Itaca n. 15

6 + L’universo ha sete dei sentimenti degli uomini grandi parole come «destino» e «misericordia». È un segno della grande fiducia che tu hai nella fotografia? Per quanto riguarda il destino, mi sono accorto che se toccavo un tema, tanto più infelice, tanto più era sventurato, tanto più era come se il destino mi aiutasse ad entrare in quel tema. Ti faccio un esempio: era l’anno prima del Giubileo del Duemila. Le autorità di Roma avevano dichiarato guerra agli zingari. Il sindaco aveva chiesto alle forze dell’ordine di rendere loro la vita impossibile. E quelli continuavano a entrare nei campi di baracche e mettevano tutto sottosopra. Quando arrivavo io vedevo i bambini che se l’erano fatta addosso per il terrore. Una volta è capitato quello che sentivo poteva accadere, ma non pensavo in modo così orrendo. La polizia aveva fatto irruzione in una baracca e preso a calci tutto, buttando all’aria ogni cosa, compresa una bambina di 16 giorni. Era un involtino grande così. Il prefetto dichiara che è nomale che capitino incidenti così. Penso: domani i giornali lo massacrano. E invece niente. Nessuno ne parla. Nemmeno Il Manifesto. Non riesco a prendere sonno, mi viene il dubbio che mi sia inventato tutto. La mattina dopo vado all’obitorio a chiedere: «Nei giorni scorsi è arrivata da voi una bambina di 16 giorni?». E quelli: «Sì». E io: «Di che cosa è morta?». E la dottoressa mi dice che un neonato di pochi giorni ha la guancia grande come un francobollo e quel francobollo era timbrato con l’impronta di una scarpa. Sono andato a una conferenza stampa in Campidoglio e ho dato dell’assassino al sindaco. È successo il finimondo. Nei mesi seguenti la gente, quando mi vedeva, cambiava marciapiede. Ma io ho deciso di continuare il lavoro sugli zingari. È uscito un libro intitolato Il giubileo nero degli zingari. Gli unici a recensirlo sono stati quelli di Radio Vaticana. Evidentemente è il destino che vuole che certe fotografie vengano fatte. Perché sente di non essere completo, non è compiuto senza quelle immagini. È l’universo che ha sete dei sentimenti degli uomini. E misericordia? Misericordia è un termine bellissimo che io ho ripreso perché vuol dire che ci riconosciamo miseri e che gettiamo il cuore dalla parte dei miseri. Ed è l’unico sentimento sovversivo, perché i più provveduti si riconoscono tra i meno provveduti e allora si crea come un popolo nuovo: il potere percepisce che non ha più motivo di essere quando la misericordia prevale, per questo non gli resta che far scorrere il sangue. Ma non solo, tante volte al potere non basta far scorrere il sangue, vuole grattare via dalle anime il sentimento della misericordia e allora chiede aiuto al tradimento. Il filo conduttore delle tue opere è quello di un grande amore per gli esseri umani. È questa passione che ti suggerisce cosa fotografare? L’universo è assetato degli affetti umani. Il sistema solare, la Via Lattea, le galassie non hanno alcun sentimento di sé. Le stelle non sanno di essere belle. Anche un fiume è incapace di guardarsi. Noi invece, gli uomini, siamo quella parte dell’universo che si accorge di sé. L’universo cerca i nostri sentimenti, li suscita. Forse questa è l’unica ragione per cui l’universo ha bisogno degli uomini. Ha bisogno della nostra sete di giustizia, una bellezza che gli manca. Sembra che l’universo ce la chieda, la giustizia, perché ha bisogno di quell’immagine per completare la propria bellezza. Penso alla foto che ho intitolato «Pausa pranzo con qualcosa di sacro». Tano D’Amico fa riferimento ad una sua immagine bellissima in cui si vede il tavolo di una mensa di operai disposti come in un’«ultima cena». Grazie Tano, le tue foto ci rendono migliori. Tano D’Amico Per Tano D’Amico, la fotografia è sostanzialmente un atto d’amore. D’Amico, 80 anni, nato a Lipari, ma a tutti gli effetti romano, è stato un grande testimone della vita sociale italiana in un tempo bello e difficile come quello delle grandi contestazioni e dei ribollimenti sociali. Il suo non è sguardo ideologico, anche se evidentemente schierato, in direzione di chi non accetta lo status quo. «Ho sempre amato le immagini ma ho sempre fatto tutt’altro. Io non ho e non ho mai avuto il pallino per la fotografia. Io ho la passione per gli esseri umani. E anche per gli animali e la natura. La fotografia è il mezzo più adatto a me. Si può praticare con indipendenza, anche se hai una visione del mondo diversa da quella dominante. Per il cinema servono grossi capitali. Per le foto, bastano i rullini. Se non sei contento delle immagini che fanno gli altri, come nel mio caso, cerchi tu di fare quelle che vorresti vedere». Sei diventato fotografo per insoddisfazione rispetto alle immagini che vedevi? In realtà io amo gli insoddisfatti, quelli che non si accontentano della vita che c’è. Quello che mi ha sempre interessato sono gli esseri umani a cui, come a me, va stretto il mondo. C’è un affresco a Palermo che dice bene quello che io dico con povere parole: l’immagine nasce dagli insoddisfatti, nasce da chi si accorge che siamo tutti poveri su questa terra. Mi ha sempre interessato la storia e capivo che era nelle immagini, più che sui libri, che era scritta quella vera. La storia dei sentimenti, non quella dei re che si fanno la guerra. La storia intima dell’animo umano, delle speranze, della consapevolezza. Io con le mie fotografie ho provato a raccontare lo stesso tipo di storia. Anche se poi quelle immagini hanno fatto molta fatica a essere pubblicate dai giornali. Era più facile che comparissero sui volantini delle femministe. Ma poi c’era qualche critico che diceva avessero la forza del teatro greco o l’energia del Compianto di Niccolò dell’Arca. Se è vero che vogliamo cambiare il mondo la prima che cambia è l’immagine, il modo di vedere, di guardare. E il modo di guardare degli artisti di qualsiasi secolo, è quello degli insoddisfatti. Dietro i cambiamenti dei modi di guardare esistono dei cambiamenti della storia che i pittori avevano visto prima. Viviamo in un mondo che ci sommerge di immagini. In un certo senso abbiamo la possibilità di vedere tutto, in simultanea mentre le cose accadono. Come vivi questa invasione di immagini? È un’abbondanza che non rende un buon servizio, a nessuno. Sono immagini senza anima. Il potere stesso conta sulla facoltà delle immagini di agire per sottrazione. L’uso che si fa di queste immagini non fa altro che rafforzare il potere che c’è. La tua scelta per il bianco e nero è una forma di difesa da quest’uso delle immagini da parte del potere? Il bianco e nero riporta alle linee essenziali, aiuta a capirla la realtà. Basta rifarsi ai grandi pittori, il colore non è messo a caso. I grandi maestri dell’arte usano i colori come un linguaggio. Nella realtà se avessi scattato quella foto a colori e la donna al centro avesse avuto un vestito rosso, sarebbe cambiato tutto… Lo ripeto. L’uso casuale del colore distrae. Per me il bianco e nero è una delle grandi scoperte dell’umanità proprio perché è mia intenzione aggregare la realtà. Nei titoli dei tuoi libri recenti associ l’esperienza di fotografo a In realtà io amo gli insoddisfatti, quelli che non si accontentano della vita che c’è. Quello che mi ha sempre interessato sono gli esseri umani a cui, come a me, va stretto il mondo.” “

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