Itaca n. 8 - page 1

Di Giuseppe Frangi
«
Vidi poi un nuovo cielo e una
nuova terra, perché il cielo è la
terra di prima erano scomparsi
e il mare non c’era più».
È un versetto dell’
Apocalisse (21,1)
che Alessandro Leogrande aveva scel-
to come esergo del suo libro - un libro
imperdibile - dedicato all’immigrazione
(Frontiere, Feltrinelli). Leogrande è morto
all’improvviso il 26 novembre lascian-
doci l’insegnamento prezioso del suo
metodo e le ancor più preziose parole
depositate sulle pagine. Cosa insegna
Leogrande? Che la realtà va vista da
vicino. Che ogni grande discorso nulla
vale rispetto alla verità di uno sguardo.
Per raccontare l’immigrazione bisogna
partire da qui, dalla narrazione di prossi-
mità che non si risolve nelle storie, belle
o drammatiche che siano. La narrazione
di prossimità è un processo che porta
ad esplorare profondità. Che ci conduce
su quella faglia fragile e insieme epocale
evocata dai versetti dell’Apocalisse. Sia-
mo davanti ad una nuova terra e anche
ad un nuovo cielo. Il “nuovo” è sempre
la forza trainante della storia. Ma non
sempre il “nuovo” si palesa (per fortuna)
come esercizio di potenza, che sia quel-
lo di un singolo uomo o che sia quello
di una maggioranza marciante. Questa
volta il “nuovo” ha fatto breccia nella no-
stra storia attraverso le biografie fragili
di uomini senza terra e senza patria. Era
accaduto più o meno così anche 2mila
anni fa, per la vicenda di una famiglia pa-
lestinese migrante costretta a pernottare
ai margini della città. Si ripete oggi, mol-
tiplicato per migliaia e migliaia di donne,
di uomini e di bambini. Ma al di là del
dolore, della fatica, della paura in cosa
consiste il “nuovo” che loro portano tra
le nostre case e le nostre strade? C’è
una parola semplice che spiega tutto:
“futuro”. Deve farci riflettere questo pa-
radosso. Noi, che sulla vecchia terra non
manchiamo quasi di niente, siamo impo-
tenti a immaginare o a sperare in ciò che
verrà. Loro, che sono sguarniti di tutto,
invece dispongono di un’energia, più for-
te di ogni avversità, che li sospinge nel
futuro. Glielo leggi negli occhi, lo perce-
pisci da ogni loro gesto. Vivono proiettati
già sotto un cielo di cui non sospettava-
mo neppure la possibilità. Sperano, di
una speranza che scavalca la vecchia
terra per loro irta di ostacoli, trappole
e di rancori; la vecchia terra che non li
vorrebbe, ma che intanto sta per preci-
pitare su se stessa. Vinceranno loro, per
fortuna nostra. Disegnando anche il no-
stro futuro con i loro gesti e i loro sguardi.
L’unico futuro praticabile e possibile per
una terra esausta: quello che riporta la
fragilità al centro dell’esistere.
m a g a z i n e
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