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CULTURA •
OSSIMORI
“Rasha ci guarda dal grande scher-
mo. La videocamera la inquadra sen-
za mai muoversi, stretta sul suo vol-
to, ferito e antico. Rasha è siriana di
Damasco.”
Di Giuseppe Frangi
Dimostra un po’ più
degli anni che proba-
bilmente ha, ma in lei
si scorge un’energia
più forte del cumulo di
dolori di cui la sua vita
ha dovuto farsi carico.
Rasha ha vissuto con
i suoi due figli in un
campo profughi alle
porte della capitale si-
riana.
U
n giorno, mentre era nel cam-
po, la scheggia di una bomba
l’aveva colpita e resa cieca.
Anche per questo
Rasha
e i
suoi figli hanno lasciato il campo per
andare in un altro campo in
Libano
. Qui
hanno incontrato gli operatori di
Sant’Egidio
che li hanno inseriti nel
programma dei corridoi umanitari. Ra-
sha è arrivata a
Roma
con i suoi figli,
nella sede che la Comunità allestita per
l’accoglienza, proprio nei giorni in cui
un artista,
Adrian Paci
, anche lui “mi-
grante” essendo nato in
Albania
, stava
lavorando ad un progetto per docu-
mentare la condizione umana dei pro-
fughi. Cercava persone disposte a rac-
contare la loro storia, come materiale di
partenza per un lavoro da sviluppare.
Appena lo seppe Rasha si offrì, obbe-
dendo a quel bisogno potente che ave-
va dentro di mettere insieme i pezzi del-
la sua tormentata vicenda. Ed ecco
Adrian Paci piazzare la sua videocame-
ra e mettersi in ascolto di un racconto
interrotto dall’interprete che traduceva
dall’arabo. Paci, da artista, aveva subi-
to intercettato nel volto di Rasha un
portamento che lui ha definito “masac-
cesco”. Per questo aveva scelto un’in-
quadratura stretta, che esprimesse la
saldezza del suo volto. La sorpresa ar-
rivò nel momento del montaggio: ri-
guardando il girato Paci restò colpito
dalle espressioni di Rasha durante le
pause in cui si fermava ad aspettare
l’interprete. Così con quella che può
essere definita uno strappo di grande
portata poetica, ha deciso di disallinea-
re le immagini dalla voce. Così noi ve-
diamo Rasha mentre lei stessa in silen-
zio ascolta la sua voce, la stessa che
noi sentiamo (e che leggiamo su un
poster tradotta: un poster da prendere
e portare con noi e che nella prospetti-
va di Paci risulta un dispositivo piena-
mente parte dell’opera).
Il risultato è coinvolgente e impressio-
nante. La storia di Rasha come una
ventosa si attacca alla nostra vita, non
per i dettagli pur impressionanti di cui
rende conto, ma per quella sua capaci-
tà di rendersi presente a noi, grazie alla
mano che non vediamo dell’artista. «La
grazia creativa è una dimensione im-
portante nel lavoro artistico», racconta
e spiega Adrian Paci. «Il lavoro infatti
non è frutto di un calcolo, ma di un in-
contro capace di accendere uno stupo-
re, innanzitutto in me come artista e poi
in chi si troverà di fronte all’opera che
ne è scaturita. È così che l’opera riesce
a generare un dialogo vero. Non ci può
essere nulla di programmatico. Semmai
c’è la necessità di lasciare emergere e
condividere un’intenzionalità implicita. Il
volto di Rasha è come una finestra at-
traverso la quale leggiamo qualcosa di
meno esplicito di quello che avremmo
potuto aspettarci». Di meno esplicito e,
inaspettatamente, di molto più profondo.
Per Paci quando si concepisce un’o-
pera bisogna sottrarre l’interlocutore
dalla necessità di capire. Perché, lui
spiega, si capisce nel momento in cui si
fa esperienza dell’opera, non tentando
di decifrarne i significati. «È importante
questo rapporto tra il capire e il patire,
il capire attraverso il patire», racconta.
«Questa dimensione del fare esperien-
za quasi passionale nelle cose, di ten-
tare di andare oltre alla definizione della
cosa, alla classificazione della cosa. In
questo modo un lavoro diventa impor-
tante per l’artista stesso. Innanzitutto
l’artista non è colui che “sa”. Non è co-
lui che vuole raccontare agli altri quel-
lo che lui già sa, ma è colui che vuol
capire lui stesso, e allora fa esperienza
dell’opera. L’esperienza dell’opera la
di ha nel farla, come è accaduto a me
davanti a Rasha. È un processo attra-
verso cui uno capisce di più. Spesso,
anche quando insegno, dico ai miei
studenti dell’accademia di non utiliz-
zare l’espressione: “attraverso quest’o-
pera voglio far capire…”. È una formula
che viene usata spesso. Invece no, io
dico loro “tu non devi far capire nulla,
tu devi capire, prima di tutto”. Se fac-
ciamo delle opere è perché vogliamo
capire di più: allora il processo di fare
delle opere è un processo di esperien-
za che poi si trasmette a chi si troverà
di fronte al lavoro. Perché chi si mette
davanti all’opera ha la domanda insoli-
ta di fare un’esperienza. Per questo un
artista non finisce un lavoro, ma lo con-
segna allo sguardo degli spettatori. In
un certo senso lo abbandona alla loro
esperienza».
Una delle opere più celebri Paci è una
scultura autoritratto, realizzata facendo
il calco del proprio corpo. Ha la postura
piegata in avanti del migrante - vian-
dante che cammina. Sulle spalle porta
le falde di un piccolo tetto, a simbolo
della casa che il migrante cerca e un
po’ porta con sé. Ma quelle falde sulle
spalle possono essere percepite come
delle ali. In questo scarto di significa-
to c’è lo spazio dell’arte, che quando
si libera dall’ansia di capire, trasforma
le esperienze degli uomini. Migrare vuol
dire abbandonarsi ad un sogno. Segui-
re un sogno. Forse volare.
Migrare e abbandonarsi al sogno
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