Itaca n. 15

2 + Ama Festival: quando il sociale fa cultura «Ama!», voce del verbo amare, modo imperativo, seconda persona singolare. È il titolo scelto per la sesta edizione di Ama Festival. Un titolo che è «interno» alla storia stessa e al nome della cooperativa, di cui Francesco Cicchi è presidente e fondatore. Ne parliamo con lui. Da dove scaturisce la scelta di un titolo come questo? Era stato pensato come leit motiv per i 40 anni della cooperativa, che purtroppo sono caduti durante la lunga e dura parentesi del Covid: riconoscere nel nome un’ipotesi di lavoro aperta per la vita nostra e di tutti. Una ragion d’essere. Non è un sostantivo, come potrebbe essere «amore», ma un verbo, che per sua natura invita all’azione, ad entrare in gioco. «Ama e fa’ ciò che vuoi», ha scritto Agostino. Quindi l’intento è quello di andare oltre la retorica dei buoni sentimenti e spingere ciascuno a questa sfida meravigliosa. Vorrei anche sottolineare che questo titolo comprende anche un’accezione importante, da cui addirittura partire: «amati!». Bisogna partire da se stessi, dal volersi bene per capire quanto è importante mettere il proprio io in relazione con il bene che viene dagli altri, ma anche dalle cose che ci circondano. C’è anche un messaggio culturale in questo titolo? Certamente. È la ragione stessa per cui proponiamo il Festival, che è un appuntamento importante per noi già per il semplice motivo di aprire il luogo della comunità al pubblico esterno. La comunità non è un luogo fuori dal mondo e il pubblico, venendo per gli appuntamenti proposti dal Festival, se ne può rendere conto. In secondo luogo, il Festival è importante perché è lo sforzo di dimostrare che si può fare cultura con il sociale. È un fare cultura che non dispensa certezze, ma che «insidia» con le domande, che semina dubbi costruttivi. Ecco, il Festival è una situazione che dispensa domande. Perché le domande sono più costruttive, più culturalmente attive delle risposte. Un’altra parola che è molto importante per la storia della cooperativa è «bellezza». Che nesso c’è tra l«Ama!» del titolo e la bellezza? Non c’è nulla di più bello dell’azione espressa e auspicata dal verbo «Ama»! La bellezza è una dimensione dinamica, non è fine a se stessa. Per questo genera parole dinamiche, mette in azione. Non bisogna ingabbiare la bellezza dentro dei canoni. La bellezza può essere dappertutto, anche nelle situazioni più dure e drammatiche. Qualche anno fa avevamo messo come titolo al Festival «Incurabile bellezza», proprio ad indicare che nelle biografie più segnate dalla durezza della vita e dal dolore si nasconde sempre un nucleo di bellezza. Lo abbiamo detto anche a proposito del terremoto, che è stata esperienza drammatica per queste nostre terre. Bisogna guardare anche alle situazioni più brutte con la convinzione che possa scaturire una scheggia di bellezza. È come un miracolo: accade se sei disposto ad accoglierlo. Il contesto del resto è un invito a capire il valore della bellezza… Certamente. Anche se a me piace citare Rilke, quando dice che ci si veste di ciò che ci si spoglia. È davanti alla nudità delle cose che scatta l’esperienza della meraviglia, e quindi si tocca con mano che la bellezza è capace di generare azioni e modi di essere nuovi.

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