Itaca n.2 - page 7

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Ora che sono fuori ho paura, tutti quelli che
hanno fatto la galera hanno paura del fuori,
sanno che tutto probabilmente ricomincerà
come peggio di prima, ma che cosa si può
fare, che può fare uno come me?
Di Giampiero Renzi
Dopo tre anni finalmente sto uscendo da
questo posto, c’è ansia eccitazione finalmente
la matricola mi chiama mi vengono restituiti i
documenti i soldi il foglio che mi viene con-
segnato dice fine pena. L’ultimo portone mi si
chiude alle spalle. Sono libero. È maggio, un
cielo limpido e ginestre in fiore, foglie, alberi,
e un caldo stupendo. L’occhio mi si dilata
trovandomi di fronte mia sorella gli tremano le
labbra mi accarezza i capelli, il viso, fatico a
trattenere le lacrime ora ricordo, ricordo tutto,
ogni momento che ti sei caricata sulle spalle
della mia vita mentre mamma stava morendo
dentro un ospedale per un tumore, te ne ho
combinate di tutti i colori (frase adolescenziale)
ma forse proprio per questo hai deciso di non
scrivermi più durante questi anni, non siamo
più adolescenti. Quante volte t’ho pensata
con rabbia con odio con disprezzo, con impla-
cabile risentimento sono arrivato a volermi
convincere che non esistessi più, d’improvviso
salti dentro ai miei pensieri, torna la tua voce
tornano i tuoi occhi le tue mani ci bastava uno
sguardo fugace per intenderci tutto sempre
sulle tue povere spalle sei diventata anores-
sica, alla tele hanno detto che gli operai della
Indesit rischiano di perdere il lavoro sarai dis-
perata, tu ti chiami Sabina e tu Sabina ricordi
come mi chiamo io? - Sento una mano posarsi
sulla mia spalla, è mio fratello un certo anno
un certo giorno non volle saperne più niente
di me per lui fui come morto, già da un po’
eravamo due aspetti diversi, io quello di un
anarchico irriducibile lui di un piccolo bor-
ghese disciplinato, c’eri però Maurizio quando
qualcuno ha dovuto insegnarmi a masturbarmi
c’eri tu che mi hai insegnato a farmi la barba,
a guidare, a fermarmi sulle strisce pedon-
ali se una persona passava a piedi. Fosse
anche caduto il mondo e c’ero io quando la
tua ragazza ti lasciò perdere perché partivi
a fare il militare. Gli bastarono due sbattiti di
ciglia e ti ferì a morte fratello mio, le lacrime
mi si confondono con il dolore, con la gioia, di
vedere qua fuori i miei nipoti la tua compagna,
e piano piano poi subito da vicino c’è il viso di
mio padre, il suo sorriso bonario, un ometto di
ottantadue anni, fatto tutto di fatica e sacrifici.
Non era questo che speravi per me vero pa?
Ma anche io avrei voluto che avessi passato
più tempo con me e avrei voluto diventare un
bravo macchinista. Come quando eri in vena ci
parlavi di Edoardo, di lui che a teatro era come
un santo, ci recitavi a memoria intere parti
delle sue commedie, volevo fare il tuo stesso
lavoro, oggi Cinecittà, domani Barcellona, tra
due mesi Israele, e tanti altri posti ancora. Li
ho letti nei libri quei posti dove non sono mai
stato. Ricordo quando ci portavi all’osteria che
Maurizio e io eravamo bambini e tu ti ubriacavi
e quando tornavi a casa mamma piangeva e
noi altri bambini piangevamo con lei.
Vivevamo al Tufello, un quartiere dove il comu-
nismo era di casa e i comunisti si mettevano
d’impegno a cambiare la vita. Ci provarono.
Tu pà, avevi le tue debolezze e non hai mai
voluto condividerle con noi, te ne andavi per
i fatti tuoi e ci abbandonavi. Devo aver preso
da te questa piega di spingere fuori dalla
mia vita le poche persone che mi vogliono
bene, lascia stare il fazzoletto papà che non
ti vedo più bene in faccia, la tua faccia sta
diventando terra, poi erba, e ora sono sdraia-
to su un prato, è la tomba di mia madre, sto
abbracciando forte quel pezzo di terra dove è
seppellita mi rimangono in mano i ciuffi d’erba.
Guardo questo cumulo di terra dove là sotto
ci sei tu, un grido mi resta soffocato, è colpa
tua! - Vorrei gridarlo con tutta la voce che
posso, sapevi che avevo dei sogni, sapevi che
potevo riuscire come te. Come posso accet-
tare tutto questo, non cammino che sopra
una nuvola per fuggire dai mostri che mi sono
fabbricato e mi tormentano da un tempo che
non ricordo nemmeno più ormai dei versi di
Kavafis
. Chi disse no non si pente si è chiesto
ancora direbbe eppure quel no quel giusto
no per sempre lo rovina. Provo un’irresistibile
attrazione verso il mio abisso, l’impulso di
mettermi sempre contro tutto e tutti è più forte
di qualsiasi parola buona, è la fonte del mio
nutrimento come il seno che mi ha aiutato o
forse obbligato a sopportare il mondo appena
uscito fuori da dove stavo e non sapevo dove
mi trovavo e volevo tornare dove stavo, vorrei
dissolvermi, sparire d’un colpo e guardare il
mondo senza di me, come sarebbe il mondo
senza il mio veleno. Mi avveleno, altri avvele-
no, lo spazio intorno. C’è qualcosa di irresist-
ibile nell’abisso, ma c’è una soglia, una volta
superata questa soglia la potenza dell’abisso
si esaurisce. Penso che deve esserci da
qualche parte un tempo sospeso dove non
occorre forse più avvelenarsi per far valere la
propria diversità, il proprio diritto a contrastare
una realtà che mi ripugna, ma questa realtà
ripugna a molti, forse non sono il solo ad
averne la nausea. Ora che sono fuori ho paura,
tutti quelli che hanno fatto la galera hanno
paura del fuori, sanno che tutto probabilmente
ricomincerà come peggio di prima, ma che
cosa si può fare, che può fare uno come me?
Che cosa ci resta da fare a noi, tutti quanti
noi? - Vorrei entrare con tutto il mio corpo
nelle tragedie, nei drammi che ho letto durante
le lunghe giornate passate in carcere, vorrei
esistere li dentro insieme ai fantasmi che ho
fatto rivivere come in quel film che vidi da
bambino in televisione della serie ai con-
fini della realtà, dove un’attrice sul viale del
tramonto terrorizzata dal presente va a vivere
nei suoi film. Questo desiderio è di qua o di la
della soglia?
Tutti i processi di crescita comportano l’in-
teriorizzazione di modelli relazionali affettivi
che noi attiviamo con gli altri, alcuni “ere-
ditati” altri “nuovi” che ci permettono di
orientarci.
Di Manuela Nocifero
Il fenomeno della dipendenza evoca sovente
esperienze di disagio, condizioni di malessere,
legami indissolubili o simbiotici che impedis-
cono la piena autodeterminazione dell’indi-
viduo. 
Rapportato all’infanzia, il fenomeno acquisisce
un senso differente, di possibilità di  esistenza:
dipendenza come soddisfazione del bisogno
di protezione del bambino, ancora prima del
bisogno di nutrimento. I classici esperimenti di
Harlow
dimostrano che la necessità di contat-
to fisico  dei piccoli (nei suoi esperimenti erano
scimmiette) è un bisogno primario e indipen-
dente da quello relativo al soddisfacimento dei
bisogni fisiologici. La dipendenza, il legame di
attaccamento madre - figlio è qualcosa di più
che l’esito di un rapporto finalizzato all’otteni-
mento di cibo.
In natura, come
Lorenz
dimostra nei suoi
esperimenti sul comportamento del seguire
dei piccoli anatroccoli, il legame di attacca-
mento si instaura fra i cuccioli verso un essere
più grande di loro capace di proteggerli (anche
sostituto della madre, che è capace di attivare
un comportamento di tipo genitoriale).
Queste riflessioni, ossia la possibilità in natura
di legami parentali senza la mediazione del
cibo e a prescindere dai legami di sangue,
sono interessanti per chi come noi si propone
in una relazione d’aiuto.
Se spostiamo l’attenzione sul comportamento
genitoriale, ciò ci consente di riconoscere in
parte il comportamento e la funzione degli
operatori di comunità, dettati dalla spinta
motivazionale di proteggere gli ospiti ed aiu-
tarli ad emanciparsi, mantenendo  il compor-
tamento di attaccamento che instaurano con
noi, e che a sua volta è sostenuto dalla spinta
motivazionale complementare di cercare pro-
tezione dai pericoli e dai “persecutori”.
Tutti i processi di crescita comportano l’inte-
riorizzazione di modelli relazionali affettivi che
noi attiviamo con gli altri, alcuni “ereditati” altri
“nuovi” che ci permettono di orientarci nel
campo delle scelte, liberi di decidere la direzi-
one del nostro comportamento. Ed è proprio la
fiducia di base, pregressa o scoperta, di poter
contare su rassicuranti legami esterni e interni,
e quindi dalla condizione di dipendenza dall’al-
tro al radicamento in se stessi come individui,
che potrà consentire all’adulto come ad un
bambino con i suoi genitori, di dare inizio ad
un viaggio che va dalle radici dei propri attac-
camenti alla libertà di essere se stessi, espri-
mendo appieno il proprio potenziale creativo.
Di Luciano Rusticucci
Penso come sono arrivato a fare questa vita /
meditando sotto l’acqua di una doccia arrug-
ginita, / e così mi rivedo bambino innocente
e sciocco, / c’ero cosi vicino, mi sono allon-
tanato troppo / ed ogni giorno porto come
addobbo segni, cicatrici e marchi sul mio
corpo. / E vedo cose brutte che non ci credi, /
tipo gli scarafaggi che passano tra i miei piedi
/ bagnati dall’acqua che scivola sulla mia pelle
/ su un pavimento freddo e senza mattonelle.
Ovunque mi giro vedo solo grate / e se mi
affaccio da qui pure le stelle sono oscurate.
Ricordo quando ero in caserma con le mani
contro il muro, controllavano i miei panni men-
tre li guardavo nudo / e il pensiero va a quante
cose ho passato / e a cosa inventarmi per dire
che non ero stato.
Le ore mentre mi portavano via apparivano
meno corte, / scure come l’inchiostro sulle
mie impronte. Serve a migliorarti, è così che
dicono / ma non capisco perché molti ci si
impiccano.
Ora sto dentro e mi manca la ragazza / e le
urla di mia madre che è diventata pazza. / È
una notte fottutamente scura / ed anche se
non dovrei, ho un po’ paura, / il terrore negli
occhi perché non so quanto cazzo dura, / sarò
sincero vedo nero / e sclero / perché quando
prego non so se prego un Dio che c’è davve-
ro,/ ma perlomeno spero / che le mie preghiere
in cielo prendano un sentiero più sereno e
vero. O che invece di pregare almeno un po’, /
pensavo che era meglio avere la borsa di Louis
Vuitton / con il Galaxy perché no! O l’ I-Phone!
/ Credimi sono pessimista, volevo vederci oltre
e ho perso la vista / e ora che penso, hai avuto
conferma dei miei sbagli fatti / e non voglio più
intorno finti matti, / voglio solo vincere /con chi
amo e dire / a voi tutti, pensate ai cazzi vostri e
alle vostre stronzate /perché da me prenderete
solo mazzate.
Dio mio se ci sei dammi un segno, / sono 30
anni che ci metto l’impegno, / dammi il tuo
amore, dimmi che sono degno / di prendere i
miei sogni e viverli nel tuo Regno, / perché ne
ho bisogno.
Qui mi sento solo, / vivo più leggero ma non
prendo il volo, / forse sono solo un fallito come
hanno detto loro, ma mostrare il contrario è un
risultato buono /e non voglio fare la fine che
dicono. /
Chiudo i miei pensieri nel libro del mio ido-
lo….C’era una volta a “Roma” è qualcosa di
mitico / e mi sento rinato ad ogni nuovo capi-
tolo, / questo è un messaggio di redenzione /
molto più di una semplice canzone / dovuto al
giorno che ho visto il mio nome / sul registro
detenuti di questa prigione.
La soglia
Dipendenza:
prendere da… per creare se stessi
Qui mi sento solo, vivo più leggero
ma non prendo il volo
In-Dipendenze
Il viaggio verso la costruzione delle tante
In-Dipendenze possibili.
In-Dipendenze è un contenitore complesso.
Ha più prospettive, punti di vista che lo (s)
compongono.
In:
 esprime la relazione di due oggetti di cui
uno sia contenuto nell’altro. Come il bambino
nella pancia della mamma.
Dipendenza:
Laprima, è universale: Nutrizione,
Consolazione, Abbraccio. È Madre. Base sicu-
ra. Solo poi, attraverso l’interiorizzazione dei
comportamenti e degli affetti scaturiti dalla
figura di riferimento, ciascuno sviluppa una
struttura interna capace di consolare e prote-
ggere. Dalla prima dipendenza si fa necessità
la prima libertà.
Indipendenza:
La libertà è una forma di dis-
ciplina, richiede impegno, è scelta, è respons-
abilità. La realizzazione di sé e l’esperienza di
libertà non stanno nel poter fare tutto ma nel
poter scegliere di viaggiare sapendo di poter
tornare a Casa, nel posto dentro ciascuno di
noi, al quale cerchiamo di far assomigliare i
posti che abitiamo, nei quali non siamo mai
soli. Interdipendenza: Sono gli altri, le persone
che abbiamo intorno, a darci la possibilità di
capire che cosa abbiamo dentro. L’altro ci
serve. Come le scarpe, come il sonno.
In-Dipendenze:
racconta le dipendenze che
rendono infelici, racconta l’aver cura, racconta
la ricerca la ricostruzione e la difesa della lib-
ertà, racconta la dipendenza allegra dall’altro,
racconta la bellezza, il coraggio e la costruzi-
one, il viaggio verso la costruzione delle tante
In-Dipendenze possibili.
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