Itaca n.2 - page 9

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Beckett, Pasolini, Elsa Morante, Togliatti,
Isabella Fair e Giorgio De Chirico, Lea
Massari, Pier Paolo Pasolini, George Best,
Samuel Beckett, Jean Seberg, Francis
Bacon, Alberto Giacometti e gli sconosciuti,
incontrati una sola volta per la strada.
Di Giuseppina Pica
Ha cambiato il modo di fare la fotografia di
reportage il fotoreporter
Mario Dondero
clas-
se 1928. Non è mai stato interessato di tecni-
ca e disciplina fotografica, eppure è proprio
dal bianco e nero dei suoi ritratti che affiora
intensamente l’anima segreta dei protagoni-
sti. Il lavoro fotografico di Mario Dondero ha
“dato alla luce”, i volti, le immagini, i silenzi
e le attese come
cronaca autentica di una
luce all’ombra
. Come è sollecito l’inizio della
vita, lo è anche lo scatto della fotografia di
Dondero, capace in maniera insolita e spesso
curiosa di cogliere la profondità in un attimo,
che è di volta in volta presenza e poi ritratto
dell’assenza. Le sue fotografie vibrano anco-
ra e ancora, come solo possono vibrare, le
immagini che restano impresse nella memoria.
Così Dondero attraverso la fotografica del
900, ha indagato il codice della natura umana,
dall’ombra alla luce e poi ancora dalla luce,
alla ricerca delle ombre, sempre fedele alla
ricerca dell’autenticità, nascosta negli occhi di
chi “guarda”.
Proprio nel 2015 è prevista l’uscita del docu-
mentario “
Calma e gesso in viaggio con
Mario Dondero
” che racconta la personalità,
la storia, l’opera e l’attualità del leggendario
fotoreporter, attraverso una lunga serie di
viaggi. Un percorso di quasi
cinque anni
che
racconta il fotografo, attraverso le immagini
delle sue ricerche, le sue mostre, inaugura-
zioni, conferenze, premiazioni, gli eventi e le
semplici passeggiate. Un tragitto di pensieri e
di azioni da cui emerge uno spaccato di crona-
ca nazionale e internazionale vissuto in prima
persona e in prima linea dagli anni ‘50 ad oggi.
Nei reportage di Dondero c’è il racconto della
vulnerabilità dell’uomo e allo stesso tempo la
consistenza ferma di quella che comunemente
chiamiamo Anima. Profondamente narrativa la
sua “cronaca” è ricerca ed essenza del vero.
Racconta la vita da reporter, ma i soggetti
ritratti acquistano nelle sue istantanee sem-
pre una nuova dimensione quasi onirica che
emerge proprio grazie alla capacità di scandire
i tempi fragili del bianco e nero. Mario Dondero
con i suoi racconti ci mette senza retorica, di
fronte al fatto che non è il soggetto a fare la
differenza, ma come lo guardiamo e soprat-
tutto come siamo in grado di raccontarlo e per
citare uno scrittore a lui caro: “l’occhio non
vede cose ma figure di cose che significano
altre cose”.
Italo Calvino
A me le foto interessano come collante
delle relazioni umane e come testimonianza
delle situazioni. Non è che a me le persone
interessino per fotografarle, mi interessano
perché esistono
” - afferma
Mario
all’interno
di
Mario Dondero
, il volume monografico a
cura di
Simona Guerra
edito da Mondadori,
nel 2011.
E dai nascondimenti del XV secolo Europeo
confinato sulle navi e nelle prigioni o esibito
sui lobi dei gentiluomini seicenteschi sino al
trasferirsi nei sotterranei dell’età Vittoriana,
continua ad ornare gli ex punk ( giovani
degli anni settanta), gli ex grunge degli anni
ottanta sino ai teen agers ed i no global.
Di Ellis Bell
Il verbo
To-Tatoo
(di origine polinesiana),
vuol dire disegnare-marcare ed in senso ono-
matopeico, allude al rumore prodotto dai
chiodetti di legno appuntiti che entrano sotto
la pelle. La pelle, luogo degli scambi umani,
sede dell’intimità, parla di noi ed il tatuaggio
diviene “l’interesse regressivo del neonato”
per il corpo, il “terzo elemento” tra il dentro
ed il fuori, che esprime una “posizione di vita”
segnalata e rinforzata nelle incisioni, perché
sia chiara all’esterno.
È un atto arcaico: il corpo ornato, dipinto,
modificato, ed arricchito. Un bisogno di appar-
tenere ed appartenersi. Perché, “quando gli
Dei mancano, quando i sistemi di valore crol-
lano, l’uomo non ritrova che una cosa: il suo
corpo” (
Malraux
).
Un rito, un mantra, un’operazione sacrale.
Cosi si tatuano le donne Birmane come filtro
d’amore, gli indigeni del Borneo per assicu-
rarsi un passaggio nell’oltretomba e poi gli
Indù del Bengala per spaventare i nemici o
riconoscere i propri figli. Incidersi per comu-
nicare che si è in lutto, si cerca marito, si è
compiuto un omicidio. Iniziatico e distintivo
nelle società segrete della camorra (denomina
i gradi degli affiliati), fa sentire meno soli nel
bisogno di appartenenza dei marinai di lungo
corso (che si fregiano il simbolo di aderenza
al gruppo di mare). E ancora, esibisce rifiuto e
rabbia quale atteggiamento di chi vuole urlare
la propria esperienza. Vite recluse, istituzio-
nalizzate, rappresentate nei simboli quale lin-
guaggio aggressivo-trasgressivo che esprime
disprezzo per la giustizia. Un’indelebilità che
consacra, cercando di fermare il tempo, inci-
dendo ciò che siamo per non dimenticare. Non
voler e non poter dimenticare, ma ricordare, lo
smarrimento, la fede, l’aspetto vocazionale o
la paura. Rappresentarsi in un nome, un sim-
bolo, un’origine, un colore, una cicatrice.
L’animo sente la necessità di parlare attra-
verso il corpo (differenziato, marcato, inserito
in un codice), perché a volte debba sfidare,
altre sentire attraverso toni tragici ed oraco-
lari. Il tatuaggio accompagna anche il tempo,
il tempo che passa sul corpo che non è più
un’unità intoccabile, che si dimentica di senti-
re, che non percepisce più i contatti. Un corpo
che desidera la sopportazione del dolore e
l’amore per il rischio: “Perché anche il dolore
può essere una promessa di piacere” (
Pascal
).
“L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose”
Il tatuaggio è una preghiera
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