Itaca n.2 - page 5

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La nostra realtà, la realtà dell’umanità con
i suoi controsensi e controtempi, con i suoi
acuti ed i suoi ottusi a volte contemporanei
e conviventi in una stessa azione, in uno
stesso pensiero, in una stessa persona.
“L’ossimoro (dal “Greco antico” greco
ὀξύμωρον, composto da ὀξύς, «acuto»
e μωρός, «ottuso»; pronuncia greca: ossìm-
oro) è una “figura retorica” figura retorica che
consiste nell’accostamento di due termini di
senso contrario o comunque in forte “Antitesi”
antitesi tra loro. Dato l’etimo del termine,
anche la stessa parola ossimoro è un ossimo-
ro. Se alcuni ossimori sono stati immaginati
per attirare l’attenzione del lettore o dell’inter-
locutore, altri nascono per indicare una realtà
che non possiede nome.
Questo può accadere perché una parola non
è mai stata creata, oppure perché il codice
della lingua, deve contraddire se stesso per
poter indicare alcuni concetti particolarmente
profondi.”
Tra le righe fitte esplicanti il concetto di “ossi-
moro” fa capolino il senso che dedicheremo
allo spazio di questa rubrica: indicare una
realtà che non possiede nome, una realtà per
cui il codice linguistico deve necessariamente
contraddirsi per rappresentarla. La nostra real-
tà, la realtà dell’umanità con i suoi controsensi
e controtempi, con i suoi acuti ed i suoi ottusi
a volte contemporanei e conviventi in una
stessa azione, in uno stesso pensiero, in una
stessa persona.
Ossimori è lo spazio in cui nonostante le anti-
tesi, tutto è armonico, in cui da due termini
contrastanti nasce un concetto nuovo, una
nuova realtà, non catalogata né catalogabile
in acuto o ottuso.
È lo spazio del racconto in cui realtà contra-
stanti si contaminano per dar luogo a qualco-
sa di inedito ed inaspettato, “il carcere” che
diventa luogo creativo (L’esperienza di “made
in carcere” attraverso cui i detenuti danno vita
ad oggetti di abbigliamento o accessori alla
moda), o corrosivo, in cui il colpevole diventa
vittima ed il tutore della legge diventa car-
nefice (mobbing e violenza dietro le sbarre);
è il Natale “dentro” le nostre “case” laddove
per case intendiamo le Comunità, e “dentro”
non significa recluso, obbligato, ma profondo,
come profonda può diventare l’esperienza
della condivisione delle vite, del dolore, degli
sbagli, degli scontri, condivisione che dà alla
luce un nuovo senso, un nuovo mondo, un
nuovo “Io” un nuovo “Tu” un nuovo “Noi”.
La vita di ognuno è condizionata senza via
di scampo da due livelli di rapporti interper-
sonali, con gli altri detenuti e con gli agenti.
Di Alessandrina Concetti
Il mobbing. Trattare questo argomento signi-
fica solitamente parlare delle vessazioni, dei
pregiudizi e degli abusi psicologici che si rea-
lizzano nell’ambiente lavorativo.
In questo caso parlerò dell’identificazione di
questo fenomeno all’interno degli istituti di
pena dove è radicato da sempre e solo da
poco vi si può dare un nome: “terrorismo psi-
cologico”.
Il carcere è un ambiente di per sé ostile, dove
si vive condividendo con le medesime persone
un perimetro ben delineato 24h su 24h, senza
alcuna possibilità di avere spazi propri.
Il contatto fisico e psichico con i “compagni di
detenzione” diventa di primaria importanza e
i ruoli che ognuno ricopre, ben distinti e valo-
rizzati, danno attuazione a dinamiche troppo
spesso raccapriccianti.
Dal momento in cui una persona valica le porte
di un istituto di pena la sua personalità viene
annientata o meglio adeguata a tutto ciò che
man mano le si presenta dinanzi. Ciò coinvol-
ge sia i rapporti interpersonali che da subito si
instaurano con gli assistenti penitenziari che,
in un secondo momento, con i detenuti. In
entrambi i casi il primo approccio è quello che
solitamente ti identifica e ti condizionerà per
tutto il periodo detentivo.
Da quel momento per le istituzioni diventi un
numero, per gli agenti penitenziari un essere
vivente (per alcuni poco più di un animale ),
comunque in ogni caso un individuo da riusci-
re a gestire non importa in quale modo o con
quali mezzi. Ciò che più conta è che rechi il
meno fastidio possibile. Di conseguenza ogni
manifestazione personale come l’espressione
dei sentimenti, siano essi di rabbia, dolore,
malessere, o inversamente, di gioia e serenità
rappresenta una minaccia per il “sistema” .
La vita di ognuno è condizionata senza via
di scampo, da due livelli di rapporti interper-
sonali, con gli altri detenuti e con gli agenti.
Nel primo caso la cosa meno conveniente da
poter fare è essere se stessi e far trasparire le
proprie fragilità perché così facendo si rischia
di apparire deboli e cadere vittima in modo
persecutorio di atti vandalici, sia a livello fisico
che psichico.
Purtroppo tali avversità, si ripercuotono anche
nei rapporti con gli Agenti, dai quali invece di
trovare aiuto, comprensione, tutela, è più facile
trovare “dita puntate”. La tua parola non ha
motivo di esistere o di essere presa in consi-
derazione, perché ciò che conta è solo il giudi-
zio che si è costruito attorno alla tua persona.
Ecco che il “mobbizzato”, si sente non sol-
tanto privato della propria libertà, ma del suo
essere persona, in grado di pensare e agire.
Vive o meglio, sopravvive, in ogni attimo,
istante e respiro, con la paura che ogni suo
comportamento o pensiero, non sia valutato
realmente, ma venga interpretato da chi ormai
ti ha affibbiato un’immagine con l’unico scopo
di denigrarti sempre e in ogni caso e con l’in-
tenzione di metterti in una situazione di svan-
taggio e devastazione psicologica.
carcere e storie · ossimori
Ossimori
Il mobbing,
il carcere e le dita puntate
Piove. Per la verità diluvia. Bene,
“colloquio bagnato colloquio fortunato”
In pochi mesi ne hai conosciuti tanti di ra-
gazzi. C’è chi arriva e chi se ne va, chi esce
per aver finito il proprio percorso, chi deci-
de di riprendere la vecchia strada e chi va
incontro alla vita determinato e speranzoso,
chi invece abbandona senza nemmeno la-
sciare un saluto.
Di Melania Alessandrini
Sono diverse le ragioni per le quali hai scelto
proprio una comunità terapeutica dove vo-
ler fare il tuo volontariato civile. Sei certo che
questa sarà una delle domande fondamentali
che ti faranno al colloquio, ma l’ansia sale in
macchina, e ormai te le sei dimenticate prati-
camente tutte. Fa niente, “o la va o la spacca!”.
Sei arrivato davanti alla sbarra. Suoni. Entri e
vedi persone. Non sai chi sono, ma inevitabil-
mente ti chiedi se siano ospiti o lavoratori della
struttura. Per il momento non riesci a darti ri-
posta. C’è davvero tanta gente qui.
Il primo giorno di lavoro c’è il sole. La collina
è illuminata, gli alberi costeggiano la strada, le
balle di fieno emanano l’odore di campagna, la
struttura di colori giallo e arancio risaltano tra
il verde dell’erba. È tutto cosi curato. Sembra
un piccolo paradiso. L’operatore ti accompa-
gna a fare un giro, tutti ti guardano come si
guarda il nuovo arrivato in paese. La prima
immagine sulla quale ti soffermi sono le mani
di quella giovane ragazza, gonfie, rossastre e
con la pelle screpolata. Capisci al volo che le
droghe non rovinano solo l’anima, ma segnano
anche il corpo, e ti chiedi se un giorno potran-
no tornare come prima. Seguono giorni di ap-
prendimento, procedure su come comportarti,
ti istruiscono e sei consapevole che ci dovrai
“sbattere la testa”. In questi primi giorni risenti
l’ebbrezza del colloquio iniziale, quando i ra-
gazzi cominciano a farti mille domande. Cer-
cano di capire quanto sei sveglio, quale ruolo
hai, perché sei qui, ti esplorano e ti sezionano
come una cavia.
I giorni e i mesi passano. All’inizio sei osses-
sionato dalla responsabilità che devi mettere in
campo, dal costante pensiero che tutto vada
bene. Ogni giorno metti da parte te stesso,
le tue convinzioni, le tue certezze, per riem-
pirti dei loro dolori, confidenze, delle semplici
chiacchierate, o dei loro racconti. Non sai di
cosa ti parleranno oggi, ma quando è il mo-
mento dello sfogo tu ci devi e ci vuoi essere.
A volte la testa fa difficoltà ad accogliere tutte
queste informazioni, ma quel “grazie”, quando
rientri in struttura, ti fa capire che nel tuo pic-
colo hai fatto qualcosa di buono. Quel “grazie”
magari perché hai comprato una barretta di
cioccolato al distributore e hai scherzato con
loro facendo battute per ingannare il tempo di
attesa prima di una visita medica, quel grazie
che fa la differenza. Una delle esperienze più
faticose ma anche più entusiasmanti, è l’uscita
al mare. Una lunghissima ed estenuante gior-
nata in spiaggia stile gruppo vacanze Piemon-
te. Pulmino pieno, tavolo, ombrelloni, sdraio,
pranzo al sacco e racchettoni. Sono felici per
la loro giornata diversa dalla comunità. Per te
razionalmente è solo una giornata al mare. E
quando arrivano le cinque del pomeriggio e
dici che è ora di andare, ti senti rispondere
“solo altri cinque minuti”. Al ritorno il pulmino è
pieno, la musica ad alto volume e tutti a canta-
re
Lucio Dalla
a squarciagola come se non ci
fosse un domani. Al semaforo gli automobilisti
si chiedono che tipo di festa ci sia li dentro. Ci
stanno guardando tutti, ma non importa. In po-
chi mesi ne hai conosciuti tanti di ragazzi. C’è
chi arriva e chi se ne va, chi esce per aver finito
il proprio percorso, chi decide di riprendere la
vecchia strada e chi va incontro alla vita de-
terminato e speranzoso, chi invece abbandona
senza nemmeno lasciare un saluto. La prima
lezione è mettere da parte la delusione, tanti
torneranno a sorridere e per qualcuno invece
la strada tornerà a essere in salita. Dalle espe-
rienze raccontate dai tuoi amici pensavi che
questo tipo di attività fosse solo uno strumento
di impiego giovanile, in attesa di impegni più
importanti, chissà, forse hai capito male, forse
sei stato solo fortunato nel riuscire ad entrare
in una struttura che ti ha coinvolto totalmente
nelle attività, nelle decisioni, nelle responsabi-
lità. Quando pensi alla tua esperienza ormai,
ne parli come fosse il tuo lavoro. Sei quasi alla
fine del tuo anno di servizio civile e pensi che
sia volato, che ci hai messo tempo ad entrare
nel meccanismo e che è già ora di andare. Il
pensiero costante è quel “grazie” ricevuto, a
volte non detto. Oggi ti senti invece di volerlo
dare ai ragazzi ospiti e a chi lavora per loro,
per tutto quello che ti hanno insegnato e per
come ti sei arricchito dentro, di storie, emozio-
ni, “tossicate” e furbizie, arrabbiature, ansie,
gioie, delusioni ma anche vittorie. Qualcosa è
cambiato dentro di te. Porterai a casa una vali-
gia di esperienza. Un solo anno, intenso.
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