Itaca n. 18

2 argomento salute è complesso, perché riunisce in sé una serie di condizioni fisiche, morali, motivazionali, ambientali che, tutte insieme, producono salute o malessere. Ogni base di salute presuppone il funzionamento degli organi. Essi sono molti e complessi, spesso coinvolgenti varie parti del corpo. Lo sviluppo della medicina si è talmente perfezionato da predisporre medici, farmaci, riabilitazioni per combattere ogni malessere. Una tendenza che va sempre più raffinandosi: dai dolori di testa, fino alla cura dei piedi. La difficoltà maggiore è nel trovare la causa della malattia, anche se, in alcuni casi, la diagnosi non chiarisce l’origine, né la causa. La situazione disastrosa è la dichiarazione di malattia “rara”. Significa che si brancola quasi nel buio, con l’accompagno medicale generico e non risolutivo; inoltre, per lo scarso numero di tali malattie, la ricerca, economicamente impegnativa, langue, se non è addirittura assente. L' La salute di tutti a disposizione del mondo DonVinicio Albanesi

3 La spesa sanitaria assorbe il 7% del bilancio dello Stato, per una cifra che oscilla tra i 120-130 miliardi. Il nostro Paese garantisce la cura con un servizio unico, universale e gratuito. Non è così nel mondo: anche in Paesi evoluti e benestanti occorre far fronte con le proprie risorse per curarsi; condizione che determina l’abbandono dei poveri. L’attenzione e la cura della salute ha permesso l’allungamento della vita: in Italia l’attesa di vita, in media, è di 85 anni per le donne, 82 per gli uomini; aumentano i centenari. Problema serio è la non autosufficienza: una vita fisica che ha perduto autonomia e scarse attese da raggiungere. La società moderna, costretta a correre, lascia indietro chi non tiene il passo. Si rimane soli, senza compagnia ed amicizie. Uguale condizione per quelle persone, in disabilità, la cui famiglia è inesistente e scomparsa. Si è costretti ad affidarsi a terze mani, nella ricerca di un ambiente affettuoso, sano, ma anche capace di rispondere alle esigenze del vivere quotidiano. Sono sempre più rari i luoghi nei quali, pur vivendo in gruppo, si rispettano gli equilibri fisici, emotivi e relazionali. Interconnesse con la salute fisica, perché necessarie al suo equilibrio, sono condizioni psicologiche che offrano armonia e stabilità. Le malattie dello spirito (psichiatria) coinvolgono, nel nostro Paese il 20% della popolazione, con oltre 700 mila persone in carico alle strutture specialistiche. La gravità di tali disturbi è difficile da catalogare ed anche da prevedere: disturbi schizofrenici, disturbi di personalità, disturbi da abuso di sostanze, ritardo mentale, disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. La “carriera” psichiatrica nasce dalle visite del medico di base, per passare agli specialisti, fino a strutture di affidamento per problematiche serie ed irreversibili. I farmaci non guariscono, ma servono a placare i disturbi. Da aggiungere lo “stigma” che la malattia psichiatrica porta son sé, anche se è esagerato e spesso infondato. Il malato viene respinto perché illogico: rimane invece una persona da rispettare e della quale non aver paura. L’atteggiamento migliore è quello di capire qual è la “sua” logica, anche se, in alcuni momenti, è distorta e di difficile comprensione. Se tutelata e placata, la persona con malattia psichiatrica continua a vivere con i propri sogni e speranze. L’equilibrio delle affettività è fondamentale per sentirsi in salute. La sua mancanza spesso è inguaribile: la perdita di una persona cara, una violenza subita, l’abbandono vissuto creano il vuoto che determina lo squilibrio di tutta la vita. Solo il recupero di persone vicine ed affettuose può lenire il dolore della solitudine. Non sono sufficienti le attenzioni dettate da misericordia e da aiuto: gli affetti profondi esigono convinzione, continuità, presenza, profondità. La solitudine può esser vissuta in tenera età, ma anche da adulti: un vuoto difficile da scoprire e soprattutto da colmare. Può portare all’isolamento, ma anche alla rabbia e all’aggressività. Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito Da non dimenticare la storia del territorio dove si nasce e si vive. La casa, la città, il quartiere, il lavoro influenzano la crescita e la vivibilità della vita. Non è uguale nascere in un “qualsiasi” luogo: cultura, occasioni, clima sociale, speranze contribuiscono a rendere la vita giusta o almeno vivibile qualche spezzone di salute. Se si vive in ambienti degradati, la crescita e le relazioni subiscono traumi, anche se, nei dettagli, non si riesce ad enucleare cause ed effetti: il bambino non sarà il primo della classe, il lavoro sarà marginale, precario e povero, la famiglia rischia di essere sconnessa, con problematiche serie di relazione. Due fenomeni sono recentemente venuti alla luce, a proposito di salute: il salutismo a tutti i costi e la globalizzazione delle risorse. Il salutismo ha come obiettivo la bellezza dei corpi: saune, massaggi, creme, integratori, medicina estetica offrono mille occasioni per correggere le pelli, gli organi, i muscoli, l’andatura. È un surplus che si possono permettere popolazioni benestanti. L’obiettivo è combattere l’imperfezione e, soprattutto, la vecchiaia. Non si accetta il ritmo biologico affidato agli umani. Per gli elettrodomestici hanno inventato il tempo di durata; la natura ha pensato alle sue creature. Se da una parte la tendenza è valorizzare la vita, dall’altra non si accettano la sua durata e le sue imperfezioni. Il danno parte dalle età giovanili e mature, in quanto si perdono le occasioni di vita intensa, non volendo immaginare un’epoca da anziani che ha ritmi più lenti, minore evidenza sociale: alla fin fine meno considerazione. Spingere sull’allungamento della vita non porta da nessuna parte: l’unica strada è quella di rispettare ogni età, prendendosi carico dei limiti che il tempo assegna all’esistenza. Con l’aggiunta che un ritmo elevato di vita abbandona chi non è in grado di correre: essere vecchi diventa una vergogna ed un peso. Invertire la tendenza dipende da chi, con forza e vigore, può riequilibrare il senso dell’esistenza per ogni sua fase. Il secondo fenomeno che incide sulla salute è la tutela dell’ambiente. La coscienza dell’influsso benefico o malefico del creato sulla salute non è ancora presente nella coscienza collettiva. Eppure, la scienza ha dimostrato che vivere in ambiente salubre allunga la vita: i cibi, i lavori, la famiglia, l’istruzione, gli stress influenzano non solo la salute singola, ma i meccanismi interi degli equilibri sociali e politici dell’intero mondo. L’acuirsi di guerre, di catastrofi, del cambiamento climatico, delle violenze ha le sue cause che sembrano ignote; eppure le origini della frammentazione delle famiglie, delle istituzioni, delle disuguaglianze, degli sfruttamenti sono opera umana. La natura offre il prezzo dell’agire umano. Il risveglio delle coscienze nella profondità dell’umano può invertire la rotta del declino. Impegno che sembra appartenere al “mondo”; in realtà è a disposizione di ognuno.

4 Qui Gaza Curare in un vicolo cieco Dentro il conflitto Ho lavorato all’European Gaza Hospital a sud est di Khan Yunis, la seconda città più grande dell’area urbana nella Striscia di Gaza dopo Gaza City. Non ho visto il conflitto fuori, perché ho vissuto blindato in ospedale, ma ho visto quello che questo conflitto sta producendo: morti e feriti. Credo che per ritrovare un’intensità di bombardamento simile bisogna ritornare alla Seconda Guerra Mondiale. Solo che la Striscia di Gaza è piccolissima ed i morti sono sempre troppi. Anche un solo bambino morto è troppo. I corpi devastati dalle esplosioni Questo è un conflitto da esplosione, non ci sono feriti da arma da fuoco, ma solo feriti da bombardamenti aerei. E i feriti da esplosione sono più complessi: nella stessa persona, nello stesso paziente, c’è una miscela di traumi da onda d’urto, poi ci sono le ustioni, poi le ferite balistiche, poi frammenti e schegge in ogni parte del corpo. Nell’ospedale c’erano i malati, i mutilati e poi anche i vivi, gli sfollati che non avevano più un posto dove stare e cercano rifugio: ma gli ospedali non sono una zona protetta. Le vittime Dicono che l’esercito israeliano cerchi di colpire solo obiettivi militari e combattenti. Ma il 40% delle persone ferite sono bambini. Il primo paziente che ho visto quando sono arrivato era una bambina di un anno, senza gambe, amputata dal trauma, che non sapeva ancora camminare. Io le ho regolarizzato i monconi. Li chiamano i danni collaterali… ma qua parliamo di gente che, se arriva viva in ospedale, poi esce senza gambe, senza braccia, senza occhi. Parliamo di persone che hanno perso fratelli, sorelle, figli, mariti, mogli, genitori. Il burnout Come staff internazionale possiamo stare qui dalle quattro alle sei settimane. Poi veniamo “rilevati” e sostituiti con un altro team per evitare il bornout. Il rischio del bornout è una cosa concreta, ma vale anche per tutto il personale locale, vale per tutto lo staff palestinese. Ma loro non possono uscire, e allora rimangono qui. E lavorano sotto shock da settimane. Noi possiamo dire “vabbè, resistiamo. Prima o poi usciamo”. Per loro, invece, non c’è limite a tutto questo. Tutte le persone che ho incontrato sono in disturbo post traumatico da stress. Ripeto che non parliamo di un singolo individuo, ma di una popolazione intera. Erano persone con un lavoro, una casa. Persone a cui di colpo è stato detto: “vai via”. Il controllo e il fuoco I droni non smettono mai. Non si vedono, ma si sentono sempre. Sorvegliano tutto il territorio di giorno e di notte, erano anche sopra l’ospedale, pronti ad indicare il prossimo bersaglio. È una cosa un po’ surreale. Un giorno ero seduto alla finestra, vedevo i droni, e poi ho sentito gli uccelli cantare. E mi sono detto “gli uccelli cantano ancora, a Gaza non c’è nessun altro che lo fa”. La popolazione è stremata e continuerà a subire, finché andrà avanti questa guerra. Qualcuno non reagisce più, non parla più, non ha più niente da dire. Tutte le persone con cui lavoriamo hanno perso qualcuno. La notizia della morte arriva con una telefonata, e loro spesso continuano a lavorare. Anna Spena Vita No Profit La Striscia di Gaza è un fazzoletto di terra di 300 chilometri quadrati: qui vivevano due milioni e 300mila persone, quasi la metà minori. Nella Striscia di Gaza, dallo scorso sette ottobre, dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, i morti palestinesi durante i bombardamenti delle forze di difesa israeliana sono quasi 18mila, anche qui: quasi la metà sono minori. Nella Striscia di Gaza c’erano 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 22 strutture ora sono fuori servizio a causa degli scontri armati. I morti si seppelliscono nelle fosse comuni per evitare le epidemie, perché a Gaza manca l’acqua. I camion umanitari entrano a singhiozzo dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto. A Gaza anche il diritto umanitario internazionale è morto. Paul Ley, 60 anni, chirurgo ortopedico, medico di guerra, lavora per la Croce Rossa Internazionale. Lo scorso 27 ottobre è riuscito ad entrare nella Striscia. Questa la sua testimonianza, raccolta da Anna Spena.

5 Vita No Profit Qui Ucraina La salute è liberarsi dall’odio Elena Mazzola Elena Mazzola è presidente di una Ong ucraina, Emmaus, una comunità che si occupa della cura e dell’assistenza a bambini e ragazzi disabili o problematici, ed agli orfani del conflitto che dal 2014 dilania il Donbass. Elena, con la sua comunità, è arrivata in Italia qualche settimana prima dell’inizio dell’aggressione russa con un avventuroso viaggio, ed ora vivono insieme in due palazzine a Milano, zona Bovisa. ono sempre stata con gli ucraini, vivo con loro, sono scappata con loro, questo vuol dire un livello di sofferenza personale che qui non si percepisce. Sentire da quasi un anno, ogni giorno, intorno a te la minaccia della morte è cosa pesante per me e pesantissima per i miei amici. Parlare di pace mentre da quasi due anni bombardano la tua casa sembra assurdo. È chiaro che noi desideriamo la pace: e il desiderio più grande che ho io e che hanno gli amici ucraini con cui vivo. Pace per noi è poter tornare a casa, riprenderci quello che c’è stato strappato da un giorno all’altro con la forza, ritrovare quello che resta di ciò che era la nostra vita. Siamo in guerra, noi viviamo ogni giorno dentro la guerra, quella per cui abbiamo amici al fronte, amici morti combattendo, amici sotto le bombe da mesi, anziani che vivono al freddo e senza elettricità, gente in ospedale che viene bombardata, mentre noi che siamo qui ci sentiamo come in esilio, strappati dalla nostra terra, dai nostri affetti e dal nostro lavoro e non sappiamo se e quando potremmo tornare a casa. Quando tanti miei amici dicono “Noi non possiamo non odiare”, io rispondo: vi capisco, ma non possiamo non lasciare aperto uno spiraglio; possiamo dire: “Adesso non riusciamo a non odiare”, ma dobbiamo capire che, se l’odio diventa il nostro orizzonte e se insegneremo ad odiare, distruggeremo noi stessi ed il nostro popolo. E loro replicano: “Ma i nostri bambini già odiano, già dicono dobbiamo ammazzare tutti i russi”. Ci sono stati dialoghi intensi, finché una delle mie ragazze, Tanja, se ne è uscita con una frase che ha stordito tutti. Tanja ha un ritardo mentale non grave ed una invalidità fisica anch’essa non grave, ed ha questa storia: famiglia umile di Kharkiv, mamma e papà e tre figli, di cui due, Tanja e un fratello, non camminavano per una forma di paralisi cerebrale. Quando aveva cinque anni, il papà si impicca e lei vede il cadavere del papà trascinato via. Un anno dopo, il nuovo convivente della mamma la uccide nella stessa casa. Dopo di che Tanja va in orfanotrofio e, dopo molti anni, ci incontra e comincia a vivere con noi. Ora è con noi in Italia, è stupenda e cammina pure grazie alla fisioterapia. Ecco, Tanja partecipa ad una di queste discussioni ed improvvisamente interviene e dice: “Eppure io con Emmaus ho fatto un’esperienza d’amore così grande che sono riuscita a perdonare l’uomo che ha ucciso mia mamma”. Noi non avevamo mai messo a tema questo problema del perdono dei russi, ma lei ha un’esperienza tale che ha capito che non si può essere felici se non perdonando. In Manzoni, a cui ho dedicato un libro (“Manzoni tra Mosca e Kiev”, edizioni Scholé, ndr), nel dialogo tra Fra Cristoforo e Renzo c’è proprio questa idea. Fra Cristoforo spiega a Renzo che, se non arriva a perdonare davvero, non può essere felice e le nozze non si compiono. Quando capisci che sei amato, arrivi a perdonare l’imperdonabile. In contemporanea, in un incontro difficilissimo e molto duro in cui la nostra psicoterapeuta Natalja dialogava con i russi del Memorial (premio Nobel per la pace 2022, ma pur sempre russi…), alla domanda su cosa augurasse per il suo popolo, lei ha risposto così: “Auguro al mio popolo di essere abbracciato, auguro al mio popolo di fare un’esperienza di amore ed un’accoglienza così grande (aveva raccontato a loro l’episodio di Tanja) da poter un giorno perdonare”. Io ho tanti amici russi, con quelli che fanno discorsi tengo il silenzio, quelli che hanno bisogno li aiuto, magari perché sono scappati, ma niente discorsi. Con gli ucraini andiamo ad accoglierli, ecco gesti non discorsi. Il tentativo che facciamo ora in Italia è di raccontare a tutti di questa possibilità, e stiamo facendo memoria ognuno secondo i tratti della sua storia personale, di aver fatto la stessa esperienza di amore che ha fatto Tanja: persone che ci hanno dato gratuitamente le loro case, altri che ci portano da mangiare, altri che ci aiutano a trovare lavoro. Papa Francesco ci ha detto che “lo stile di Dio è la vicinanza”. Così capita anche che, mentre oggettivamente la pace non c’è, la pace in noi e tra di noi ci sia. Penso che l’esperienza di Tanja ci renda responsabili verso tutto il popolo dell’Ucraina, i nostri ragazzi che hanno subito tante violenze, possono portare tanto bene, l’Ucraina ha bisogno dei nostri ragazzi. S

6 Alessandra Morelli Qualcuno sostiene che il percorso letterario di Dante Alighieri abbia preso le mosse da un sogno. A lui, poco più che diciottenne, apparve Amore, dio terribile, che teneva tra le braccia Beatrice e nel palmo della mano il cuore del poeta, rosso di sangue come una «cosa la quale ardesse tutta». Amore offre il cuore di Dante come cibo a Beatrice, che lo mangia. Quale fosse il significato di questa immagine onirica, lo avrebbe scoperto poi. Smarrito nella selva oscura dei suoi errori umani, Dante avrebbe trovato la propria salutem, «salvezza», nell’Eden della «Divina Commedia», al cospetto di quella donna-angelo che lo fa tremare e che, molti anni prima per le strade di Firenze, lo aveva salutato, guarendolo già prima di renderlo malato. Il saluto, misura di smisurata salvezza per la cristianità, viene tradotto laicamente da un gruppo di poeti, grandi amici prima ancora che letterati, che si autodefinivano stilnovisti. E Dante era uno di loro. Tutto mi salva

7 Così, mentre i Vangeli raccontavano che il saluto di Maria alla cugina Elisabetta fece sussultare il bambino nel grembo di lei, la letteratura si rivolge a quel Francesco di Assisi, che per primo aveva cantato la salvezza non soltanto come un riflesso di Dio sceso in terra a miracol mostrare, ma come un amore generato dalla fedeltà alla terra, per qualsiasi creatura viva sopra di essa e per la morte stessa. Una sorta di cortocircuito logico, lo chiamerebbe Haim Baharier, alla luce del quale l’umanità può imparare a salvarsi, ricongiungendosi innanzitutto con la propria natura. È questa peregrinazione spirituale a rendere gli uomini eroi di un comune destino al di qua o al di là di un confine storico, che divide i sommersi da i salvati. Ma chi sono gli uni e chi gli altri? Il Novecento arriverà ad affermare che, infondo, nessuna redenzione è possibile, perché la salvezza è qualcosa di relativo e banale, proprio come il Male. Scrive Primo Levi: «i “salvati” dei Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.» Ma c’è pur sempre un margine di salvezza per chi trova la via di casa. Ce lo insegna Pinocchio. Da germoglio di un pezzo di legno, diventerà un bambino vero non per essere caduto più volte, per essere stato impiccato nella tempesta, abbandonato ed ingoiato da un pesce-cane, ma per aver imparato a nuotare in mare aperto, portando sulle spalle Geppetto, suo padre, fino alla spiaggia: «-Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo […]. - E dove dobbiamo andare? – domandò Geppetto. - In cerca di una casa». Pinocchio è salvo quando riesce a trovare la sua dimensione di figlio e di creatura: la sua mèta è nella conquista dell’obbedienza, intesa come ascolto, ob-audire, di una libertà tanto più bella quanto responsabile e difficile da maturare, soprattutto per un burattino che era stato fabbricato senza le orecchie. La salvezza può anche essere racchiusa in una sola parola da ascoltare: è la grande lezione dei poeti. Siamo nel 1916 ed in seguito ad un violento ammaraggio per un guasto al motore del suo aereo, Gabriele D’Annunzio si ferì gravemente all’arcata superiore dell’occhio destro. Fu costretto ad un periodo di temporanea cecità, con entrambi gli occhi fasciati, a letto, nell’oscurità e nell’immobilità. Da questo stato notturno, il Vate viene condotto fuori grazie alle premure della figlia Renata, che si rende fautrice amorevole di un piccolo miracolo. Ritaglia centinaia di striscioline di carta che fa scorrere su una tavoletta di legno, permettendo così a suo padre di scrivere, cartiglio su cartiglio, una frase dopo l’altra, che poi decifrava ed assemblava, custodendo il frutto della rinascita del poeta: «Dimmi tu se noi possiamo vivere senza una ragione eroica per vivere.» Dirà Alda Merini, icona contemporanea di salvezza, che proprio la capacità di esprimersi attraverso gesti d’amore è, nonostante tutto, il rimedio: «Alla tua salute,Amore mio!»

8 La salvezza è orizzontale Daniele Mencarelli Un dualismo che non c’è «Io soffro sempre il dualismo tra ciò che ci fa stare bene e ciò che invece ci mette alla prova in senso negativo. Queste due esperienze della vita in realtà sono meno separate rispetto alla nostra immaginazione. In fondo è quasi sempre il nostro più grande amore che ci fa soffrire: soffriamo per le cose a cui più teniamo. Per le cose che non ci sfiorano, non soffriamo. Invece, se io amo davvero una persona, ho desiderio di salvarla, di vederla viva; ma so che questa salvezza non dipende da me e questo mi mette alla prova e può farmi soffrire, perché sperimentiamo il limite naturale dell’amore che ha a che fare con il dolore». Corpo a corpo Per Mencarelli l’essere scrittore è tutt’uno con un percorso di svelamento delle tante strade attraverso cui si palesa la salvezza. Per questo non risparmia nelle sue pagine i risvolti più drammatici e sanguinanti della realtà. «La letteratura vera parla sempre al presente, è un corpo a corpo con il presente. Secondo me la letteratura è la grande chiave politica che oggi manca, perché ci si accontenta di farne una forma alta di intrattenimento, e così sembra che non abbia più nessun ruolo civile, sociale e politico. Lo dico non da scrittore, ma innanzitutto da lettore. È quello che cercavo e che mi ha salvato quando ero adolescente. Cercavo una lingua che mi mettesse in contatto in maniera profonda, umana e reale con chi avevo attorno, anche con chi è nato e morto prima di me. Mi riferisco alla lingua di scrittori come Pasolini, Caproni o Testori». L’altro è alto La ricerca di parole vere porta allo scoperto anche l’ipocrisia di tante parole sulla bocca di tutti. Ad esempio “ben-essere” è sempre pensato come dimensione egoistica e individuale. Il rischio è che in questa spirale finisca anche la parola “salvezza”. Ma per Mencarelli si tratterebbe di una contraddizione in termini. «Lo spiego con un gioco di parole: “l’altro è alto e l’alto è altro”. L’altro non solo è elemento di sostegno, ma anche un banco di prova per chi ha a cuore il tema della salvezza e non pensa soltanto alla propria. Alla base c’è una visione comune che ci salva: non “mi” salva, ma “ci” salva. In questo grande lavorio attorno alla salvezza, l’altro è quello che devo salvare insieme a me, quello che se non salvo, non metto al riparo neanche la mia salvezza. Esiste una salvezza orizzontale, verso l’altro: è una salvezza dell’altro che schiude all’esperienza della salvezza verticale, che io penso sia l’ispirazione di chi non si fa bastare questo mondo e desidera qualcosa d’altro». Una vita più ampia I suoi romanzi con il successo sono diventati strumenti attivatori di comunità. Mencarelli non si sottrae dall’impegno di decine di incontri, in particolare con i giovani: la sua agenda è sempre fitta di appuntamenti. «Sono convinto che sia fondamentale riscoprire il gusto della comunità. Oggi chi vive l’esperienza di un sentimento religioso, che spesso si traduce in un’appartenenza, è chi ha più un’idea dell’esistenza come comunità che va oltre il proprio piccolo nucleo borghese. Quando ho scritto Fame d’aria ho voluto affrontare proprio questo tema: la comunità riesce, vince laddove il piccolo nucleo familiare fallisce, proprio per una concreta mancanza di braccia a disposizione, di relazioni. Il nucleo ha bisogno della forza della comunità e per questo deve aprirsi. Siamo fatti per vivere in maniera più ampia rispetto a quanto sentiamo e pensiamo. Il compito, anche della letteratura, è far riscoprire questo sentimento». «Salute, s. f. [lat. Salus -ūtis «salvezza, incolumità, integrità, salute», affine a salvus «salvo»]. – 1. letter. Salvezza, soprattutto come stato di benessere, di tranquillità, d’integrità, individuale o collettiva». È voce tratta dal dizionario Treccani. “Salute” quindi ha la stessa etimologia di “salvezza”. Un concetto che è ben chiaro a Daniele Mencarelli, scrittore che ha messo questa parola nel titolo del suo romanzo più popolare, “Tutto chiede salvezza”. Nella sua biografia Mencarelli ha fatto esperienza di una sofferenza sia fisica che psichica. Ed è proprio da questa esperienza che è nata la coscienza di un’equivalenza tra salute e salvezza. Patrick Tuttofuoco perVetra Building Milano.

9 Quello che ho è qualcosa che sono I am Aveva sbirciato il foglio sul tavolo e la dicitura della diagnosi era in alto, lapidaria, qualcosa che solo dieci anni prima sarebbe stata una sentenza di morte veloce. Carcinoma renale al quarto stadio. AM. Un lampo. AM. Un altro lampo. AM. Ancora uno. Mentre firmava i fogli e lui compilava la ricetta, la sillaba continuava a lampeggiarle in testa e d’improvviso prese coscienza del fatto che il medico non aveva mai nominato la malattia. «Fuori da qui c’è mia sorella, dottore, e ho altre persone care. Quando mi chiederanno cosa ho, come lo devo chiamare? Quello che c’è sul foglio non riesco a dirlo.» Si fissarono. Il medico sospirò, poi rilassò le spalle, appoggiandole allo schienale. Dietro alla barriera di plastica trasparente il suo corpo sembrava non avere spessori, come le foto pressate nelle cornici a giorno. Quando parlò, l’illusione della bidimensionalità svanì. «Lei che nome vorrebbe dargli?» Era una richiesta strana quella di battezzare un tumore. Le risuonarono in testa tutte le parole che conosceva già. Brutto male. Male incurabile. Il maledetto. Il bastardo. Quella cosa. Non gliene piacque neanche una e d’impulso disse: «In coreano quella parola si dice “am”. Crede che potrei usare quella?» Era stata così precipitosa nel rispondergli che nel momento stesso in cui aveva finito di fare la richiesta se la sarebbe voluta rimangiare. Si sentì infantile ad ammettere di aver bisogno di una parola che non fosse mai stata in bocca a nessuno che conosceva. Usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le parve l’unica sostenibile in quel momento. Si aspettava che il medico ridesse, ma lui invece sembrò ponderare la proposta, pensandoci qualche secondo. Poi annuì serio porgendole le prescrizioni nel pertugio del plexiglas. «Mi scuserà, non so nulla di coreano, ma in inglese am è la prima persona singolare del verbo essere, quindi credo che sia una parola abbastanza giusta», sorrise. «Potrà rispondere I am, come se dicesse “quello che ho è qualcosa che sono”, e non sarebbe niente di impreciso.» Non li temevo Poi però era successo qualcos’altro. Dopo il secondo mese i conati avevano cominciato a presentarsi indipendentemente dalle circostanze. Anche la mia disposizione nel frattempo era cambiata. Mi stavo abituando. Non solo non li temevo più, ma se tardavano mi sorprendevo ad aspettarli. Se saltavano un pasto mi chiedevo perché. Con lo scorrere delle settimane mi accorsi che stava mutando anche la loro dinamica. Una sera, dopo un’intera giornata di digiuno, il vomito era arrivato con insolita lentezza. Lo sviluppo dello spasmo si era scomposto in segmenti definibili uno per uno, come i metameri di un lombrico. Li avevo contati in sequenza, immaginandomi osservata dall’esterno, di profilo nella luce gialla del bagno: una donna china sul water a fissarne il fondo in attesa della perdita di equilibrio che sempre precedeva il primo sbocco. Non avrei potuto raccontarlo a nessuno, ma era stato emozionante. Dopo quell’episodio, quando sentivo risalire l’energia nera dallo stomaco, mi veniva un’euforia da primo appuntamento che attivava un fulmineo rituale di preparazione. Correvo in bagno, mi liberavo delle mutande e mi sedevo sul bidet rivolta al cesso, aspettando. Era questione di attimi, durante i quali l’istinto del rigurgito si trasformava in una spinta muscolare interna che dal plesso solare andava dritta al centro della fronte come uno spiedo. L’impasto di dolore, tensione e forza con cui si presentava il primo conato culminava in un lampo di quattro secondi, quattro perfetti singulti in cui si sospendevano i sensi e tutto il corpo perdeva il controllo. Era lo stato più vicino allo svenimento che avessi mai sperimentato. Qualunque cosa venisse dopo, rigetto compreso, valeva quell’orgasmo. Vomitare mi piaceva. Giovanni Testori, Nudo di donna Michela Murgia ha condiviso pubblicamente il percorso della sua malattia, in forza della convinzione che lei non era definita dalla sua malattia: “Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me”, ha detto. Di quell’esperienza parla in un libro, il suo ultimo; la racconta in mezzo ad altre storie, perché per lei la malattia non era l’unica storia. Il libro si chiama “Tre ciotole” e da lì abbiamo tratto questi due brani, che paradossalmente sono pieni di salute. Michela Murgia

Stare insieme

12 Il ben-essere chiede tenerezza Professore, partendo dalla sua lunga esperienza, come definirebbe uno stato di “salute”? Parlare di salute per me è parlare innanzitutto della fragilità. È l’aspetto costitutivo della nostra condizione umana. Cosa saremmo come persone, se la nostra persona venisse stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine? E poi aggiungo anche dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? La consapevolezza della fragilità e del bisogno è la premessa per affrontare il tema della salute. Ognuno ha le sue fragilità, ma tutte hanno una comune connotazione umana. Avere questa consapevolezza è la premessa per liberarsi da un’idea di salute come controllo a volte ossessivo della propria condizione fisica o psichica. Invece va ribaltata la prospettiva, partendo dall’esperienza della fragilità che non è un meno, ma al contrario è come una grazia, una linea luminosa tracciata nelle nostre vite. È come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni stagione della vita. Naturalmente c’è anche la fragilità che è come un’ombra, una notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende incapaci di una tenuta emozionale e di fedeltà. Dobbiamo saper distinguere, ma, in nome della paura di questa seconda fragilità, non possiamo negarci l’esperienza dell’altra fragilità che ho paragonato ad una grazia. Di fronte alle tante esperienze di quella fragilità negativa, come si pone in quanto psichiatra? Quando si incontrano esistenze sbandate a livello psichico si constata che esse non sono segnate da disturbi del pensiero, quanto da emozioni ferite dalla tristezza e dall’angoscia, dalla inquietudine dell’anima, dal dolore del corpo e dal dolore dell’anima. Ma non comunichiamo con coloro che stanno male e che sono lacerati da emozioni ferite, se non riconosciamo queste persone come parte del nostro comune destino. L’obiettivo perciò è ricostruire la comunicazione perduta, che è possibile ritrovare solo nella misura in cui le parole di chi cura sono capaci di ridestare Eugenio Borgna Jacopo Riva, Di corsa fiducia e speranza. Il medico nel fare domande, nel ricostruire la storia di una vita, nell’esporre le conclusioni diagnostiche, deve essere sincero, ma deve contemporaneamente tenere presenti le risonanze emozionali, l’angoscia, che alle parole possono conseguire, e deve guardarsi dal ferire la dignità delle persone malate e non malate, con parole, con gesti che nascano dall’indifferenza e dall’impazienza. La cura dunque è anche un fatto di buona comunicazione? Ci sono sguardi che curano e sguardi che accrescono il dolore, sguardi che attendono una risposta e sguardi che anticipano una risposta, ancora più pericolosi degli sguardi dell’indifferenza. Quanto tempo dedichiamo ad ascoltare parole e sguardi con cui le parole ci sono dette? Al di là dei percorsi razionali, accanto alle strade della filosofia, non possiamo non considerare che il nostro dire, anche quello ora tra noi, prende delle vie che sono determinate dal tono della voce e dall’interiorità che si manifesta. C’è bisogno di tenerezza nel comunicare. Tenerezza, una parola che le è cara…. Certo. La tenerezza è la più fragile e la più evanescente delle emozioni, cambia la sua forma sulla scia di quello che accade in noi e fuori di noi. La tenerezza anima il nostro modo di vivere e di curare, ci fa sentire l’altro come persona non come cosa, aiuta ad immedesimarci nella vita interiore degli altri e a farne riemergere le attese e le speranze. La tenerezza si esprime con il linguaggio delle parole, e con quello del corpo vivente. Uno sguardo, un sorriso, una lacrima, una stretta di mano, una carezza, un abbraccio ne sigillano i modi di essere. La tenerezza aiuta a conoscere, a lenire le ferite dell’anima, e quante incomprensioni e quanti sogni infranti eviteremmo, se la tenerezza non ci fosse sconosciuta e ci seguisse nel cammino della vita. La tenerezza ha un suo fragile tempo interiore, quello di un presente, non mai chiuso in sé, ma aperto al passato, alla memoria e insieme al futuro, all’attesa, quindi alla speranza. «Non si tratta di conoscere le malattie – parola che non dovrebbe mai essere usata – non serve a nulla se non sappiamo viverle, per un attimo, come se fossero nostre». Parola di Eugenio Borgna, grande psichiatra, attento comunicatore, che concepisce la sua attività medica come ricerca del dialogo e come ascolto.

13 umanità è la sola specie vivente i cui membri hanno coscienza di essere fragili, parzialmente infermi, soggetti a dolore e votati alla cessazione radicale, ovvero alla morte. La capacità d’essere cosciente del dolore fa parte di quella adattazione autocritica all’ambiente che chiamiamo la salute dell’uomo. La salute è la sopravvivenza in un ben-essere che sappiamo relativo ed effimero. Questa salute suppone la facoltà di assumersi una responsabilità personale di fronte al dolore, all’inferiorità, all’angoscia e infine alla morte. Essa è in rapporto con il significato attivo dell’individuo nel corpo sociale: e in questo senso la “salute” del feto o del lattante somiglia ancora a quella di un coniglio o di un gatto. La salute dell’uomo ha sempre un tipo di esistenza definita socialmente. In generale, essa s’identifica alla “cultura” di cui tratta l’antropologia: ovvero quel programma di vita che assegna ai membri di un gruppo la capacità di porsi di fronte alla loro fragilità e affrontare, sempre nella provvisorietà, un ambiente circostante composto di cose e di parole più o meno stabili. La cultura è un “nido” necessario alla sopravvivenza; non è un mero complesso di modelli di comportamento concreti come costumi, usi, tradizioni, abitudini… ma è un insieme di meccanismi, di progetti di regolazione codificati, di piani, regole e istruzioni. In quanto animale affrancato dal determinismo genetico dei suoi istinti, l’uomo ha bisogno, estremo bisogno, di una regolazione che gli sia esteriore, e senza la quale non potrebbe mantenere l’equilibrio vitale di fronte al fallimento. In altri termini: ogni cultura è una delle forme possibili della vitalità umana. Con l’orientarne il comportamento, la cultura determina la salute: ed è solo con l’edificazione di una cultura che l’uomo trova la salute. Ogni cultura elabora e definisce una maniera particolare d’essere umano e d’essere sano, di gioire, di soffrire e di morire. Ogni codice sociale è coerente con una costituzione genetica, una storia, una data geografia e la necessità di confrontarsi con le culture limitrofe. Il codice si trasforma in funzione di questi fattori, e con lui si trasforma la “salute”. Ma ad ogni istante il codice serve da matrice all’equilibrio esterno e interno di ogni persona – genera la cornice in cui s’articola l’incontro dell’uomo con la terra e con i suoi vicini, così come il senso che l’uomo dà alla sofferenza, all’infermità e alla morte. È ruolo essenziale di ogni cultura viva quello di fornire delle chiavi per l’interpretazione di queste tre minacce, le più intime e fondamentali che vi siano. Più questa interpretazione rinforza la vitalità di ogni individuo, più reale è la pietà verso l’altro, più si può parlare di una cultura sana, di vero ben-essere. Questo potere generatore di salute, inerente ad ogni società tradizionale, è profondamente minacciato dallo sviluppo della medicina contemporanea. L’istituzione medica è una impresa professionale, ha per matrice l’idea che il ben-essere esiga l’eliminazione del dolore, la correzione di ogni anomalia, la sparizione delle malattie e la lotta contro la morte. Essa rinforza gli aspetti terapeutici di altre istituzioni del sistema industriale e assegna delle funzioni igieniche sussidiarie alla scuola, alla polizia, alla pubblicità e addirittura alla politica. Il mito alienante della civilizzazione medica cosmopolita riesce a imporsi ben al di là dell’ambito in cui l’intervento del medico si manifesta. L’eliminazione del dolore, dell’infermità, delle malattie e della morte è un obbiettivo nuovo che fino ad ora non aveva mai servito come linea di condotta per la via di una società. È il rituale medico e il suo mito corrispondente che hanno trasformato dolore, infermità e morte da esperienze essenziali, a cui ognuno deve adattarsi, in una serie di scogli che minacciano il ben-essere e che obbligano ciascuno a ricorrere incessantemente a un consumo di prodotti la cui produzione è monopolizzata dall’istituzione medica. L’uomo, organismo debole, ma munito di una capacità innata di recupero, diviene un meccanismo fragile sottomesso a una continua riparazione. Da qui, la contraddizione che oppone la civilizzazione medica dominante a ogni cultura tradizionale con la quale si trovi confrontata quando irrompe, in nome del progresso, nelle campagne o in paesi cosiddetti sottosviluppati. Le culture tradizionali traggono la loro funzione igienica dalla loro capacità di sostenere ogni uomo confrontato al dolore, alla malattia e alla morte conferendo a tutto ciò un senso, organizzando la loro presa in carico da parte dell’individuo stesso o della sua cerchia più vicina. L' Ben-essere vs medicina Yann Nguema, Gravity Ad Ivan Illich, anarchico cristiano, scrittore e pensatore austriaco, dobbiamo un libro come fondamentale, “Nemesi medica”, scritto nel 1976, nel quale ha lanciato il suo atto d’accusa contro la “medicalizzazione” dell’esistenza umana. Eccone alcuni brevi passaggi che approfondiscono la parola scelta come titolo di questo numero di Itaca. Ivan Illich

14 Il “ben-essere”, se è vero, è condizione contigua alla beatitudine. Proprio per questo una delle più belle e sicure esemplificazioni è il Discorso della Montagna, riportato da Matteo nel V capitolo del suo Vangelo. Oltre alla lettura di quelle pagine, a noi resta la possibilità di immaginare quel momento, in cui la parola di Gesù con decisione e dolcezza aveva disegnato gli orizzonti di una beatitudine non utopistica, ma praticabile. Pochi artisti si sono cimentati in questo tentativo di immaginazione, forse pensando che in quell’episodio il peso delle parole fosse troppo preponderante ed impossibile da rendere visivamente. Ma qualcuno ci ha provato con convinzione ed è curiosamente un artista della stagione più secolarizzata della storia umana, cioè la nostra. Si chiama David Hockney, inglese, ed è uno dei pittori più desiderati dai collezionisti, dai musei: in una parola dal mercato. È un artista dalla vena libera e felice, e questo lo ha aiutato a puntare lo sguardo su quel soggetto così importante e così difficile da rappresentare. È accaduto nel 2010, quando, in visita ad un museo di New York, ha scoperto un quadro di un celebre pittore francese, dedicato proprio al Discorso della Montagna. Paradossalmente è un quadro “silenzioso”, in quanto la scena è immaginata vista da lontano: si scorge Gesù sulla cima, attorniato dai discepoli, tutti in dimensioni miniaturistiche per la distanza. DAVID HOCKNEY E I L DI SCORSO DEL LA MONTAGNA B E N - E S S E R E È B E A T I T U D I N E

15 Ai piedi della Montagna, però, si è assiepata una piccola folla che ha lo sguardo puntato in alto: non si sa cosa siano in grado di ascoltare, ma il dettaglio suggerisce l’ipotesi che l’afflato delle parole di Gesù non tocchi solo chi è in grado di sentirle, ma investa ogni donna ed ogni uomo. E quel giorno ha investito anche David Hockney, il quale, a chi gli chiedeva le ragioni di quel suo innamoramento, rispondeva così: “È un soggetto molto appassionante per me”. L’artista non ha voluto reinventare la scena, ma ha lavorato con pazienza su quel prototipo: si è fatto dare un’immagine ad alta definizione ed ha cominciato a indagarla fin nei minimi dettagli, a ripulire con il computer i toni resi troppo scuri dal tempo, per recuperare ad esempio i verdi perduti. È stata come un’immersione necessaria per poter poi lui dipingere una replica contemporanea di quell’opera. A proposito di ben-essere, aveva scoperto che Claude Lorrain, per essere in grado di restituire la delicatezza del fogliame, ammorbidiva le sue mani tenendole nell’acqua calda per circa mezz’ora. Hockney, dopo questa esplorazione, si è messo a sua volta all’opera, facendo esplodere le dimensioni dell’immagine come per seguire la dilatazione della visione e del cuore che sta alla radice di quel Discorso di Gesù. Il quadro è infatti un montaggio di ben 30 tele di oltre di un metro di base, così da sviluppare una larghezza che tocca 7,5 metri. La montagna rossa e pulsante sembra lei stessa investita dall’aria nuova che le Beatitudini immettono nel mondo. Attorno la vita si prende una pausa per alzare lo sguardo. Come dice l’artista, questo è un “quadro sulla possibilità di guardare in alto, una prospettiva che mi ha sempre affascinato”. La figura che parla è al centro del quadro, ma lontana: è l’opposto dell’oratore roboante che ha bisogno di prendersi il proscenio. Eppure il suo è “A Bigger Message”, come recita il titolo del quadro di Hockney; “un messaggio più grande”. Il suo parlare sembra diffondersi nell’aria e disseminare sulle persone, sulla natura, sugli animali e sulle cose un senso di ben-essere mai sperimentato: “È qualcuno che propone una lezione di vita”. È questo il messaggio che si diffonde dappertutto quasi per osmosi, partendo dalla cima della montagna e che arriva fino a noi, facendoci sentire bene. Giuseppe Frangi David Hockney, A Bigger Message, 2010

16 a Costituzione italiana definisce la salute come un “fondamentale diritto dell’individuo”, ma anche come “interesse della collettività”: tutti i cittadini hanno, cioè, il diritto alla tutela della propria salute. I cittadini detenuti hanno lo stesso diritto, che non può essere in alcun modo compresso o abbandonato alla discrezionalità di alcuno. È a partire dalla definizione di lettura in quanto cura che, in tutto il mondo, si moltiplicano le iniziative per veicolare una presenza più consistente dei libri nelle carceri. Biblioteche e bookclub si alternano a gruppi di lettura ad alta voce, persino nelle strutture di massima sicurezza, a tal punto che è ormai riconosciuto come leggere sia uno strumento pedagogico e di trasformazione sociale, non solo per i detenuti, ma anche per coloro che vanno in prigione come facilitatori. Un reportage del “Guardian” di qualche anno fa rese nota a tutto il Regno Unito una realtà sconosciuta, “scoprendo” che all’interno della prigione maschile HMP Thamside, nella periferia di Londra, ogni carcerato aveva la possibilità di passare almeno mezz’ora, due volte al mese, in biblioteca, a scegliere i libri da leggere, e che ogni settimana veniva organizzato anche un incontro del club del libro. Quello che fuori dalle sbarre era un luogo in cui regnava il silenzio, in carcere diventava luogo di socializzazione per unire persone che, se non fossero state confinate nello stesso spazio, avrebbero avuto poco in comune. L Libertà va cercando leggere in carcere C A R C E R E E S T O R I E Liberarsi attraverso la cultura, letteralmente oltre che letterariamente è, invece, l’obiettivo di un programma di recupero, sperimentato nel 2012 in alcuni Stati del Brasile. Il “Reembolso através da leitura” prevede uno scambio tra la persona detenuta e l’amministrazione penitenziaria: la lettura di un libro per quattro giorni di sconto della pena, fino ad un totale di quarantotto giorni in un anno. Così, per quanto gran parte dei detenuti non disponesse delle basilari abilità linguistiche, gli operatori hanno potuto osservare che, nelle ore vuote ed interminabili, in molti prendessero in mano un libro, decidendo di addentrarsi nella storia che raccontava, oppure che fossero invogliati a partecipare ad un laboratorio di lettura: sempre meglio che starsene sdraiato su un letto strettissimo. Ma quali libri scelgono i detenuti? Come cominciano a leggere ed in che modo pensano che la lettura possa essere utile alla loro vita quotidiana? Le testimonianze raccolte dal gruppo di volontari che regala libri nel Carcere di San Vittore sono piuttosto significative. Per chi si trova in prigione, le preoccupazioni o i pensieri assillanti al processo sono predominanti, ma molti detenuti non sanno che la lettura può allentare queste tensioni ed aiutarli a pensare meglio, perché non hanno mai provato. C’è chi ritiene che leggere sia qualcosa di assolutamente inutile, sia perché in carcere non riesce a concentrarsi, sia perché associa i libri alla noia o al dovere della scuola. C’è chi, invece, dall’amore per la lettura resta contagiato: ad esempio, se in cella c’è uno simpatico che legge, anche un altro comincia a desiderare di leggere, magari proprio lo stesso libro del suo compagno. Ad attirare di più sono le “storie vere”, ma c’è chi si avvicina alla lettura attraverso una fiaba o un libro a fumetti, per passare il tempo o dimenticare, per capire che non si è soli a vivere la sofferenza, per imparare qualcosa. Ma, nonostante l’attività dell’associazionismo si sforzi di fornire uno stimolo progressista, nel nostro Paese, tanto radicato ad una certa retorica paternalistica quanto privo di una progettualità organica, il diritto dei detenuti alla lettura è tutt’oggi una concessione. In molti istituti penitenziari è vietato che i familiari di un carcerato introducano dall’esterno, oltre alla biancheria di ricambio, anche libri. A quelli rilegati viene strappata via la copertina rigida, per motivi di "sicurezza". Ogni detenuto può avere in cella al massimo due libri e solo come premio alla buona condotta. Le biblioteche delle carceri sono, per la maggior parte, composte da libri di scarto, molti dei quali giacciono impolverati e non catalogati. Pochi i libri recenti, i classici non sono messi in evidenza, mancano pubblicazioni in lingua e la circolazione delle riviste è in molti casi irrilevante. Che leggere libri renda migliori è vero per gran parte delle persone, ma può anche non esserlo. Quello che conta è che la lettura sia riconosciuta come un’attività ormai connaturata alla persona, soprattutto nel luogo in cui questa è privata della libertà. Perché i libri, i giornali, la tv, la radio o Internet sono, ciascuno a suo modo, l’unica “realtà” che permette ad un detenuto di sentirsi al mondo.

17 C O N S I G L I D I L E T T U R A Antonella Roncarolo ale sempre la pena parlare de “La Montagna Incantata” di Thomas Mann, (“La Montagna Magica”, nelle ultime traduzioni), un’opera monumentale che si staglia come un colosso nella letteratura del XX secolo, affrontando temi universali come la vita, la malattia, la morte, il tempo e il senso dell’esistenza. Certo, scrivere di questi temi in una sola pagina sembra quasi irrispettoso, occorrerebbero dieci, cento, mille pagine, ma il mio fine sarà solo quello di dare un la, un incoraggiamento alla lettura di quello che è definito il “romanzo che racconta il mondo”. Thomas Mann ci mise mano nel 1912, per poi sospenderlo a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ci lavorò di nuovo dal 1919 e, finalmente, lo pubblicò nel 1924. È un romanzo che si legge su più livelli con molti approcci di lettura, come molti sono i sentieri e le vie che salgono verso la vetta di una montagna. È un romanzo da leggere adagio, è, in tutti i sensi, una montagna da scalare: in letteratura ci sono le belle e piacevoli passeggiate nei boschi e poi ci sono le grandi vette che richiedono allenamento e dedizione. Uno dei temi del romanzo è la malattia, esplorata dall’autore non solo come perdita della salute, ma come un fenomeno complesso e multidimensionale. Mann colloca la sua storia in un sanatorio a Davos in Svizzera, dove il protagonista, il giovane ingegnere Hans Castorp, si reca per una breve visita al cugino ricoverato per tisi, visita che si trasformerà in un soggiorno di sette anni. L'isolamento dal mondo esterno e l’atmosfera rarefatta della montagna diventano il palcoscenico per un'esplorazione profonda del corpo umano e della psiche, visti anche attraverso le ultime conquiste della modernità come i raggi X e la psicoanalisi. L’antitesi tra la malattia e l’ossessione di vivere è palpabile nel sontuoso ed elegante sanatorio, dove i pazienti, sebbene affetti da malattie polmonari, partecipano a banchetti, balli e discorsi intellettuali, cercando una forma di equilibrio durante il loro lungo periodo di convalescenza che può portarli alla guarigione, ma anche alla morte. La salute è anche una condizione di armonia con la natura. La montagna stessa, con i suoi paesaggi sublimi ed il suo clima severo, è quasi un personaggio che influisce sulla psiche dei residenti del sanatorio, forzandoli a confrontarsi con i propri limiti e ad ascoltare i ritmi più profondi dell’esistenza. Mann usa, inoltre, la salute come metafora per il riappropriarsi della parola, il logos, che ha perso il suo significato originario. Hans Castorp, in particolare, attraverso la sua trasformazione e la ricerca di conoscenza, cerca di capire cosa significhi realmente vivere in un mondo che sembra sempre più ossessionato dalla mera sopravvivenza fisica, mentre si trova sul bordo del baratro della guerra. V

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