Itaca n. 18

9 Quello che ho è qualcosa che sono I am Aveva sbirciato il foglio sul tavolo e la dicitura della diagnosi era in alto, lapidaria, qualcosa che solo dieci anni prima sarebbe stata una sentenza di morte veloce. Carcinoma renale al quarto stadio. AM. Un lampo. AM. Un altro lampo. AM. Ancora uno. Mentre firmava i fogli e lui compilava la ricetta, la sillaba continuava a lampeggiarle in testa e d’improvviso prese coscienza del fatto che il medico non aveva mai nominato la malattia. «Fuori da qui c’è mia sorella, dottore, e ho altre persone care. Quando mi chiederanno cosa ho, come lo devo chiamare? Quello che c’è sul foglio non riesco a dirlo.» Si fissarono. Il medico sospirò, poi rilassò le spalle, appoggiandole allo schienale. Dietro alla barriera di plastica trasparente il suo corpo sembrava non avere spessori, come le foto pressate nelle cornici a giorno. Quando parlò, l’illusione della bidimensionalità svanì. «Lei che nome vorrebbe dargli?» Era una richiesta strana quella di battezzare un tumore. Le risuonarono in testa tutte le parole che conosceva già. Brutto male. Male incurabile. Il maledetto. Il bastardo. Quella cosa. Non gliene piacque neanche una e d’impulso disse: «In coreano quella parola si dice “am”. Crede che potrei usare quella?» Era stata così precipitosa nel rispondergli che nel momento stesso in cui aveva finito di fare la richiesta se la sarebbe voluta rimangiare. Si sentì infantile ad ammettere di aver bisogno di una parola che non fosse mai stata in bocca a nessuno che conosceva. Usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le parve l’unica sostenibile in quel momento. Si aspettava che il medico ridesse, ma lui invece sembrò ponderare la proposta, pensandoci qualche secondo. Poi annuì serio porgendole le prescrizioni nel pertugio del plexiglas. «Mi scuserà, non so nulla di coreano, ma in inglese am è la prima persona singolare del verbo essere, quindi credo che sia una parola abbastanza giusta», sorrise. «Potrà rispondere I am, come se dicesse “quello che ho è qualcosa che sono”, e non sarebbe niente di impreciso.» Non li temevo Poi però era successo qualcos’altro. Dopo il secondo mese i conati avevano cominciato a presentarsi indipendentemente dalle circostanze. Anche la mia disposizione nel frattempo era cambiata. Mi stavo abituando. Non solo non li temevo più, ma se tardavano mi sorprendevo ad aspettarli. Se saltavano un pasto mi chiedevo perché. Con lo scorrere delle settimane mi accorsi che stava mutando anche la loro dinamica. Una sera, dopo un’intera giornata di digiuno, il vomito era arrivato con insolita lentezza. Lo sviluppo dello spasmo si era scomposto in segmenti definibili uno per uno, come i metameri di un lombrico. Li avevo contati in sequenza, immaginandomi osservata dall’esterno, di profilo nella luce gialla del bagno: una donna china sul water a fissarne il fondo in attesa della perdita di equilibrio che sempre precedeva il primo sbocco. Non avrei potuto raccontarlo a nessuno, ma era stato emozionante. Dopo quell’episodio, quando sentivo risalire l’energia nera dallo stomaco, mi veniva un’euforia da primo appuntamento che attivava un fulmineo rituale di preparazione. Correvo in bagno, mi liberavo delle mutande e mi sedevo sul bidet rivolta al cesso, aspettando. Era questione di attimi, durante i quali l’istinto del rigurgito si trasformava in una spinta muscolare interna che dal plesso solare andava dritta al centro della fronte come uno spiedo. L’impasto di dolore, tensione e forza con cui si presentava il primo conato culminava in un lampo di quattro secondi, quattro perfetti singulti in cui si sospendevano i sensi e tutto il corpo perdeva il controllo. Era lo stato più vicino allo svenimento che avessi mai sperimentato. Qualunque cosa venisse dopo, rigetto compreso, valeva quell’orgasmo. Vomitare mi piaceva. Giovanni Testori, Nudo di donna Michela Murgia ha condiviso pubblicamente il percorso della sua malattia, in forza della convinzione che lei non era definita dalla sua malattia: “Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me”, ha detto. Di quell’esperienza parla in un libro, il suo ultimo; la racconta in mezzo ad altre storie, perché per lei la malattia non era l’unica storia. Il libro si chiama “Tre ciotole” e da lì abbiamo tratto questi due brani, che paradossalmente sono pieni di salute. Michela Murgia

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