              Di Gian Mario Bachetti
            
          
        
        
          H
        
        
          o pensato che non bisogna spegnere i riflettori col tempo che passa, che
        
        
          è facile sporcarsi mani e parole quando la ferita è aperta, arrivare a dire la
        
        
          propria in sala operatoria; ma è difficile farlo quando sui giornali si scrive
        
        
          altro e sui social si condivide altro e al bar si parla di altro. Mi sono preso
        
        
          sul serio e ho creduto di fare del bene, di fare la mia parte. Con i giorni che passava-
        
        
          no però, non riuscivo ad aprire il file Word, non sapevo cosa dire e a chi dirlo.
        
        
          “
        
        
          In questi mesi ho viaggiato molto
        
        
          per lavoro, ho percorso l’Italia
        
        
          in lungo e in largo, ho pensato
        
        
          a tante e troppe cose – non ricordo
        
        
          quando sono riuscito a leggere l’ultimo libro,
        
        
          
            dannazione
          
        
        
          – e nella confusa e imprevedibile
        
        
          quotidianità che mi sono dovuto ricucire
        
        
          addosso ho perso quell’ancora
        
        
          che mi teneva legato
        
        
          alle macerie.
        
        
          ”
        
        
          Sono mesi che non torno a casa, che non passo lungo la Salaria.
        
        
          Una delle mie più care amiche qui a
        
        
          
            Roma
          
        
        
          ha una casa a poche centinaia di metri
        
        
          da
        
        
          
            Amatrice
          
        
        
          . Una casa in cui ha festeggiato tutti i compleanni della sua vita, i primi
        
        
          di settembre, quando le scuole stanno per riiniziare o si preparano gli esami lasciati
        
        
          indietro dalla sessione estiva. Aveva una casa –
        
        
          
            immagino
          
        
        
          - che ora è completa-
        
        
          mente inagibile e probabilmente mentre scrivo non esiste neanche più. Ci siamo
        
        
          scritti un lunedì: il giorno prima era salita tra le (sue, nostre) montagne e aveva scel-
        
        
          to i mobili e i vestiti da portare nella nuova casa in cui è in affitto e che dista pochi
        
        
          metri dalla mia. Mi ha scritto che i mobili quel lunedì sera erano tutti affastellati in
        
        
          salotto e che erano ancora sporchi del bianco dei calcinacci. Le scrivevo che non
        
        
          potevo immaginare quanto potesse essere dura e lei mi rispondeva con in testa un
        
        
          cappello del nonno che vorrebbe continuare portare per non sentirsi trascinar via.
        
        
          Ho pensato che anche io ho molti vestiti di mio nonno e forse non li porto solo per
        
        
          lo stile o per la taglia, ma per quell’imprescindibile bisogno che abbiamo di non
        
        
          lasciare andare via il passato.
        
        
          Qualche giorno dopo, mio zio mi ha inviato le foto del paese dove la famiglia di
        
        
          mia madre ha una casa per le vacanze estive, il paese in cui ancora oggi, a quasi
        
        
          trent’anni, mi piace giocare a nascondino con gli amici. Ma ora le case sono ab-
        
        
          battute, con nuove piazze di nulla dove c’erano i muri in cui facevamo la tana. E
        
        
          io non riesco a pensare che sia così. Non riesco a vedere il paese senza le case,
        
        
          nonostante le case siano polvere e le foto testimoni inamovibili.
        
        
          Il tempo è un anestetico terrificante; o forse è solo istinto di sopravvivenza e incon-
        
        
          sciamente rimuovo passato (non provo dolore) e futuro (non sono preso dall’ansia
        
        
          nel pensare all’estate che arriva) per stare comodo nel presente e nel cappotto di
        
        
          mio nonno.
        
        
          Scrollo su Spotify le canzoni che ascoltavo l’anno scorso in questi stessi giorni e
        
        
          sembra passato un secolo, ché la vita ora è così e tutto viene macinato e triturato
        
        
          nel giro di pochi secondi e tutto è già vecchio prima che si possa davvero capire.
        
        
          Sono già vecchie le canzoni e le serie tv, ma anche sentimenti e sensazioni. Non
        
        
          dovrebbe essere così. Dovremmo tenerci stretto tutto, anche il dolore e riattivarlo
        
        
          nei momenti in cui è opportuno ricordare. Perché l’apocalisse l’abbiamo vista e mi
        
        
          fa male la testa se ripenso a quelle ore in cui vagavo allucinato nel ghetto ebraico
        
        
          aspettando i messaggi delle persone che mi stanno più a cuore. Non si tratta di un
        
        
          esercizio di stile: si tratta di rispetto. Rispetto per chi sotto le macerie ci è morto,
        
        
          per chi non ha più nulla, per noi stessi. È facile abbandonarsi alla retorica della
        
        
          
            memoria,
          
        
        
          ma non mi piacciono i nomi comuni con la prima lettera maiuscola: vo-
        
        
          glio riappropriarmi dei miei minuscoli ricordi e indossare quelli delle persone a cui
        
        
          voglio bene. Come porto il cappotto di mio nonno, come P. porta il cappello del
        
        
          suo. Non abbandoneremo mai la nostra terra natia!
        
        
          ATTUALITÀ •
        
        
          IL MONDO PICCOLO
        
        
          La memoria con la
        
        
          “m” minuscola