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cultura · affabulazioni
È un neologismo affabulatio - onis: la morale
della favola; una persuasione improntata su
un impegno stilistico alto.
Pervade la visione Rinascimentale dell’uomo
fautore del proprio destino, poi con le inquie-
tudini barocche di malinconiche sofferenze,
arriva alle liriche colte in cui il narrare si fa elo-
quente in seducenti artifici.
Le parole affabulate sono al servizio dell’im-
maginazione, illuminano e creano nuovi sce-
nari completandosi con la gestualità.
È cultura: arte, conoscenza e scienza, fisica e
metafisica, materia e spirito, essere ed apparire.
È comunicazione che favorisce la crescita, la
diffusione e la fruizione del bello che ricerca
l’immaginazione e recupera la dimensione del
fantastico: il sogno; la favola; la magia; il mi-
stico.
Allora si puo’ decidere di aderire all’estetica,
necessaria per affascinare e persuadere, o
andare al teatro cercando la verità delle illu-
sioni.
E poi esternare, poetare, dire e maledire, in-
vocare, minacciare o inneggiare. Costellazioni
di pensieri in forme di aforismi.
Leggeremo di pittori clandestini.
Filologi severi ed esercitati.
Complessi di memorie.
Transiti di passioni umane…che poi è la vita.
Tutto questo è affabulazioni; uno strumento
che nobilita il senso individuale contribuendo
alla dimensione plurale dell’esistenza.
È il piacere di leggere, il formulare pensieri sul
mondo che si vive e su quello che ancora si
desidera.
È cum-sentire grandioso e fantastico della re-
lazione; in altri modi, con altri mezzi.
Una bifora, un antico portone con monogram-
ma del santo, un simbolo, una pietra.
Trattenere un pensiero o trarlo da un profondo
recesso conmeraviglia, brivido e smarrimento.
Cosi le parole recano stampigliate l’ombra
leggera del sospetto e l’anima liberata dalla
speranza.
Tutto in una libertà di fondo lontana da auto-
compiacimento, sempre avvalendosi di sfu-
mature etiche.
Saper stare tra crociate o invasioni musulma-
ne, rivoluzioni tecnologiche, poesie e verità.
Sempre sull’orlo di qualcosa, sapendo scom-
mettere di non poter essere più gli stessi.
Le affabulazioni sono leziosaggini stilisti-
che che allontanano dall’altro, proteggo-
no da sé, mistificano la reale dimensione
dell’uomo in congetture di trame illusorie
ed ingannevoli.
Di Antonella Fortuna.
“Non riuscivo più ad arrestare la marcia; cam-
minavo e continuavo a camminare oltre ogni
presumibile stanchezza, aldilà degli interessi
alla sosta”.
Dissero gli
scienziati
che era una malattia, un
disturbo della mente, e che nella neuro imma-
gine di me, si coglievano aspetti dimensionali
di”ritiro ed allerta” e bisogni di parossismi per
scorrere la vita senza uno spazio di tempo per
poterla pensare.
Cosi e solo cosi mi sarei potuto sentire in un
vivere d’anedonia.
Sapevo che non era la mia verità, avevo
già tatuato il corpo e ferito le parti interne,
per auto-confermarmi lo schema corporeo,
ma camminare continuava a fluire come una
necessità impellente.
Allora i
mistici
pensarono ad un allontanamen-
to dall’etica, una confusione di nessi episte-
mologici con lo smarrimento e la fuga.
I clinici risposero che si trattava solo del
bisogno di risolvere il trauma e nella resilienza
consapevolmente camminare.
E poi i
kinesiologi
con i loro meridiani scom-
posti e le
neuroscienze
attente alle mie
deafferentizzazioni, infine, i
maestri invisibili
con le loro auree somme che mi stordivano di
campane tibetane.
Basta, sono stanco, ma ancor più stanco della
mia stanchezza, lo sono di queste parole affa-
bulate. Nell’andare mi hanno accompagnato
luci ed ombre, latrati di cani e bisbiglii sospet-
tosi, porte chiuse e venditori di scarpe magi-
che e poi miriadi di analisi sul perché stavo
camminando e mai sul come mi sentivo…..
Un giorno non diverso dagli altri, nell’incedere
senza mete ne ragioni, attraversai una collina.
Sopra vi si stagliavano una casa, un grande
cortile, alberi in filari e molte figure umane
immobili. Era l’ora del tramonto, lo ricordo dal
rosso vermiglio che rifrangeva tra le zolle arate
in distese senza ostacoli di una natura liberata.
Tutti li, in piedi, silenziosi a guardare la vita nel
sole che va a riposare per poi tornare ancora
ed ancora. Avvicinandomi mi hanno guardato
negli occhi lungamente e senza parole, cosi i
miei piedi si sono fermati e senza alcuna affa-
bulazione sono rimasto li.”
Le affabulazioni sono leziosaggini stilistiche
che allontanano dall’altro, proteggono da sé,
mistificano la reale dimensione dell’uomo in
congetture di trame illusorie ed ingannevoli.
Affabulatori-moralizzatori che vivono per e con
lo stratagemma di vendere la felicità.
Noi scegliamo di guardare gli uomini per
capirne desideri e timori e se poi fermandosi
vorranno , ascolteremo quel camminare senza
sosta nel moto perpetuo del cercarsi.
Rischiare la vita, decidere, scegliere, speri-
mentare l’inusuale. Appassionarsi ed appas-
sionare, agire anche quando non si hanno
soluzioni perfette. Vivere senza il rimedio delle
affabulazioni.
Il gruppo nasce da un’idea di Mario Tronco,
componente della Piccola Orchestra Avion
Travel, e del documentarista Agostino
Ferrente che ne filma in diretta la nascita.
L’Orchestra di Piazza Vittorio è un’orchestra
multietnica nata nel 2002 all’interno dell’As-
sociazione Apollo 11, associazione che nasce
per salvare l’unico cinema sopravvissuto nel
quartiere Esquilino di Roma , lo storico cine-
ma Apollo che verrebbe trasformato di lì a
poco in una sala bingo. L’idea è trasformare il
cinema in un laboratorio multiculturale, in cui
proiettare film e suonare musiche dal mondo.
Il progetto è sostenuto da artisti, intellettuali e
operatori culturali che hanno voluto valorizzare
il rione, dove gli Italiani sono una minoranza
etnica.
L’Orchestra che muove i passi da questo pro-
getto rappresenta una realtà unica: è la prima
e sola orchestra nata con l’auto-tassazione di
alcuni cittadini che ha creato posti di lavoro
e relativi permessi di soggiorno per eccellenti
musicisti provenienti da tutto il mondo e pro-
muove la ricerca e l’integrazione di repertori
musicali diversi e spesso sconosciuti al gran-
de pubblico, costituendo anche un mezzo di
recupero e di riscatto per artisti stranieri che
vivono a Roma talvolta in condizioni di emar-
ginazione culturale e sociale.
Ognuno porta all’interno dell’Orchestra la
propria fede, cattolica, musulmana, induista,
ebraica, atea. Ognuno porta la nostalgia del
proprio paese, e la speranza di tornarci, ognu-
no porta il proprio strumento, e la melodia di
casa, ognuno i propri colori.
Questo laboratorio di suoni è la prova tangibi-
le che la diversità, le molte culture miscelate
insieme, danno vita a qualcosa di nuovo, che
è molto più complesso, articolato, sfumato,
molto più ricco della semplice somma delle
parti di cui è composto.
La prova dunque che lo straniero non è l’uomo
nero, ma musica e colore, lingua ed emozioni
con cui ed attraverso cui è possibile arricchire
il nostro mondo.
In una canzone dell’album “Parola Sante”
Ascanio Celstini immagina la resurrezione
e il riscatto di quelli che definisce cadaveri
vivi e in questa occasione allarga i ranghi
del gregge di pecore nere a ogni emargi-
nato a ogni minoranza contemporanee. Di
Carla Capriotti
Il nero porta sfortuna. Per non compromettere
la qualità della lana bianca, pregiata, le peco-
re nere vengono escluse dalla tosatura. Anche
nella società occidentale la pecora nera salta
facilmente all’occhio, come in un gregge, e
anche qui viene rapidamente esclusa dalla
“produttività” del resto della popolazione. Nei
“favolosi anni sessanta” luoghi di esclusione
sociale e reclusione erano ancora i manicomi,
popolati dai così detti folli, i matti.
All’epoca, in molti casi da un giorno all’altro,
matto potevi diventarci. Era matto un uomo
con un pensiero pervasivo, prepotente e ine-
vitabile; un ragazzo con un deficit cognitivo;
era matta una donna malata di Alzheimer; era
matta la donna che andò alle poste per farsi
dare parte del suo denaro e lì scoprì di non
avere più nulla perché chi amministrava i suoi
risparmi, oltre ad amministrarli, li spendeva;
era matto Nicola che raccontò di aver visto i
marziani. L’etichetta di matto era assegnata
spesso a prescindere dalla presa in carico
della psichiatria: i manicomi erano abitati da
ogni genere di uomo o donna che la società
non riusciva a pensare assieme al resto delle
persone così dette sane. Un rituale ossessivo,
un ritardo, una demenza, una reazione dispe-
rata, una fantasia necessaria per difendersi
dalla brutalità della realtà e poi, come Nicola, il
resto della vita in manicomio.
Nicola con i suoi trentacinque anni di mani-
comio elettrico, è il protagonista del testo
e dell’opera di teatro sociale che
Ascanio
Celestini
ha scritto nel 2006, “
La pecora
nera
” (Einaudi, 2006).
Nicola è un matto qualsiasi con una storia che
diventa metafora dello squallore del sistema
che rinchiudeva i figli più deboli perché inca-
paci di difendersi da soli dal sistema stesso.
Sanguineti
in una celebre recensione lo rac-
conta così: “Non si sa se ridere o piangere, ma
non importa niente. In questa compresenza
assoluta di comico e di tragico si ritrova incar-
nata la grande modalità tragica moderna”.
La modalità tragica moderna è ancora oggi
quella di rinchiudere, nascondere, camuffare.
Il manicomio e l’elettro shock anche se a fati-
ca e con molte lacune, dopo la legge 180 del
1970 promossa da
Basaglia
, hanno ceduto
il passo ad altri luoghi dove rinchiudere o
ingabbiare le pecore nere. La somministrazio-
ne prescritta, massiccia, di psicofarmaci e la
medicalizzazione di qualsiasi disagio emotivo
e organico; l’altissimo dosaggio di metadone
a giovanissimi con esperienze di dipendenza
patologica; il carcere per i poveri cristi. Altre
forme di coercizione, aggiornate, nella rete
nel villaggio globale, nuove tipologie di pecore
nere accanto alle solite.
In una canzone dell’album “
Parola Sante
Ascanio Celstini immagina la resurrezione e il
riscatto di quelli che definisce cadaveri vivi e
in questa occasione allarga i ranghi del greg-
ge di pecore nere a ogni emarginato a ogni
minoranza contemporanea e canta “i froci, gli
ebrei, i palestinesi dell’Intifada, i barboni lungo
la strada, le zecche comuniste, gli anarchici,
gli spastici, quelli col cesso a parte, i brutti e
sporchi, i negri, i meridionali, gli autonomi dei
centri sociali, gli zingari, le zoccole e i droga-
ti” che assieme, riappropriandosi del tempo
dello spazio e della vita che gli viene negato
compiono il gesto rivoluzionario di raccontare
la realtà per quella che è, tragica e comica
e piena di errori di ortografia ma dignitosa e
vera, che reclama attenzione e cura e stato
sociale e diritti condivisi.
Affabulazioni
È cum-sentire grandioso e fantastico della relazione; in altri modi, con altri mezzi.
Eppure bastava guardarmi
Diciotto musicisti
che provengono da dieci paesi e parlano nove lingue diverse
La pecora nera
Di Riccardo Gullini
Sono uscito indigesto
Da questo nudo pasto
Resisto
Annuisco
Vincitore di me stesso
Disturbato
Perplesso
Fogli…in cui ho letto la cura da seguire
Per placare…le mie pulsioni più scure.
La Cura
1,2,3,4,5,6,7 9,10,11,12,13,14,15,16
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