Itaca n.2 - page 3

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Esso non è altro che la “punta dell’iceberg”,
il segnale di un vasto mondo sommerso di
discriminazioni, di violenze e di abusi.
Di Maria Rita Bartolomei
Il termine
femicide
, già in uso in Inghilterra
fin dagli inizi del 1800, solo a partire dal
lavoro di
Diana Russel
viene utilizzato per
indicare una categoria criminologica vera e
propria, un reato con una chiara e intenzionale
connotazione di genere: l’uccisione di una
donna in quanto tale.
Il femminicidio è diffusissimo in America
Latina, dove rappresenta una sorta di
sterminio regolare e sistematico di donne
che tentano disperatamente di scardinare le
matrici culturali sessiste della società in cui
vivono. In Brasile vengono uccise circa dieci
donne al giorno; quattro negli Stati Uniti e una
alla settimana in Australia. Anche in Italia la
situazione è preoccupante: dal 2010 la media
è di 125-130 casi l’anno; da gennaio 2014 ad
oggi almeno cento donne sono state uccise
dal partner o ex partner.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare,
è un fenomeno assolutamente trasversale,
che non è riferibile ad un particolare sistema
politico, economico o culturale, e nemmeno
dipende necessariamente dall’alcolismo,
dalla tossicodipendenza o da patologie
psichiatriche. Le statistiche più recenti a
livello internazionale evidenziano che in tutto
il mondo - Europa compresa -
la prima causa
di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni è
l’aggressione violenta da parte di un uomo
“familiare”: padre, marito, fidanzato o ex
.
Si tratta di un paradigma terribile e straziante
di violenza di genere, sempre più considerato
come un problema sanitario, economico e
giuridico di portata globale, un vero e proprio
crimine contro l’umanità.
In questa sede non ho la possibilità di
approfondire né l’eziologia, né i principali
aspetti strutturali e culturali di tale piaga
sociale. Tuttavia, ciò che mi preme sottolineare,
è il fatto che spesso il femmimicidio viene
considerato, sia dalla gente comune che
dalle istituzioni, come un evento isolato,
assolutamente imprevisto e imprevedibile,
frutto di una “perdita di controllo”, di un raptus
omicida.
Ricerche e studi accreditati specialmente di
carattere antropologico evidenziano, invece,
che un femminicidio rappresenta quasi
sempre “una morte annunciata”, il tragico
epilogo di relazioni patologiche caratterizzate
da episodi di violenza domestica (fisica e
psicologica) collegati tra loro, che si ripetono
nel tempo in un crescendo esponenziale per
intensità, frequenza e gravità. Esso non è altro
che la “punta dell’iceberg”, il segnale di un
vasto mondo sommerso di discriminazioni,
di violenze e di abusi. Abusi che spesso
non vengono denunciati per varie ragioni:
mancanza di fiducia nell’ordinamento giuridico;
carenza di una chiara coscienza giuridica; e,
soprattutto, una persistente e diffusissima
“cultura del silenzio”. Ma, anche qualora
tali “segnali” vengano fatti emergere, sono
sempre e comunque sottovalutati nella loro
capacita predittiva. Ritengo indispensabile,
pertanto, un impegno collettivo per favorire
un cambiamento radicale di prospettiva volto
al superamento: da un lato di una cultura
patriarcale diretta al controllo violento della
sessualità femminile; dall’altro della sempre più
inquietante incapacità dell’uomo postmoderno
di gestire i conflitti in modo cooperativo,
solidale e condiviso.
attualità · Il mondo piccolo
Femminicidio: una morte annunciata
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