Itaca n. 15

2 + Ama Festival: quando il sociale fa cultura «Ama!», voce del verbo amare, modo imperativo, seconda persona singolare. È il titolo scelto per la sesta edizione di Ama Festival. Un titolo che è «interno» alla storia stessa e al nome della cooperativa, di cui Francesco Cicchi è presidente e fondatore. Ne parliamo con lui. Da dove scaturisce la scelta di un titolo come questo? Era stato pensato come leit motiv per i 40 anni della cooperativa, che purtroppo sono caduti durante la lunga e dura parentesi del Covid: riconoscere nel nome un’ipotesi di lavoro aperta per la vita nostra e di tutti. Una ragion d’essere. Non è un sostantivo, come potrebbe essere «amore», ma un verbo, che per sua natura invita all’azione, ad entrare in gioco. «Ama e fa’ ciò che vuoi», ha scritto Agostino. Quindi l’intento è quello di andare oltre la retorica dei buoni sentimenti e spingere ciascuno a questa sfida meravigliosa. Vorrei anche sottolineare che questo titolo comprende anche un’accezione importante, da cui addirittura partire: «amati!». Bisogna partire da se stessi, dal volersi bene per capire quanto è importante mettere il proprio io in relazione con il bene che viene dagli altri, ma anche dalle cose che ci circondano. C’è anche un messaggio culturale in questo titolo? Certamente. È la ragione stessa per cui proponiamo il Festival, che è un appuntamento importante per noi già per il semplice motivo di aprire il luogo della comunità al pubblico esterno. La comunità non è un luogo fuori dal mondo e il pubblico, venendo per gli appuntamenti proposti dal Festival, se ne può rendere conto. In secondo luogo, il Festival è importante perché è lo sforzo di dimostrare che si può fare cultura con il sociale. È un fare cultura che non dispensa certezze, ma che «insidia» con le domande, che semina dubbi costruttivi. Ecco, il Festival è una situazione che dispensa domande. Perché le domande sono più costruttive, più culturalmente attive delle risposte. Un’altra parola che è molto importante per la storia della cooperativa è «bellezza». Che nesso c’è tra l«Ama!» del titolo e la bellezza? Non c’è nulla di più bello dell’azione espressa e auspicata dal verbo «Ama»! La bellezza è una dimensione dinamica, non è fine a se stessa. Per questo genera parole dinamiche, mette in azione. Non bisogna ingabbiare la bellezza dentro dei canoni. La bellezza può essere dappertutto, anche nelle situazioni più dure e drammatiche. Qualche anno fa avevamo messo come titolo al Festival «Incurabile bellezza», proprio ad indicare che nelle biografie più segnate dalla durezza della vita e dal dolore si nasconde sempre un nucleo di bellezza. Lo abbiamo detto anche a proposito del terremoto, che è stata esperienza drammatica per queste nostre terre. Bisogna guardare anche alle situazioni più brutte con la convinzione che possa scaturire una scheggia di bellezza. È come un miracolo: accade se sei disposto ad accoglierlo. Il contesto del resto è un invito a capire il valore della bellezza… Certamente. Anche se a me piace citare Rilke, quando dice che ci si veste di ciò che ci si spoglia. È davanti alla nudità delle cose che scatta l’esperienza della meraviglia, e quindi si tocca con mano che la bellezza è capace di generare azioni e modi di essere nuovi.

3 + L’ A – more è la forma che diamo al bisogno più importante Che rapporto c’è tra amore e bellezza? Chi viene prima? La bellezza è un’aspirazione che ogni uomo ha dentro di sé. La bellezza è attrazione, e l’amore scatta sempre per un’attrazione, verso l’altro, ma anche verso un aspetto della vita. La bellezza è seduttiva, perché genera la pulsione all’incontro con l’altro. Mette in campo i corpi. Trovo che questo sia un punto centrale: non condivido l’idea di Dante, quando nel Convivio sostiene che la bellezza sia un’esperienza destinata alle anime. Invece è dal corpo che rinasce tutto, dal sentire, toccare, vedere. Aver voglia dell’altro è sintomo di salute psichica: ma l’altro è un corpo, non un’anima o un’idea. Lei in un lavoro recente ha coniato un neologismo: «bendessere». È un’alternativa all’idea corrente di «benessere»? Sì. E siamo ancora alla scelta tra l’«io» e il «noi». Benessere è cura narcisistica del proprio corpo, confidando nelle pratiche oggi tanto in voga del footing, della ginnastica o anche della meditazione. Il «bendessere» invece stabilisce che il primo fattore di salute per una persona è lo stare in relazione e il sentirsi accolti. Non demonizzo le pratiche di cura del corpo, ma nella vita e per il benessere di una persona conta molto di più la dimensione del vivere insieme, dell’aprirsi al rapporto con gli altri. La considero una strategia esistenziale, che può prendere le forme più diverse, compresa quella religiosa, se la religione è incontro e quindi espansione dell’esperienza umana. Se parte dal basso e non parte da Dio ed è quindi aspirazione ad una relazione. Il campo di applicazione della psicologia del «noi» riguarda da vicino il benessere di ciascun individuo: non c’è un solo momento della nostra vita in cui non siamo legati all’altro, dunque la relazione è fondamento dell’esistenza. Il bambino, quando nasce, è perduto se non trova la madre che lo nutre e lo riscalda. E lo stesso vale per l’adulto, come ha recentemente dimostrato il lockdown, durante il quale ci siamo resi conto sulla nostra pelle che non siamo fatti per vivere da soli. Abbiamo sempre bisogno dell’altro perché siamo fragili ed è proprio la nostra fragilità che ci porta a «esperire» il legame, cioè a farne esperienza. Vittorino Andreoli, psichiatra che all’autorevolezza aggiunge la capacità di parlare a tutti, è il protagonista dell’edizione dell’Ama Festival 2022. Il verbo che dà il titolo a questa edizione gli è ovviamente molto famigliare: sull’amare e sull’amore ha scritto tantissimo, partendo sempre dalla esperienza concreta della pratica professionale. Professore, che cosa le suggerisce questo titolo con punto esclamativo? L’amare è il senso stesso della vita e nel punto esclamativo leggo una giusta sottolineatura rispetto a questo dato di fatto che il narcisismo dominante nella nostra cultura tende a cancellare. Ho elaborato una mia ipotesi etimologica sulla parola amore. La scrivo «a-more», dove «more» è contrazione di morte e la «a» ha un significato privativo. L’amore quindi cancella la morte. È l’opposto della morte; quindi è vita. Non si deve però stringere il campo alla relazione sentimentale tra due persone che si innamorano. L’amore vince la morte in ogni relazione affettiva, che sia tra genitore e figli, o tra vecchi e giovani. L’amore è la forma che diamo al bisogno esistenziale più importante: quello di relazionarci con l’altro. Uno dei suoi lavori più recenti si intitola «Psicologia del noi». È una riflessione in cui entra questa sua idea dell’amore? Sono partito dal dato di fatto della mia esperienza personale e professionale: più passa il tempo e più sento il limite dell’impostazione freudiana del Casi clinici, in base alla quale per capire la persona e i suoi problemi, bisogna guardare dentro la persona, esplorandone la psiche. Per me è un’ipotesi inadeguata. Se vuoi capire il singolo devi capire come ama, quali relazioni ha: l’identità è data dalle identità che si incontrano vivendo. Ognuno di noi ha davanti due possibilità: o vivere stando in relazione, o morire specchiandosi come Narciso. Personalmente sono quasi nauseato da questa centralità dell’«io». Bisogna partire dal dato di fatto che se un individuo è solo si trova in una situazione patologica. Però essere soli non significa non fare esperienza della solitudine, che è cosa che tocca tutti: anche un monaco sceglie la solitudine, ma in realtà è sempre in relazione con il Padre Eterno. «Io vivo con Dio», mi aveva risposto un monaco. Anche nel suo caso è centrale l’esperienza di questo «noi». Ci può essere anche una dimensione del «noi» chiusa, settaria, escludente? Certo. Ad esempio quella di chi pensa che l’amore sia una solo una relazione a due. Il «noi» è quello che si apre ad una socialità, che introduce la categoria del «nostro» contro il dominio del «mio». È una dimensione più ampia che non quella degli amici. Forse la cooperazione è la pratica sociale che più si avvicina a questa dimensione positiva e necessaria del «noi». Se vuoi capire il singolo devi capire come ama, quali relazioni ha: l’identità è data dalle identità che si incontrano vivendo. Ognuno di noi ha davanti due possibilità: o vivere stando in relazione, o morire specchiandosi come Narciso. ” “

4 La prima parte della vita l’ho vissuta in campagna, eravamo contadini, non avevamo la luce elettrica, coltivavamo la terra con gli animali, raccoglievamo l’acqua piovana, avevamo un grande rispetto per la terra. Il filosofo e poeta greco Senofane diceva: «dalla terra tutto deriva», e noi vivevamo in armonia con il Creato. La prima balla di grano andava alla comunità per volere di mio nonno. Da lì ho appreso il grande tema della vita: l’equilibrio tra profitto e dono; quel periodo della mia vita è ancora oggi come un dono per il mio animo. Da ragazzo vidi gli occhi lucidi di mio padre umiliato e offeso sul lavoro, e ancora oggi non capisco perché si debba umiliare ed offendere, ma, ispirato dal dolore che lessi in quegli occhi, decisi che il sogno della mia vita sarebbe stato quello di vivere e lavorare per la dignità morale ed economica dell’essere umano. Volevo un’impresa che facesse sani profitti, ma lo facesse con etica, dignità e morale; siamo quotati in borsa, mi piaceva un’impresa che avesse una equilibrata e garbata crescita. Volevo che gli esseri umani lavorassero in luoghi leggermente più belli, guadagnassero qualche cosa in più come salario e si sentissero al lavoro come anime pensanti. Proviamo a non volgere le spalle alla povertà. Desideravo che una piccola parte dei profitti dell’azienda andasse ad abbellire l’umanità tutta e volevo che le persone lavorassero le giuste ore e fossero connesse il giusto tempo, così da armonizzare Tecnologia e Umanesimo e ritrovare un sano equilibrio tra mente, anima e corpo, perché anche l’anima ed il corpo hanno bisogno di nutrirsi ogni giorno. Cerchiamo di rispettare le leggi di ogni Stato, e grazie al mio stimato Presidente Draghi, la nostra Italia è tornata ad essere credibile. La nostra industria si trova a Solomeo, un piccolo borgo medioevale del XIV Secolo, vicino ad Assisi. Lavoriamo in vecchi opifici edificati nel passato secolo, alcuni restaurati ed abbelliti per renderli attuali, altri sono stati demoliti e la terra è tornata ad essere utilizzata per l’agricoltura, specialmente vigneti, oliveti, frutteti e grano, quindi, infine, possiamo dire di non aver consumato la nostra amata terra. Abbiamo restaurato il borgo ascoltando la parola sapiente dei nostri maestri e abbiamo edificato un Teatro che noi consideriamo come tempio laico dell’arte, poi un monumento alla Dignità dell’uomo ed un immenso parco definito «Progetto per la Bellezza». E ora costruiremo una Biblioteca universale; per questa idea ci siamo ispirati al grande Tolomeo I di Alessandria e all’Imperatore Adriano quando dice: «i libri mi hanno indicato la via della vita; da grande, la vita mi ha fatto comprendere il contenuto dei libri. Chi costruirà biblioteche, avrà costruito granai pubblici per le future generazioni». Questa è la nostra idea di Umana sostenibilità e quello che noi chiamiamo Capitalismo umanistico. Nel salutarvi e ringraziarvi, spero che il cuore mi abbia suggerito le giuste parole per una richiesta rivolta, mi piace credere, in nome dell’umanità intera: «Oh miei stimati e potenti custodi pro-tempore del Creato, voi che siete i responsabili delle bellezze del mondo, vi preghiamo, indicateci la via della vita. Che il Creato ci protegga e ci illumini verso un nuovo Umanesimo universale». Brunello Cucinelli + Custodi pro-tempore del creato La prima balla di grano andava alla comunità per volere di mio nonno. Da lì ho appreso il grande tema della vita: l’equilibrio tra profitto e dono; quel periodo della mia vita è ancora oggi come un dono per il mio animo. ” “

5 Perché è fragile la speranza? È fragile la speranza quando non vive del presente, ma vive del futuro che ancora non c’è, e tuttavia questa sua fragilità, è fonte di riflessione. Voglio leggervi le sfolgoranti parole di Blaise Pascal, in proposito: «Non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce da cui predisporre l’avvenire. Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai». Quando speriamo, quando in noi nasce la speranza, ne avvertiamo la fragilità, la vulnerabilità, l’apparente inconsistenza, e nondimeno la speranza ha una sua durata, e una sua tenuta psicologica e umana che sono in flagrante contraddizione con la sua fragilità. Conoscere, o almeno cercare di conoscere, gli andamenti della speranza, delle sue fragilità nel contesto della vita, è senz’altro utile per seguirne le ricadute. La speranza è certamente fragile, si frantuma facilmente dinnanzi agli avvenimenti dolorosi della vita, ed è necessario riconoscerla, e cercare di salvaguardarla, perché nella sua trascendenza ci rimette in continua relazione con il mondo delle persone e delle cose. Le sue eclissi si accompagnano ai naufragi che ciascuno vive, alle notti oscure dell’anima con le loro angosce e lacerazioni. Non dimentichiamo mai di ricercarle e di comprenderle, perché nascondono sconfinati orizzonti di senso. L’amicizia è un aiuto alla speranza? Anche nell’amicizia troviamo le tracce della fragilità. Nella vita di ciascuno di noi infatti le cose cambiano. Le navi si allontanano e si fanno l’una estranea all’altra, e, benché non si sappia se questa lontananza sia temporanea o sia definitiva, questo significa che, anche in un’esperienza così bella e così luminosa, com’è quella dell’amicizia, ci siano tracce di fragilità. L’amicizia è una dimensione che spesso viene tanto banalizzata e contaminata dalle cose della vita di ogni giorno, eppure apre a un inesprimibile speranza. Lo dice con parole stupende Nietsche: «La nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra facoltà visiva per poter essere più che degli amici nel senso di quella nobile possibilità. E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro». Ma voglio aggiungere un altro pensiero. L’amicizia ha in sé il significato di un dialogo infinito che continua anche quando non ci si vede, non ci si incontra e non ci si parla. Quando ci si rivede con una persona amica, si cancella il silenzio e si rimuove l’assenza: si ricostituisce il dialogo solo apparentemente perduto ma, in realtà, mai interrotto. Infatti il tempo interiore non si incrina, nonostante le intermittenze del tempo della clessidra. Il linguaggio del silenzio torna ad essere il linguaggio della parola. È un linguaggio dei volti che si riflette negli occhi e negli sguardi. Come si tiene viva l’amicizia? L’amicizia è certamente un dialogo, ma dialogo sia nel silenzio che nella parola. L’amicizia è corrente carsica che scorre nascosta tra persone amiche: lontane e vicine, assenti e presenti, e in ogni caso consapevoli che in qualsiasi momento, quando suona la campana della necessità, ci si può sentire e ci si può parlare, ci si può incontrare, annullando ogni distanza e ogni apparente indifferenza. L’amicizia, di fronte al dolore e alla tristezza, è zattera che ci consente di salvarci. In ogni amicizia rinasce una scintilla di comunione che non si spegne facilmente. L’amicizia, come ogni cosa essenziale della vita, può essere solo donata. Ma ci sono forme diverse di amicizia, mai statiche e immobili. Salgono e scendono, sulla scia di vicinanze e di lontananze impreviste, e anche delle vicende della vita. Come diceva sempre Nietzsche, ogni nave ha la sua meta e la sua rotta; ma ogni nave può richiamare intorno a sé altre navi: in un circolo di reciprocità e di solidarietà nel quale si riconosce, forse, l’essenza di un’amicizia aperta, e non chiusa. L’amicizia è una memoria interiorizzata capace di attualizzare in ogni momento il passato, ridandogli significati nuovi e creativi. Ma non si deve mai dimenticare che anche l’amicizia è fragile ed è esposta alle ferite della stanchezza, della noncuranza, della disattenzione, della preoccupazione, o delle influenze esterne non sempre riconoscibili nei loro aspetti perturbanti. Benché l’amicizia non sia così fragile come la gioia e la speranza, la gentilezza e la tenerezza, anche in lei si può nascondere il male di vivere che la ferisce. Amicizia è una forma di responsabilità? Conoscere se stessi e conoscere gli altri è un diverso modo di essere responsabili. Noi non siamo, o almeno non dovremmo mai essere, monadi dalle porte e dalle finestre chiuse, ma monadi aperte all’ascolto di noi stessi e degli altri, in una circolarità di esperienze che ci rendano consapevoli di quanta sia la nostra responsabilità nel determinare i modi di essere e di comportarsi come gli altri. La nostra capacità, o la nostra incapacità, nel riconoscere le emozioni, che sono in noi e negli altri, condiziona le nostre quotidiane relazioni di vita e le influenza profondamente. Non è ovviamente una responsabilità giuridica o formale, ma una responsabilità etica che ci consente di condividere il dolore e la gioia, la tristezza e la colpa, che sono in noi e negli altri e di evitare dolorose ferite dell’anima. Responsabilità è anche saper rivivere l’incontro con l’altro nella sua spontaneità e nelle sue speranze. Ma se noi, nella vita normale e non solo in psichiatria, non sappiamo uscire dal confine della nostra identità e ne rimaniamo prigionieri, nulla potremo capire dei modi di essere degli altri. L’identità, questo nostro essere gli stessi nel corso del tempo, non è ovviamente un’astrazione, ma noi non siamo sempre gli stessi, noi cambiamo sulla scia delle esperienze esteriori e interiori che la vita ci propone: noi diventiamo “altri” da quello che siamo stati nel passato dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza all’età adulta e da questa alla condizione anziana. Essere coscienti che noi siamo «altri» agli altri noi stessi e che la nostra identità è flui- da ci risulterà più facile passare dalla nostra vita a quella degli altri. Grazie ad Eugenio Borgna per questi spunti di riflessione regalati agli amici di Ama Aquilone e di Itaca. Umanità, saggezza, senso pratico e poesia stanno sempre legati in modo armonico nello sviluppo di pensieri di Borgna, che sono sempre pensieri verificati nell’esperienza quotidiana di psichiatra, che crede che la «follia sia una sorella sfumata della poesia». Grazie per aver accettato di condividerli. Amicizia, forma di amore Eugenio Borgna +

6 + L’universo ha sete dei sentimenti degli uomini grandi parole come «destino» e «misericordia». È un segno della grande fiducia che tu hai nella fotografia? Per quanto riguarda il destino, mi sono accorto che se toccavo un tema, tanto più infelice, tanto più era sventurato, tanto più era come se il destino mi aiutasse ad entrare in quel tema. Ti faccio un esempio: era l’anno prima del Giubileo del Duemila. Le autorità di Roma avevano dichiarato guerra agli zingari. Il sindaco aveva chiesto alle forze dell’ordine di rendere loro la vita impossibile. E quelli continuavano a entrare nei campi di baracche e mettevano tutto sottosopra. Quando arrivavo io vedevo i bambini che se l’erano fatta addosso per il terrore. Una volta è capitato quello che sentivo poteva accadere, ma non pensavo in modo così orrendo. La polizia aveva fatto irruzione in una baracca e preso a calci tutto, buttando all’aria ogni cosa, compresa una bambina di 16 giorni. Era un involtino grande così. Il prefetto dichiara che è nomale che capitino incidenti così. Penso: domani i giornali lo massacrano. E invece niente. Nessuno ne parla. Nemmeno Il Manifesto. Non riesco a prendere sonno, mi viene il dubbio che mi sia inventato tutto. La mattina dopo vado all’obitorio a chiedere: «Nei giorni scorsi è arrivata da voi una bambina di 16 giorni?». E quelli: «Sì». E io: «Di che cosa è morta?». E la dottoressa mi dice che un neonato di pochi giorni ha la guancia grande come un francobollo e quel francobollo era timbrato con l’impronta di una scarpa. Sono andato a una conferenza stampa in Campidoglio e ho dato dell’assassino al sindaco. È successo il finimondo. Nei mesi seguenti la gente, quando mi vedeva, cambiava marciapiede. Ma io ho deciso di continuare il lavoro sugli zingari. È uscito un libro intitolato Il giubileo nero degli zingari. Gli unici a recensirlo sono stati quelli di Radio Vaticana. Evidentemente è il destino che vuole che certe fotografie vengano fatte. Perché sente di non essere completo, non è compiuto senza quelle immagini. È l’universo che ha sete dei sentimenti degli uomini. E misericordia? Misericordia è un termine bellissimo che io ho ripreso perché vuol dire che ci riconosciamo miseri e che gettiamo il cuore dalla parte dei miseri. Ed è l’unico sentimento sovversivo, perché i più provveduti si riconoscono tra i meno provveduti e allora si crea come un popolo nuovo: il potere percepisce che non ha più motivo di essere quando la misericordia prevale, per questo non gli resta che far scorrere il sangue. Ma non solo, tante volte al potere non basta far scorrere il sangue, vuole grattare via dalle anime il sentimento della misericordia e allora chiede aiuto al tradimento. Il filo conduttore delle tue opere è quello di un grande amore per gli esseri umani. È questa passione che ti suggerisce cosa fotografare? L’universo è assetato degli affetti umani. Il sistema solare, la Via Lattea, le galassie non hanno alcun sentimento di sé. Le stelle non sanno di essere belle. Anche un fiume è incapace di guardarsi. Noi invece, gli uomini, siamo quella parte dell’universo che si accorge di sé. L’universo cerca i nostri sentimenti, li suscita. Forse questa è l’unica ragione per cui l’universo ha bisogno degli uomini. Ha bisogno della nostra sete di giustizia, una bellezza che gli manca. Sembra che l’universo ce la chieda, la giustizia, perché ha bisogno di quell’immagine per completare la propria bellezza. Penso alla foto che ho intitolato «Pausa pranzo con qualcosa di sacro». Tano D’Amico fa riferimento ad una sua immagine bellissima in cui si vede il tavolo di una mensa di operai disposti come in un’«ultima cena». Grazie Tano, le tue foto ci rendono migliori. Tano D’Amico Per Tano D’Amico, la fotografia è sostanzialmente un atto d’amore. D’Amico, 80 anni, nato a Lipari, ma a tutti gli effetti romano, è stato un grande testimone della vita sociale italiana in un tempo bello e difficile come quello delle grandi contestazioni e dei ribollimenti sociali. Il suo non è sguardo ideologico, anche se evidentemente schierato, in direzione di chi non accetta lo status quo. «Ho sempre amato le immagini ma ho sempre fatto tutt’altro. Io non ho e non ho mai avuto il pallino per la fotografia. Io ho la passione per gli esseri umani. E anche per gli animali e la natura. La fotografia è il mezzo più adatto a me. Si può praticare con indipendenza, anche se hai una visione del mondo diversa da quella dominante. Per il cinema servono grossi capitali. Per le foto, bastano i rullini. Se non sei contento delle immagini che fanno gli altri, come nel mio caso, cerchi tu di fare quelle che vorresti vedere». Sei diventato fotografo per insoddisfazione rispetto alle immagini che vedevi? In realtà io amo gli insoddisfatti, quelli che non si accontentano della vita che c’è. Quello che mi ha sempre interessato sono gli esseri umani a cui, come a me, va stretto il mondo. C’è un affresco a Palermo che dice bene quello che io dico con povere parole: l’immagine nasce dagli insoddisfatti, nasce da chi si accorge che siamo tutti poveri su questa terra. Mi ha sempre interessato la storia e capivo che era nelle immagini, più che sui libri, che era scritta quella vera. La storia dei sentimenti, non quella dei re che si fanno la guerra. La storia intima dell’animo umano, delle speranze, della consapevolezza. Io con le mie fotografie ho provato a raccontare lo stesso tipo di storia. Anche se poi quelle immagini hanno fatto molta fatica a essere pubblicate dai giornali. Era più facile che comparissero sui volantini delle femministe. Ma poi c’era qualche critico che diceva avessero la forza del teatro greco o l’energia del Compianto di Niccolò dell’Arca. Se è vero che vogliamo cambiare il mondo la prima che cambia è l’immagine, il modo di vedere, di guardare. E il modo di guardare degli artisti di qualsiasi secolo, è quello degli insoddisfatti. Dietro i cambiamenti dei modi di guardare esistono dei cambiamenti della storia che i pittori avevano visto prima. Viviamo in un mondo che ci sommerge di immagini. In un certo senso abbiamo la possibilità di vedere tutto, in simultanea mentre le cose accadono. Come vivi questa invasione di immagini? È un’abbondanza che non rende un buon servizio, a nessuno. Sono immagini senza anima. Il potere stesso conta sulla facoltà delle immagini di agire per sottrazione. L’uso che si fa di queste immagini non fa altro che rafforzare il potere che c’è. La tua scelta per il bianco e nero è una forma di difesa da quest’uso delle immagini da parte del potere? Il bianco e nero riporta alle linee essenziali, aiuta a capirla la realtà. Basta rifarsi ai grandi pittori, il colore non è messo a caso. I grandi maestri dell’arte usano i colori come un linguaggio. Nella realtà se avessi scattato quella foto a colori e la donna al centro avesse avuto un vestito rosso, sarebbe cambiato tutto… Lo ripeto. L’uso casuale del colore distrae. Per me il bianco e nero è una delle grandi scoperte dell’umanità proprio perché è mia intenzione aggregare la realtà. Nei titoli dei tuoi libri recenti associ l’esperienza di fotografo a In realtà io amo gli insoddisfatti, quelli che non si accontentano della vita che c’è. Quello che mi ha sempre interessato sono gli esseri umani a cui, come a me, va stretto il mondo.” “

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8 ResQ People: soccorrere è un obbligo, essere soccorsi un diritto Era l’inizio dell’autunno del 2019. Pochi giorni dopo il sesto anniversario della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, dove, a poche miglia dal porto dell’isola, persero la vita 368 persone e diverse furono disperse. Una delle più gravi catastrofi che si è consumata nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo. Quattro amici di ritorno da un evento di commemorazione si guardano in faccia: «è possibile che le istituzioni non si prendano la responsabilità di quello che succede in mare?». É da questa domanda che è nata l’associazione ResQ - People Saving People, che è riuscita a mettere nelle acque del Mediterraneo una nuova nave per soccorrere i migranti, una nave nata grazie all’impegno della società civile. Tra loro anche Lia Manzella, oggi vicepresidente e Fundraiser di ResQ. «Dopo la prima intuizione alla fine del 2019», racconta, «ci siamo ritrovati l’estate successiva con un gruppo di 17 persone e abbiamo iniziato a chiederci “ma noi possiamo fare qualcosa?”. Quel “qualcosa” si è trasformato nell’idea di comprare una nave». Ma come? Il 3 ottobre del 2020, un anno dopo il primo incontro, parte la campagna di raccolta fondi per acquistare l’imbarcazione che avrebbe poi navigato nel Mediterraneo e salvato quante più persone possibile. La ResQ People è lunga 39 metri, il costo della nave ammonta a 400mila euro raccolti grazie alla generosità di oltre 3mila donatori: «dalle piccole donazioni fino ai contributi straordinari come quello dell’Unione Buddhista Italiana», dice Manzella. «Ad agosto 2021», continua, «è partita la prima missione di ResQ: abbiamo soccorso 166 persone». Ad ottobre dello stesso anno la nave è partita per una seconda missione «C’ero anch’io», racconta. «Siamo salpati il venerdì sera e il sabato pomeriggio abbiamo ricevuto la segnalazione di un’imbarcazione in distress. Abbiamo salvato le 59 persone a bordo. Il barchino di legno su cui si trovavano Anna Spena ResQ People è salpata per la prima missione il 7 agosto 2021 e ha già salvato 225 vite. Lia Manzella, vicepresidente di ResQ People, racconta il cuore dell’iniziativa e la terza missione della nave nata grazie all’impegno della società civile. era partito da Zuwara, Libia, ed era stato in mare per circa 24 ore: non avevano più acqua né cibo, e avevano finito la benzina». Undici nazionalità diverse, Siria, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan e Egitto; ma anche Yemen, Nigeria, Libia, Gambia, Costa d’Avorio, 17 minori non accompagnati, una donna incinta al settimo mese. «É stata una delle esperienze più forti della mia vita», spiega. «La mattina successiva abbiamo ricevuto un’altra segnalazione di distress al confine tra zona Sar maltese e libica. Circa 100 miglia nautiche da noi, oltre 11 ore di navigazione, ma eravamo l’unica nave della flotta umanitaria civile in mare ed abbiamo deciso di mettere la prua a sud. Una corsa contro il tempo, ma una corsa persa: abbiamo trovato solo un gommone nero abbandonato, i libici avevano già intercettato i naufraghi. Ricordo la grandissima frustrazione che abbiamo provato. Ma ricordo anche perfettamente gli sguardi e i sorrisi dei ragazzi salvati il giorno prima nonostante i racconti atroci. E un’immagine mi è rimasta impressa: quando salgono a bordo gli diamo un kit di emergenza, all’interno ci sono anche delle barrette proteiche. Mi ricordo di questo ragazzo che apre la barretta e prima di addentarla ne offre un pezzo alla mediatrice culturale che gli aveva consegnato lo zainetto». La terza missione di ResQ è in preparazione e la campagna di raccolta fondi continua «più intensamente possibile per uscire in mare il prima possibile. Noi vogliamo solo salvare delle vite, e salvare vite non può essere un tema divisivo». + PH Victor Britto / ResQ

9 La mia terra. Sono riconoscente alla Sardegna, Terra Madre, sono suo figlio e a lei devo tutto. In tempi non sospetti ho sempre cercato di renderle onore e anche quando non era mia intenzione, inconsciamente, le mie origini sono sempre venute fuori. Io mi nutro di Sardegna, io ne ho approfittato. L’ho scelta per viverci e per lavorarci, perché è il posto più bello del mondo ed è fonte di ispirazione di storie e le storie sono la radice indispensabile per immaginare la mia moda. La Sardegna custodisce più storie dell’Iliade e dell’Odissea, più delle Mille e una Notte, più delle Metamorfosi, della Divina Commedia, della Bibbia e del Corano e dell’Antologia di Spoon River messe insieme. Per questo la Sardegna è sempre presente nei miei lavori. È una terra unica, ma è anche un luogo dove è facile perdersi, perché è la somma di una serie di popoli che l’hanno invasa, stuprata, amata, dove chiunque lasciava delle tracce e dei segni che ogni volta si cercava di cancellare. In realtà questi segni sono rimasti e si sono amalgamati dando vita a un territorio che è una stratificazione di culture fra influssi mediterranei, fenici, punici, bizantini, arabi e così via. È una terra-scrigno dalla quale consciamente o inconsciamente si attinge. Sono convinto che sono quel che sono proprio perché (da algherese, sardo, italiano, cittadino del mondo) sono il risultato di misture, mescolanze, contaminazioni formatesi in Sardegna e nel Mediterraneo nel corso di millenni. Popoli di confine, abituati al contatto e allo scambio, pronti ad andare di porto in porto, a scambiare parole, comunicare, accogliere, accettare l’altro, il diverso, lo straniero, amalgamare culture, tradizioni, usi e costumi, lingua, musica, arte, cibo, abbigliamento. La mia famiglia Mia mamma era originaria di Laerru, in provincia di Sassari, era denominata ‘la sarda’ da mio padre algherese doc. Lei mi chiamava «Mai cuntentu» e questo Antonio Marras è uno dei più importanti stilisti italiani. Nonostante il successo e la grande illuminazione mediatica che ne è conseguita, Marras non ha mai voluto staccarsi dalle sue radici. Per quanto sia stato risucchiato da Milano per logiche di lavoro, non si è mai staccato affettivamente e concretamente dalla sua Alghero. Il rapporto con la terra d’origine è la sua linfa, è un fattore imprescindibile anche a livello creativo. Qui spiega il perché. mi rappresenta. Poi diceva: «Sembra che tu abbia fatto la guerra, non ti basta mai niente». Aveva ragione. Fin da bambino ho frequentato «les botigues», i negozi storici che mio padre e mio zio avevano nel centro storico di Alghero, familiarizzando con stoffe e tessuti di ogni genere. Ho iniziato a lavorare con mio padre, ad occuparmi dei negozi, con i contrasti «tipici» tra un padre e un figlio che svolgono la stessa attività. Uno con l’esperienza e il vissuto e l’altro con l’entusiasmo e un po’ di arroganza. Mio padre incuteva rispetto. Comprava i tessuti, di cui ancora conservo centinaia di rotoli, e li rivendeva a sarte oppure a clienti che poi metteva in contatto con le sarte. Anch’io sulla scia del suo insegnamento ho fatto ricorso alle donne che facevano i corredi per le figlie e ho proposto loro di iniziare a fare i cappotti. Sono poi andato oltre. I miei inizi Ho iniziato nel '90 con l’Alta Moda. Ovviamente sempre al contrario (di solito l’Alta moda è un traguardo) come mia consuetudine. L’Alta Moda ti permette una conduzione artigianale e ho iniziato con la mamma di Patrizia, sarta e ricamatrice raffinata, a cucire. Io in maniera anarchica e lei rigorosa. Poi abbiamo lavorato con le donne di Ittiri, grazie a Rita, una cara amica eccelsa al lavoro ricamare, all’uncinetto e al telaio. Abbiamo creato un piccolo universo di donne che lavoravano a casa realizzando vere e proprie opere d’arte. Ho insegnato loro a sbagliare, loro erano perfettissime, ho insegnato quello che loro hanno chiamato il «punto bimbo» perché ingenuo, facile, elementare e spesso infarcito di errori. Per loro era inammissibile. Ligazzo rubio, il filo rosso che mi guida nel labirinto del mondo Poi la produzione seriale ha un po’ limitato queste dinamiche. Il mio colore Ho adottato come portafortuna quello che ho chiamato «ligazzo rubio». È una fettuccia rossa, che per me è un vero e proprio oggetto-simbolo, carico di tanti significati. Lo considero come un filo capace di guidarmi attraverso il labirinto del mondo e di indicarmi la strada; un filo che unisce saldamente affetti, sentimenti, emozioni, e che resiste al tempo e all’usura, tiene unito ciò che parte a ciò che resta. Ha un colore rosso sangue, un cremisi, una punta di bordeaux, immodestamente ribattezzato «rosso Marras». Il colore rosso mi richiama il sangue, inteso come forza vitale, purificazione, rigenerazione, scorrere di esperienze, movimento, cuore, affetti, sentimenti, calore, protezione, passione. Mi piace pensare che questa scelta evidenzi origini lontane. Eredità dei Fenici, il cui nome vuol proprio dire porpora. I Fenici raccoglievano i murici, molluschi da cui ricavavano il pigmento usato per colorare stoffe color rosso porpora, famose in tutto il Mediterraneo. Erano prodotti di lusso estremo, perché da un murice si ricava solo una goccia di porpora. È una storia che richiama a quella che è la missione degli abiti, che non è solo quella di coprire, di tener caldo. Gli abiti cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo. Il vero io è profondamente nascosto e, attraverso gli abiti, si va alla ricerca e scoperta di sé e dell’altro. Non esistono più schemi fissi. Contaminazione è la parola d’ordine. Io vivo di contaminazioni, di mutazioni, di relazioni. Antonio Marras +

12 V O C I D E L V E R B O A M A R E I l filo conduttore del film è rappresentato dalla storia dei due giovani futuri sposi (scene da girare) e dalle interviste a personalità del mondo scientifico e culturale e al pubblico generico (scene da girare). Il materiale di repertorio, alternato a queste scene, sarà la parte integrante e di commento dell’intero film…. Ecco, andare per le chiese e i municipi; scegliere una coppia, giovane, sana, umile e seguirla, nella sua antica festa sempre uguale… Penserei a un matrimonio popolare, in cui il senso «della vita sana che per quanto fittiziamente e poeticamente trionfa sulla vita tragica», ha più forza di convinzione: un bel giovane, una bella ragazza che vanno a sposarsi, lei vestita sommariamente di bianco, lui vestito sommariamente di nero, verso la chiesa povera del quartiere… coi gruppi dei parenti… se qualcuno glielo chiede, potrebbero darsi un bacio. E proprio così il film potrebbe concludersi: con questo rapido, casto bacio, il bacio finale dei buoni vecchi film. La saggezza sta nel mangiare tanti confetti all’amarena senza angoscia, nel saper stare sdraiati in costume con qualche chilo di troppo su una spiaggia affollata, rilassati e paghi del bacio del sole, nel saper reggere la vita che cresce e che si affolla: nella carne, nella gente che si accalca intorno, negli sguardi e nelle invadenze. La saggezza sta nel rimanere fermi e imporsi, nel saper essere ingiusti e crudeli verso ciò che si sa, nel saperlo dimenticare. Sta pure nel pretendere qualcosa per sé. A quanto pare, la saggezza sta negli altri. Ma davvero agli uomini interessa qualcos’altro che vivere? Tonino e Graziella si sposano. Del loro amore essi sanno soltanto che è amore. Dei loro futuri figli sanno soltanto che saranno figli. È soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà. Due ragazzi italiani si sposano. E in questo loro giorno tutto il male e tutto il bene precedenti ad essi sembrano annullarsi, come il ricordo della tempesta nella pace. Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita. Così la conoscenza del male e del bene – la storia, che non è né lieta né innocente – si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà. Tonino e Graziella si sposano: e chi sa, tace, di fronte alla loro grazia che non vuole sapere. E invece il silenzio è colpevole: e l’augurio a Tonino e a Graziella sia: «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore». Nel 1963, tra marzo e novembre, Pasolini filmò le interviste e le riprese del documentario Comizi d’amore, titolo definitivo di uno straordinario esempio di cinema d’inchiesta per uno spaccato sul pensiero e i pregiudizi degli italiani in tema di sessualità. Il lavoro portò il regista in diversi ambienti e situazioni sociali e lungo tutto lo Stivale, per un sondaggio «antropologico» che soprattutto nel Sud Italia trovò sacche resistenti di arcaica autenticità popolare. Pier Paolo Pasolini Ama! Secondo Pier Paolo Pasolini Da «Comizi d’amore» (1963), in Per il cinema, a cura di W.Siti e F.Zabagli, I, «Meridiani» Mondadori, Milano 2001

13 O S S I M O R I U N A C A R E Z Z A A L L A M O N T A G N A Cos’è il Gran Sasso? Una montagna o qualcosa di più e altro? Dalle finestre dello studio di Giuseppe Stampone, alle porte di Teramo, il Gran Sasso è palesemente qualcosa di più e di altro. Incombe con la sua sagoma triangolare (la parete Est del Corno Grande), la mattina fiammante per il sole, dal secondo pomeriggio buia e solenne. Per Stampone, artista che qui è a casa, anche se le sue opere sono per il mondo, il Gran Sasso è l’origine di tutto. Una sorta di divinità tenera a dispetto di quella sua presenza incombente, che toglie ogni prospettiva all’orizzonte. È protettiva, anche se a volte sembra dover precipitare dal suo trono. Una montagna così è un segno. E Stampone l’ha trasformata infatti in un segno, anzi in un’infinità di segni. Lui lavora con una tecnica moderna che però ha a che vedere con la pazienza del passato: dipinge con la penna Bic, intessendo sulla carta reti fittissime che inseguono tutte le increspature e le asprezze di quella grande «mamma» di roccia. Nel fare di Stampone si coglie il modo di procedere dei miniaturisti che si chiudevano nelle loro celle a disegnare non quello che avevano pensato ma quello che gli era stato affidato come compito. Non inventavano, ma ricreavano ogni giorno, ogni istante. Anche lui sembra aver ricevuto un compito: fissare le immagini di ciò che gli si palesa ogni mattina davanti gli occhi, quel blocco meraviglioso di roccia dolomia, piovuta proprio lì per ragioni imperscrutabili. Stampone giorno per giorno dà forma visiva alla sua devozione verso quella montagna-madre, divinità prossima, colloquiale, famigliare. L’artista ha poi portato i lavori sul Gran Sasso alla Biennale di Venezia, ospite del Padiglione di Cuba, paese con il quale è da tanto tempo in relazione culturale e anche affettiva. Non siamo davanti ad una semplice veduta, perché Stampone con il suo procedere insegue tutte le increspature delle rocce, ne restituisce le forme mobili, perché sono plasmate dalle luci e dalle ombre e quindi dalle loro variazioni. L’impressione è che poco alla volta la montagna, da entità del regno inanimato e minerale, muti la sua natura, diventi come una massa corporea, che respiri e impercettibilmente cerchi ogni istante nuovi assetti. È un vero organismo, pur nell’asciuttezza dell’assenza di ogni cromatismo, che invece è pacatamente e poeticamente evocato con la «palette» degli azzurri apposta alla base della composizione. La grande montagna si lascia addomesticare dalla mano amica dell’artista, accetta un livello di confidenza che rende amica anche la sua minacciosa sproporzione e ogni sua asprezza. Si rende accessibile, si rende disponibile ad una relazione che va oltre lo sguardo e sconfina nella carezza, nell’empatia di un abbraccio. È istintivamente bella una montagna così. Ma in questo caso la bellezza non resta semplicemente lì davanti agli occhi. La bellezza si fa esperienza fertile, irradiazione contagiosa, realtà estetica e affettiva che prende forma e vita sulla carta predisposta da Stampone. Giuseppe Frangi Giuseppe Stampone, Welcome to Gransasso, grafite su tavola, alluminio con pantone.

14 Il Topo L' ultimo vino prodotto da Ama Terra si chiama “il Topo”, una varietà al 100% Syrah marchigiano, 800 bottiglie in edizione limitata e numerata. Un vino che arriva da un impianto nuovo di viti, grande 1700 metri, nato 4 anni fa. È una produzione atipica, il Syrah nel marchigiano, una sperimentazione. Ma quello che nasce ad Ama Terra, la bio fattoria sociale della cooperativa Ama Aquilone, non ha mai a che fare solo con la terra. La sede di Ama Terra è Casa Ama, un luogo difficile da circoscrivere, da contenere. La vista proprio non ce la fa, lo sguardo non ci arriva a circondarla tutta. Gli occhi non si arrendono, ma ad un certo punto si perdono. Dov’è l’inizio? Qualcuno la vede la fine? Le colline e il cielo vivono in continuità. La natura qui è indomita, una natura che però viene addosso non per aggredire, ma per abbracciare. Eppure qui fertile non è il terreno, ma chi lo annaffia. Maestosa non è la vite, ma chi la cura. Perciò “il Topo” è un vino così speciale. In una foto nello studio di Francesco Cicchi, presidente di Ama Aquilone, Gabriele Novi sorride. Il vino “Il Topo” è per lui. «È la persona con cui ho litigato di più in tutta la mia vita. E questo era inversamente proporzionale al bene che ci volevamo», racconta. «È una grande mancanza per tanti di noi. Era un estroverso e un egoista, ma allo stesso tempo un generoso: era tutto il contrario di tutto». Gabriele lavorava in cooperativa ed è mancato lo scorso anno, e la sua è una mancanza prepotente. In cooperativa si fanno spesso i conti con chi si è perso per strada. Si sente la loro nostalgia, non per le cose fatte insieme, ma per quelle che insieme non si sono potute vivere. La storia di questo vino racconta dell’amore per Gabriele, e l’amore per Gabriele si incastra con la vita di chi abita questo posto: gli ospiti della Casa che curano le viti, i dipendenti della cooperativa, tutte le persone che gravitano attorno a questa storia assai speciale che, in fin dei conti, è sempre una storia di ferite e amore. Come quella di Sacko, un ragazzo maliano di 28 anni, tra quelli che hanno curato la vite da cui è nato il Syrah. A Sacko l’acqua del mare non piace. Non gli piacciono le onde. Quando le deve raccontare alza il braccio in verticale, si guarda le punte delle dita. In comunità lo prendono in giro, “in acqua ha visto i pesci grossi, perciò adesso ho paura di fare il bagno”. Sacko è sopravvissuto al viaggio lungo la Rotta sul Mediterraneo Centrale, oggi lavora come agricoltore per la cooperativa. Del vino, per descriverlo, esperti sommelier hanno scritto: “Veste rosso rubino fitto. Intenso l’impatto al naso, scuro, quasi cupo, di piccoli frutti neri di mirtilli e cassis, addolcito da sfumature di vaniglia e lieve spolverata di pepe bianco. In successione bacche di ginepro e richiami di macchia mediterranea. Nel complesso i sentori delineano un profilo olfattivo ampio che si svela lentamente, offrendo sia note scure che dolci. Il sorso deciso rivela un tannino in evoluzione che asciuga il palato, offrendo ampie prospettive di abbinamento. Di buona struttura, permane nel finale con un retrogusto che torna su aromi di macchia mediterranea”, probabilmente adesso Gabriele sta pensando “Sì vabbè quante parole, ma è buono ’sto vino?”. La storia di questo vino racconta dell’amore per Gabriele, e l’amore per Gabriele si incastra con la vita di chi abita Casa Ama: gli ospiti della Casa che curano le viti, i dipendenti della cooperativa, tutte le persone che gravitano attorno a questa storia assai speciale che, in fin dei conti, è sempre una storia di ferite e amore. Anna Spena

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16 S P I R I T U A L I T À E D I N T O R N I Ama. Da scoprire L a parola amare, da cui «ama» che è indicativo o imperativo, è inflazionata. I suggerimenti e le indicazioni si sono allargati oltre le persone: agli oggetti, ai profumi, ai dolci, agli animali, ai paesaggi, alle gite e ad ogni altra occasione che possa offrire felicità o piacere. Una mercificazione che ha raggiunto livelli parossistici. Se è indice di ricerca di benessere, le destinazioni sono scese talmente in basso, che si possono amare il cappello, gli stivali, la borsa o la cravatta, il cane, il gatto, i pesci. Segni non buoni, perché significa aver screditato le emozioni, i sentimenti, i pensieri. […] Tutto ciò assorbe energie: in alcuni casi si traduce in ossessione. La personalità si impoverisce e non ha strumenti per dialogare con altri, se non per proporre gli unici valori della bellezza, della giovinezza e della ricchezza che, ben che vada, restringe contatti e, senza offesa, la normalità delle relazioni. La sintesi razionale, anche se immersa nella società dei consumi, ha dei barlumi di riflessione complessiva. Ci si rende conto, al di là delle risorse economiche, che la vita è complessa. I sentimenti di amicizia, le considerazioni sociali, economiche, culturali, politiche, non scompaiono d’incanto. Gli eventi della vita costringono alla riflessione più profonda della propria condizione: quasi sempre prove e dolori diventano occasioni per ripensare ai significati del mondo, della propria storia, degli eventi che coinvolgono la famiglia e coloro che sono accanto. Da qui un’incertezza che non abbatte i desideri dei beni materiali, ma spinge a ricollocarli nel contesto vitale che dimostra che non si è, né si può essere, puri consumatori. Si scopre l’imperfezione. Attribuita alla natura, a volte ritenuta ingiusta, a volte semplicemente subita. […] La parola amare, nel contesto classico, si riferiva a due circostanze: affettività e amore vero e proprio. Non sono due sentimenti uguali, anche se all’affettività consegue spesso l’amore. L’affettività implica emozioni: reazioni di empatia e di vicinanza, pur sempre nella sfera superficiale e improvvisa dei sensi. L’amore più profondo sembra scomparso dall’orizzonte del vissuto. Non si ama più Dio, il prossimo, la propria terra e i propri costumi. Il cerchio dell’individualismo è diventato sempre più stretto. Gli Donare amore significa creare un clima di equilibrio e, alla fin fine, cercare insieme la felicità. Il recupero delle capacità dello spirito produce ciò che è chiamata pace. Non soltanto in termini materiali (assenza di competizione e di guerra), ma anche spirituali. esempi sono molti: dalla famiglia, alla propria città; dai figli ai compagni dei propri figli, dai propri consuetudini alle tendenze. L’orizzonte non ha più uno schema generale di riferimento. Esiste il rischio terribile della solitudine, per la quale nessuno strumento materiale è efficace. Da qui la scoperta dell’amore. Può essere definito in molti modi. In questa occasione significa aprirsi all’altro, prendendosene cura, farlo diventare se stesso. Se ciò è facile in ambienti di affettività (famiglia, amicizia), diventa impegno di apertura e di intelligenza per rivolgerlo altrove: anche se non si conosce, anche se non si basa sugli affetti. Amare significa riprendere le considerazioni della propria vita, che non può essere vissuta in solitudine. L’altro non solo è aiuto, ma compagnia, vicinanza, perdono, sicurezza. Occorrono intelligenza e volontà per creare la cultura dell’amore: una visione positiva che, al di là delle difficoltà, è capace di leggere gli elementi positivi della presenza esterna. Donare amore significa creare un clima di equilibrio e, alla fin fine, cercare insieme la felicità. Il recupero delle capacità dello spirito produce ciò che è chiamata pace. Non soltanto in termini materiali (assenza di competizione e di guerra), ma anche spirituali. Uno sguardo ampio, comprensivo, aperto e, infine, coraggioso. Solo così la comunità internazionale può effettivamente progredire. È il sogno di una umanità veramente umana, perché, prima che donativa è intelligente. In questo sforzo è d’aiuto la natura: essa non dimentica e non perdona. Se l’assecondiamo troveremo equilibrio, altrimenti manderà segnali di squilibri e di mali. DonVinicio Albanesi

17 C A R C E R E E S T O R I E Una casa gialla per ricominciare Le domande escono a fatica, ma a ripetizione, dal caos di sottofondo. E per essere più incisivi, nella lotta a chi deve avere più attenzione, sono accompagnate dalle mani che tirano giù le maglie, toccano le gambe. Siamo a Casa Augusto Agostini, una comunità terapeutica residenziale per mamme e bambini, aperta per non dividere i figli dalle madri tossicodipendenti. Può accogliere fino a fino a 13 donne, con o senza obblighi giudiziari. Una Casa che ha faticato a nascere e ha superato due barriere, una interna alla cooperativa: “non ci verrà nessuno, avremo poche richieste”. L’altra esterna, emblema della noncuranza del mondo: “a ’ste drogate leviamoglieli i figli”. Ma nel 1998, dopo un lungo lavoro che ha visto la completa ristrutturazione di una casa colonica, concessa dal Comune di Spinetoli in comodato gratuito, Casa Augusto Agostini era pronta per essere abitata. La Casa porta il nome di Augusto Agostini, educatore della cooperativa mancato poco tempo prima che la struttura aprisse ufficialmente. “Mamma, mamma, mamma”. A. sembra una macchinetta, chiama la mamma a ripetizione, non si ferma. Per bloccare quella cantilena simpatica e sfidante, L. alla fine lo prende in braccio. A. sorride: ha avuto quello che voleva, la sua mamma. Poi si abbandona alla dolcezza e gli affonda la testa dentro al collo. Quando A. è arrivata qui, aveva 21 anni, un neonato tra le braccia, ed era arrabbiatissima. La sostanza era l’unica cosa che la faceva stare meglio. Non capiva perché la doveva abbandonare per il figlio. Quando un bambino nasce in astinenza l’ospedale lo segnala ai servizi sociali, i servizi sociali allertano i tribunali dei minori, il tribunale - quando le condizioni lo consentono - chiede alla madre se vuole entrare in comunità con suo figlio e disintossicarsi. «L’incontro e la volontà di incontrarla, la droga», racconta Pina Sospetti, psicologa e direttrice della struttura Pina, «non sono casuali. La sostanza arriva in modo casuale, ma il bisogno che copre e fa finta di riempire una mancanza si è scavato radici profonde molto prima di diventare gesto. Negli anni abbiamo incontrato dipendenze traumatiche. Ragazze che hanno vissuto dolori infantili enormi che non hanno mai superato e che probabilmente la sostanza ha attutito. Abbiamo incontrato mancanze di tipo affettivo, storie di violenza. Non solo donne tossicodipendenti, ma proprio ragazze con una personalità dipendente. La comunità serve a ridare a queste donne fiducia in se stesse, a mostrare che c’è la possono fare anche senza sostanza». Questa è una comunità con pochi abbandoni: «I minori sono una grande forza deterrente», dice Pina. «Ma un figlio non ti ferma rispetto alla sostanza. Fanno uso di droghe in gravidanza, quindi quanto può essere potente la sostanza per queste ragazze? La maggior parte delle donne, non tutte, qui arriva con il decreto: o segui tuo figlio ed entri in struttura o lo perdi. Inizia tutto come una “costrizione”. Però poi crescono, costruiscono, diventano protagoniste della loro scelta, che in un primo momento è una scelta subita. Piano piano diventa loro. Entri per seguire tuo figlio, ma la decisione passa da tuo figlio a te. Perché il bambino non ti salverà mai per tutta la vita. Il figlio salvifico non esiste, è una spinta. Ma non basta». Casa Augusto Agostini, prima ancora di aprire ufficialmente le sue porte, ha superato due barriere, una interna alla cooperativa: “non ci verrà nessuno, avremo poche richieste”. L’altra esterna, emblema della noncuranza del mondo: “a ’ste drogate leviamoglieli i figli”. Anna Spena

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