Itaca n. 18

4 Qui Gaza Curare in un vicolo cieco Dentro il conflitto Ho lavorato all’European Gaza Hospital a sud est di Khan Yunis, la seconda città più grande dell’area urbana nella Striscia di Gaza dopo Gaza City. Non ho visto il conflitto fuori, perché ho vissuto blindato in ospedale, ma ho visto quello che questo conflitto sta producendo: morti e feriti. Credo che per ritrovare un’intensità di bombardamento simile bisogna ritornare alla Seconda Guerra Mondiale. Solo che la Striscia di Gaza è piccolissima ed i morti sono sempre troppi. Anche un solo bambino morto è troppo. I corpi devastati dalle esplosioni Questo è un conflitto da esplosione, non ci sono feriti da arma da fuoco, ma solo feriti da bombardamenti aerei. E i feriti da esplosione sono più complessi: nella stessa persona, nello stesso paziente, c’è una miscela di traumi da onda d’urto, poi ci sono le ustioni, poi le ferite balistiche, poi frammenti e schegge in ogni parte del corpo. Nell’ospedale c’erano i malati, i mutilati e poi anche i vivi, gli sfollati che non avevano più un posto dove stare e cercano rifugio: ma gli ospedali non sono una zona protetta. Le vittime Dicono che l’esercito israeliano cerchi di colpire solo obiettivi militari e combattenti. Ma il 40% delle persone ferite sono bambini. Il primo paziente che ho visto quando sono arrivato era una bambina di un anno, senza gambe, amputata dal trauma, che non sapeva ancora camminare. Io le ho regolarizzato i monconi. Li chiamano i danni collaterali… ma qua parliamo di gente che, se arriva viva in ospedale, poi esce senza gambe, senza braccia, senza occhi. Parliamo di persone che hanno perso fratelli, sorelle, figli, mariti, mogli, genitori. Il burnout Come staff internazionale possiamo stare qui dalle quattro alle sei settimane. Poi veniamo “rilevati” e sostituiti con un altro team per evitare il bornout. Il rischio del bornout è una cosa concreta, ma vale anche per tutto il personale locale, vale per tutto lo staff palestinese. Ma loro non possono uscire, e allora rimangono qui. E lavorano sotto shock da settimane. Noi possiamo dire “vabbè, resistiamo. Prima o poi usciamo”. Per loro, invece, non c’è limite a tutto questo. Tutte le persone che ho incontrato sono in disturbo post traumatico da stress. Ripeto che non parliamo di un singolo individuo, ma di una popolazione intera. Erano persone con un lavoro, una casa. Persone a cui di colpo è stato detto: “vai via”. Il controllo e il fuoco I droni non smettono mai. Non si vedono, ma si sentono sempre. Sorvegliano tutto il territorio di giorno e di notte, erano anche sopra l’ospedale, pronti ad indicare il prossimo bersaglio. È una cosa un po’ surreale. Un giorno ero seduto alla finestra, vedevo i droni, e poi ho sentito gli uccelli cantare. E mi sono detto “gli uccelli cantano ancora, a Gaza non c’è nessun altro che lo fa”. La popolazione è stremata e continuerà a subire, finché andrà avanti questa guerra. Qualcuno non reagisce più, non parla più, non ha più niente da dire. Tutte le persone con cui lavoriamo hanno perso qualcuno. La notizia della morte arriva con una telefonata, e loro spesso continuano a lavorare. Anna Spena Vita No Profit La Striscia di Gaza è un fazzoletto di terra di 300 chilometri quadrati: qui vivevano due milioni e 300mila persone, quasi la metà minori. Nella Striscia di Gaza, dallo scorso sette ottobre, dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, i morti palestinesi durante i bombardamenti delle forze di difesa israeliana sono quasi 18mila, anche qui: quasi la metà sono minori. Nella Striscia di Gaza c’erano 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 22 strutture ora sono fuori servizio a causa degli scontri armati. I morti si seppelliscono nelle fosse comuni per evitare le epidemie, perché a Gaza manca l’acqua. I camion umanitari entrano a singhiozzo dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto. A Gaza anche il diritto umanitario internazionale è morto. Paul Ley, 60 anni, chirurgo ortopedico, medico di guerra, lavora per la Croce Rossa Internazionale. Lo scorso 27 ottobre è riuscito ad entrare nella Striscia. Questa la sua testimonianza, raccolta da Anna Spena.

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