Itaca n.1 - page 18

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next · dal, sul, nel carcere
“Come stai Gino?”
Se dovessi dare un aggettivo alla mia vita oggi
la definirei “complicata”. Il lavoro non mi per-
mette di vivere sereno e ci costringe a molte
rinunce, così io e mia moglie per tirare avanti
facciamo di tutto. Sergio nostro figlio tra poco
compie 13 anni e ci divide tra impegni, sod-
disfazioni e preoccupazioni nonostante tutti
i sacrifici fatti e la dura realtà di ogni giorno,
da dicembre in poi mi sono arrivate condanne
definitive di 2 anni e 8 mesi, altri 8 mesi arrivati
alla cassazione in più un altro processo serio
che pur essendo in primo grado ci costringe
ad andare in tribunale quasi ogni 15 giorni.
Per tutte queste cose vivo spesso tra i miei
impegni, l’Ansia e la paura di un passato che
mi cammina dietro, ma continua ad inseguirmi.
L’idea di poter perdere il “mio mondo”, la mia
famiglia mi lacera e mi provoca tensione, ma
appena torno a casa, li guardo, li abbrac-
cio forte e guardo avanti. So perfettamente
che la mia non è una storia straordinaria ma
semplicemente simile a quelli di tanti altri così
cerco di essere fiducioso e non mi arrendo.
In fondo sono un fortunato, mi ricordo che ho
attraversato il deserto a piedi nudi, mi ricordo
la mia comunità, gli operatori, i miei compagni,
mi ricordo quelli che non ci hanno nemmeno
provato e quelli che hanno provato a farlo
ma che la paura li ha uccisi. Mi ricordo i risi,
i pianti il dolore e la gioia. Mi ricordo quanto
ero convinto di sapere delle cose e come mi
hanno insegnato non bastava perché prima
dovevo capire, fino in fondo, poi viverle. Mi
ricordo quando tutto mi sembrava sbagliato e
senza senso, ma non lo mollato. Ci ho creduto,
ci ho messo l’anima, sono caduto e mi sono
rialzato. Ognuna di quelle persone mi è stata
vicina, mi ha sopportato, mi ha incoraggiato, e
in fondo mi ha regalato un’opportunità unica.
Ed è per questo che ancora oggi provo per
ognuno di loro un’ amore, una riconoscenza
immensa, ed e per questo che ogni volta che
entro in un qualsiasi centro della cooperativa
so di essere a casa e rimane per me l’unico
posto al mondo dove in qualsiasi circostan-
za o momento arrivo trovo qualcuno che mi
abbraccia e mi chiede “Come stai Gino?”
Gino R.
A un anno dalle dimissioni... storia di un
fiore che nasce.
Ho pianto quando messa a letto mia figlia
mi sono ritrovata con quella medaglietta tra
le mani. Non era stato facile.. un fortissimo
carico emozionale, la fine di un percorso spir-
ituale, mi sentivo quasi sfrattata dalla casa..
confusa, fiera e incredula. La domanda era:
e ora? Da sola ce la faccio? Io che per tanti
anni ho distrutto tutto, azzerato i sentimenti..
con rabbia da vendere. Finalmente stavo bene
in quella casa e ora ero fuori ancora in mezzo
al caos. Ma già da subito iniziavo a capire
che la casa non era dove dormivo..ormai era
dentro di me. La paura e la solitudine sono
state tante forti e terribili ma qual’cosa era
cambiato. Avanti con tenacia. È assoluta-
mente vero che avevo analizzato tanti aspetti
di me ma il fuori restava tutto uguale..adesso
però volevo di meglio. Piano piano ho trovato
belle persone che, col tempo e dimostrandogli
il mio cambiamento, mi stanno vicino. Tanti
duri problemi ho affrontato e non è stato facile.
Un giorno un mio amico mi disse: vedrai che
sarai cambiata quando potrai apprezzare la
nascita di un fiore. È proprio questo il bello..
apprezzare le piccole cose che prima nem-
meni notavi. Ammirare ed emozionarsi per
un sorriso, un tramonto,le spighe del grano
maturo, il profumo dei limoni, la bontà della
marmellata fatta in casa. Scontrarsi con la
cattiveria di certe persone è stato arduo, la
vita non ti spetta, il gioco è spietato, la società
non ti tratta bene perchè sei stata chiusa in un
mondo di 600 metri quadri per 2 anni, devi rim-
boccarti le maniche, stringere i denti e sceglire
tutti i giorni, con la guardia alzata..ma voglio
raccontare una cosa bella che mi è successa
proprio ieri: era una bella giornata di sole, finiti
gli stressanti impegni giornalieri sono andata in
giardino con Sofia a piantare i fiori; appena mi
giravo il cane mi spiantava tutte le cocce, Sofia
rideva io ero serena e il mio cuore si struggeva
di felicità.
È un anno che ho quella medaglietta, l’ho
spesso lavata di lacrime ma oggi sorrido men-
tre guardo i miei fiori nascere accanto a quello
più prezioso..mia figlia.
Silvia S.
Le celle troppo piccole per ospitare tutti,
spazi che contengono un numero di per-
sone più grande di quello per cui sono
organizzati, spazi che non accolgono,
restringono.
di Carla Capriotti
È difficile scrivere sul carcere, trovare le parole
adatte per trasmettere la profonda dignità
delle persone detenute, la vergogna, la rabbia,
la colpa e la pazienza.
Da qualche anno mi trovo a trascorrere delle
ore nella Casa circondariale di Marino del
Tronto. È un’esperienza che ho scoperto fanno
tante persone, volontari, insegnanti, operatori
che mettono passione e tempo per rendere
nuovo e diverso il tempo dilatato degli uomini
che abitano il carcere. La mia esperienza ha
a che fare con il racconto delle storie, con la
condivisione dei pezzi di vita che i detenuti che
incontro, desiderano mettere in gioco sceg-
liendo di affidare ad altri i dettagli e gli episodi
della vita fuori.
Quella volta che B. lasciò una ragazza al mare,
perché era noiosa e aveva capito che non
gli piaceva più. Il caffè la mattina a casa col
profumo di bucato e il sole dalle finestre, nei
racconti di A.
Il bagno al fiume d’estate, l’acqua gelida e la
bella compagnia nei ricordi di G. Il racconto
meravigliato del sogno di V., un giardino e una
villa, nella quale si sarebbe ritrovato davvero
anni dopo. Una figlia nata e ancora mai incon-
trata. Una madre lontana, una lettera attesa.
Alcuni degli uomini che incontro in carcere non
vogliono sentir parlare di carcere, altri chiedo-
no di raccontare fuori, quanto è difficile stare
dentro. Io quanto è difficile in realtà non lo so,
forse non so neanche immaginarlo. Le celle
troppo piccole per ospitare tutti, spazi che
contengono
un numero di persone più grande
di quello per cui sono organizzati, spazi che
non
accolgono
,
restringono
. Conosco alcune
voci, tutte maschili, in tanti accenti e lingue
diverse, il rumore delle chiavi e dei cancelli, del
metal detector per la perquisizione, i passi nei
corridoi. Conosco l’odore di fumo, di spazio
vuoto e chiuso, di dopobarba e gel per i capel-
li. Conosco la stretta di mano forte. Conosco
gli sguardi attenti, il sorriso, le scarpe pulite.
Ho imparato che le parole assumono altri
significati in carcere, richiedono una cura dif-
ferente persino i saluti, perché un arrivederci in
questo posto suona stonato, come gli auguri
per il compleanno. Ho imparato che la biciclet-
ta è un episodio inventato o modificato ad arte
per mettere in cattiva luce un compagno. Ho
imparato che terapia in carcere è sinonimo di
medicinale antidepressivo, psicotropo o ansi-
olitico prescritto a chiunque non riesca a sop-
portare il carcere e il suo insieme di problemi.
Ho imparato la trasformazione che subisce
la parola più bella: in carcere il participio
presente si fa aggettivo, con la prospettiva
di diventare presente indicativo:
“liberante”
sarà libero.
“Liberante”
è una parola che si
pronuncia sorridendo, è una prospettiva che
fa allegria.
“Liberante”
è un detenuto che sta
per uscire.
La maggior parte dei ragazzi che ho conos-
ciuto in carcere sono stranieri o tossicodipen-
denti, due aggettivi anche questi, che a stare
ristretti non ci guadagnano molto.
Una volta ho letto un libro che definiva il carcere
un’istituzione tradizionalista, così come tra-
dizionalista è chi lo abita. L’accoglienza e l’os-
pitalità, la sigaretta e il caffè della prima sera,
la condivisione di ogni cosa oltre lo spazio
limitato, riti e pratiche quotidiane permangono
e creano una forte identità, una sensazione
di appartenenza in chi vi è passato. “Chi è
stato dentro una volta, rimarrà per sempre un
carcerato
,
non solo per la stigmatizzazione
sociale, ma soprattutto perché avrà maturato
una particolare sensibilità a certe problema-
tiche, un certo modo di sentire la repressione,
avrà conosciuto e sperimentato sulla propria
pelle le ingiustizie della giustizia, i suoi lati
oscuri, i suoi aspetti nascosti e inconfessabili”.
Le compagne, i figli e le figlie, le madri e i
padri, la terra, la casa e tutto il bene, restano
fuori. Dentro si fanno tutti i giorni i conti con le
ombre, con le scelte contorte e il male com-
messo.
Resta in queste vite la capacità di avere cura
e attenzione per chi ha condiviso la stessa
esperienza, un rispetto sacrale, un vincolo
di fratellanza, resta l’impatto che fa la libertà
ritrovata, tornare a esercitare la responsabilità
e la disciplina che la libertà richiede. In carcere
resta il tempo e la pazienza, l’attesa e la libertà
ristretta.
Rubrica: le strade nuove
In carcere resta il tempo e la pazienza,
l’attesa e la libertà ristretta
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