Itaca n.1 - page 27

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Storie Americane - Baba
sulle mie cattive strade
estratti dal blog ama-aquilone
di Amilcare Caselli
Baba. Si chiama Baba e devo aver avuto il suo
numero sul cartoncino dei fiammiferi di un Su-
per8 motel fino a qualche anno fa, in un cas-
setto.
Baba me la presentò Charles. Charles lo avevo
conosciuto un giorno di Giugno andando ver-
so sud sulla 2nd da Nashivlle downtown. Dopo
un chilometro, un paio di grandi mall, un porno
shop ed un cavalcavia, la Second Street pas-
sa nella South City, la suburbian con le strade
dritte e larghe, coi negri stesi al riparo dal sole
nelle verande, dietro le staccionate delle case
di legno dipinte verdechiaro, scrostate, che ca-
dono a pezzi, mentre i figli giocano in strada e
spacciano crack tra le macchine in sosta e agli
angoli degli isolati.
“U wanna do’ man? …do ya wan’ that fucking
dope man?”
Non risposi subito ma si vedeva che Charles
era diverso, forse da come si muoveva perché
sembrava frocio, ma non solo quello. Era at-
taccato con le due mani alla portiera e con la
testa piena di ricci sbirciava dentro, occupa-
va la luce del finestrino aperto. Il suo profumo
troppo dolce e forte mi impedì di rispondere.
“Vai! vai!…Li vedi quelli?” 
Veloce salì in macchina indicando tre o quattro
ragazzetti coi jeans enormi, fuori taglia e calati
sotto al culo, canottiera e bandana.
“quei motherfucker là, baby stai lontano da
loro, tu sei yankee, ti odiano, ti rubano i soldi”
E rideva, malediceva col dito medio e rideva.
Dimostrava si e no diciassette anni e profuma-
va come una puttana. Io non parlavo, pensavo
solo che l’olezzo mi sarebbe rimasto in mac-
china per un bel po’.
Ma c’era qualcosa di gentile, come la consa-
pevolezza, o l’ironica rassegnazione alla scon-
fitta di certi vecchi habitué dei casinò, in que-
sto ragazzo nero che adesso si guardava nello
specchietto con fare da femmina.
“Veramente odiano pure me e mi pestano,
quelle merde fottute, mi rubano pure i pochi
soldi che alzo, quegli asshole!…Vai, vai… gira
qui. Vuoi roba man?” e sorrise di nuovo.
Avevo in macchina un negro, spacciatore fal-
lito e drogato. Frocio e pure discriminato dai
suoi fratelli.
“Bella macchina, come ti chiami fratello. io
Charles, ma ti prego non chiamarmi Charlie”
Pronunciò Charles all’inglese, trattenendo il
suono in gola. Charlie invece lo disse strasci-
cato, come tutti gli accenti del sud.
“vai.. si vai, vai, se vuoi la roba buona andiamo
da mia cugina Baba. Sì, gira qui a Lafayette a
destra e poi giù per la Cannon” 
disse scivolando all’improvviso dal sedile fin
sul tappetino di moquette grigia, facendosi il
segno della croce: stavamo passando davanti
la chiesa metodista del quartiere, da cui usci-
vano donne enormi, 150 chili di carne neris-
sima, vestite di bianco e di pizzo coi mariti in
gessato beige.
“Cazzo, mia zia, vai..”
Charles mi piaceva e mai e poi mai m’è venuto
in mente di chiamarlo Charlie.
“Non mettere la macchina davanti. Mai mettere
la macchina davanti casa di Baba, specie que-
sta che è da bianco, meglio là dietro”.
Scendiamo da un viottolo sul retro, nel
backyard. Il primo passo, che ho fatto con
gli stivali appena comprati in centro a Church
Street, sollevò uno sbuffo di terra rossa.
Nella casa di Baba si entrava dal retro ché da-
vanti, dalla Cannon sembrava disabitata. Ser-
rata.
Era azzurra, sbiadita, di fasce di legno leggero
sovrapposte. Alle finestre assi inchiodati.
Il backyard era di terra rossa e secca che a me
fece pensare all’Africa. Ancora lo ricordo bene
quel primo passo. Lo ricordo al ralenty come
quello di Armstrong nel 69. Tanta polvere ros-
sa, solo che in tv era grigia. In bianco e nero.
C’erano due pali storti, ficcati male in terra, con
una corda per stendere panni di bambini. Ci
sono bambini.
Un furgone Ford, giallo, senza ruote, su pile
di mattoni, pitturato a mano e qualche scrit-
ta hippie venuta male. Il portellone scorrevole
aperto e dentro due divani strappati ed un luri-
do tappeto. Bottiglie di birra vuote e spaccate,
posaceneri stracolmi, una cassetta che faceva
da tavolino e resti di cibo di una festa e di un
fuoco, troppo vicino al ford pensai. Una rivista
porno nella polvere.
“vedi” mi fa Charles “qui nel quartiere ogni tan-
to si fa festa, la prossima ti chiamo, anzi dammi
il numero che ti bippo col cercapersone”. Ave-
vo notato che molti neri della suburb avevano
il cercapersone alla cintura.
Era un buon metodo, economico e sicuro per
gli spacciatori, per avvertire i clienti e vicever-
sa.
Avrei scoperto che ogni quartiere aveva un
suo codice. Per il southeast suburb di Nash
e sopratutto per questo slum, un bip era ok,
due bip aspettare e richiamare e tre si andava
a domani che c’erano problemi o troppi cops
in giro. Li chiamano slums o ghettos i quartie-
ri, i neighborhoods chiusi da mura da dove si
entra da una parte e si esce solo da un’altra. I
ghetti dei neri sono piccole città stato che vivo-
no di vita, morte, clan, spaccio, feste e funerali
propri. 20 o 30 casermoni di mattoni rossi tutti
uguali, un piccolo parco uno square col cesto
da basket ed alcune vecchie casette di legno
con veranda.
“La prossima festa ti chiamo e se tu mi dai 20
bucks (dollari) per farmi le treccine, ti porto la
meglio coca e crack di south nash. Vedi come
sono ridotto. Sono nappy, i miei capelli sono
nappy”. 
In effetti Charles aveva un testone assoluta-
mente afro anni 70, secondo me era bellissimo.
“sei come Jackson da bambino” gli faccio.
“no i miei capelli fanno schifo e non ho 20 dol-
lari per sistemarmi le treccine”
Lo sterrato rosso dietro casa sembrava fini-
re contro le mura di legno a balze azzurre del
retro ma Charles si infilò in una siepe, di lato,
strusciando tra quella e la rete del vicino. Un
metro e mezzo e ci trovammo davanti ad una
porta. Entrai, subito accecato dal buio. Non
so se era più forte l’odore di muffa o lo stantio
di qualcosa andato a male perché subito ho
avuto dei violenti conati. Se respiravo a fondo
rischiavo di vomitare. Prendendo poca aria alla
volta speravo di abituarmi. C’era silenzio.
Avvertivo Charles che si allontanava per un
corridoio stretto e buio. Tentai di seguirlo men-
tre le pupille cominciavano a mettere a fuoco
cataste enormi di vestiti e biancheria che puz-
zavano.
“hey” mi arriva una voce tra due mucchi,“was-
sup man” faccio io passando, fingendo tran-
quillità, sento altre voci. Qualche risata dagli
stracci.
C’era gente in quell’oscurità, e odore di cibo
marcio. Dove la stanza si feceva più larga vidi
un letto, mi ci diressi. Mi sembrò di avere un
malore perché persi quasi l’equilibrio, il pavi-
mento affondava di lato ad ogni passo così ap-
poggiandomi alla parete vedo Baba.
Stava lì vicino al letto, piccola e magra con le
mani sui fianchi, la testa reclinata di lato gonfia
di capelli nappy come Charles di cui adesso mi
arrivava la voce, si era fermato a litigare con
qualcuno per un pippotto di crack, che secon-
do lui gli doveva.
Il legno marcio, i mucchi di stracci, le tende
rosse e pesanti alle finestre, facevano arriva-
re le voci ed i rumori come dall’altra parte del
mondo ma lei era lì difronte a me. Jeans e ma-
glietta troppo grandi, tutt’ossa, doveva essere
stata bella, gli occhi neri, seri nei miei. La boc-
ca all’ingiù.
Il colorito da mulatta ma grigio sotto gli occhi.
Le braccia troppo magre come il collo.
Le uniche luci della stanza erano le stelle gialle
della corona illuminata di una enorme Madon-
na di plastica appesa al muro sopra al letto
ed una abat-jour con una lampadina rossa di
vernice.
Nella camera vidi soprammobili, una bici da
bambino, pannolini, siringhe e scatole vuote
di medicinali, pipe di vetro scurite dal crack,
due bambole, una bionda ed una negra, i resti
di un panino sulla carta di burgerking e lattine
vuote di pepsi in un angolo della moquette gri-
gia. Il sole filtrava a raggi dalle assi alla finestra,
splendendo immobile sul pulviscolo.
Baba si avvicinò guardandomi negli occhi,
sempre con le mani sui fianchi, fino ad un pal-
mo dalla faccia, guardandomi dal basso col
collo magro e teso verso di me, come a dirmi
che cazzo vuoi. Cosa sei venuto a fare tu qui.
Non vedi che inferno. Volevi vedere l’inferno,
beh eccotelo. Ma non disse niente.
Continuò a guardarmi con quell’aria di sfida e
disse solo: “not here”. 
“not here what” feci io.
“i sleep here with my kids”. 
“ok. not here” ma continuavo a non capire. Mi
sfiorò passandomi davanti camminando con
una strana tecnica collaudata per quel pavi-
mento elastico ed io pensai che fosse brava a
ballare. Pensai alla festa che avremmo fatto nel
ford dietro casa.
Entrò in una porta, si fermò un attimo e mi fece
cenno di seguirla. Era uno stanzino, forse una
lavanderia che era poco più di un bagno di cui
ricordo l’odore di piscio e la lavatrice faceva
una chiazza marrone per terra. Baba prese un
asciugamano, lo stese per terra, su un ma-
terassino tra la doccia e la macchia marrone
della lavatrice; poi sempre guardandomi si sfilò
la t-shirt, così vidi le costole, le spalle, quello
che una volta dovevano essere stati dei gros-
si seni e i grandi capezzoli di chi ha allattato
troppo. Guardavo i particolari, solo i particolari,
persino come buttò la cicca di sigaretta di cui
sentii lo sfregolìo centrando il buco del cesso.
Sentivo a fondo solo i particolari. Si tolse i je-
ans e li piegò per bene, con cura, sulla lava-
trice, rimanendo in mutande che poi sfilò dai
piedi, alzando a turno le ginocchia. Ora aveva
le braccia lungo i fianchi mentre io riuscivo a
pensare soltanto che il corpo nudo al di là di
ogni fattezza è sempre tragico. Vinto.
Baba mi guarda, mi esorta, “so what, man” 
A quel punto mi riprendo, tendo le braccia in
avanti “no Baba no, non ci siamo capiti. The-
re’s a misunderstanding. No, ok no. What the
hell… No!”
Uscii da lì come un ladro, col respiro corto, cer-
cando Charles che stava con un tipo dall’ac-
cento spagnolo e fumava crack giallo da una
cannula di vetro ormai nera come la sua pelle.
“Hey” mi fa “tutto bene culo bianco?” 
“Tutto bene un cazzo, vieni qui brutto stronzo
rottoinculo. Per chi cazzo mi hai preso? Volevo
solo della roba e tu mi sa che sei peggio dei
tuoi amici del quartiere. Quella mi si è spoglia-
ta davanti credendo che la volessi pagare per
scopare, stronzo. Tu con me il pappa non lo fai.
Motherfucker di un nigga’s asshole!”
“Ok calma” mi fa Charles “ma è normale, vedi,
Baba adesso ha finito la roba e quando finisce
la roba finiscono i soldi e qui diventa sto casi-
no che vedi. Senza la roba scoppia il delirio,
non ci si capisce niente, la gente entra ed esce
come vuole, lei è di là che dorme con gli psi-
cofarmaci o sta a letto ché sta male. Quando
sta meglio se ce la fa lavora, lava i panni per i
vicini, oppure batte per alzare qualche dollaro
ed allora succede che i figli li affida a qualche
donna sicura del vicinato prima che glieli porti-
no via i servizi sociali. Lei fa di tutto per alzare
due soldi, e se tu volevi fare l’amore, man, poi
coi soldi e col regalino lei c’andava a prendere
la roba buona qui vicino, che solo lei ci può an-
dare da quei negri bastardi. Ché a quelli mica
gliene frega niente dei figli o di chi sta male,
vogliono il cash e basta. Poi la roba si vende,
si fa un po’ di festa si tirano su un po’ di sol-
di col crack, perché Baba c’ha un tumore e le
hanno detto che non va avanti per molto ma lei
ci vuole provare a tirare su due soldi anche da
lasciare a Mike e Sunny, i due figlioletti, prima
di andarsene, you know what i mean….”
Tirai fuori  cento dollari dal portafoglio e tor-
nai da Baba che adesso stava in ginocchio
sul letto contando le gocce che da un flaco-
ne scendevano in un bicchiere. Le ho steso il
centone senza dire una parola. Lei lo ha preso
guardandomi, mettendo orizzontale il flacone,
fermando le gocce.
Mi guardò con lo stesso sguardo di prima.
“Appreciated” ,disse.
Girò in verticale il flacone, la prima goccia ci
mise un po’ per uscire e cadere nel bicchiere.
“twentyone… twentytwo…” diceva Baba, sof-
fiando piano tra le labbra, senza suono.
1...,17,18,19,20,21,22,23,24,25,26 28,29,30,31,32
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