Itaca n. 6 - page 2

La tragedia del sisma vissuta da un
giovane che affida alle sue righe la
necessità di essere parte di un calore che
resiste e palpita sotto le macerie.
Di Gian Mario Bachetti
Articolo tratto dal blog
gianmariobh.wordpress.com
N
on mi sono mai sentito così fuori luo-
go nel camminare nel centro di
Roma, tra le cupole e i marmi, tra le
statue. Sento lontane le montagne,
le mie. Sento lontane le case con le pietre tut-
te diverse e incastrate da secoli le une con le
altre: materiali poveri, materiali di chi lavorava
nei boschi e nei pascoli, con le mane sporche
e le unghie spezzate.
Ieri una scossa di terremoto mi ha sveglia-
to
:
ero solo a casa, come nel 2009 quan-
do si è aperta la terra sotto L’Aquila.
Ma ci
sono abituato, mi ha tremato il letto quando
avevo sette anni e le Marche e l’Umbria furo-
no devastate da un terremoto che buttò giù
paesi di cui faccio fatica a ricordare i nomi:
Muccia, Colfiorito. Chissà che fine hanno fat-
to. Tremavano anche i banchi e ci ritrovavamo
tutti in cortile con i grembiuli blu e bianchi.
Dopo la scossa mi ha chiamato mia madre,
dal paese dei miei nonni e dei miei bisnon-
ni: un paese che si aggrappa all’Appenino,
da sempre. Dove il tempo rimane statico e il
telefono non prende, un paese che negli anni
si è svuotato, come quasi tutti i borghi che
si arroccano tra i monti e le valli nel centro
dell’Italia; è diventato un grande villaggio tu-
ristico che si anima a comando con le ferie di
Ferragosto e con qualche Capodanno inne-
vato. Un paese in cui non sei nessuno se non
un segmento della tua famiglia, in una retta
che buca il tempo e viaggia parallela a quella
dei vicini di casa, dei ragazzini che giocano in
piazza, agli anziani che chiacchierano vicino
alla fontana, agli adolescenti ubriachi intorno
ai falò nei prati che si aprono ai confini dei
boschi. Un paese in cui le famiglie crescono
ma le case sono sempre quelle.
Quelle case che sono lì da sempre;
dietro cui mi sono nascosto per anni
giocando a nascondino, a cui ho
bussato quando volevo vedere
un amico e non avevo altro modo per
sentirlo, dentro cui ho cucinato car-
bonare insipide alle quattro
del mattino.
Mi ha chiamato mia madre e mi ha detto che
tutti erano nel piazzale davanti alla chiesa,
quel piazzale che a metà agosto è pieno di
auto targate Roma. Erano rimasti in pochi,
ché lunedì in molti sono tornati a lavoro. Mia
madre mi ha chiamato e mi ha detto che non-
na stava bene e la casa anche, che la vetrinet-
ta con gli alcolici aveva tremato così forte che
si era aperta e le bottiglie erano a terra frantu-
mate, nel salotto che puzzava di alcool. Mi ha
detto che se l’epicentro non fosse stato nelle
vicinanze, avremmo ricordato parecchi morti.
Nel frattempo refreshavo Twitter con la storia
che iniziava a dipanarsi: i dati, non ancora il
racconto. I numeri, scarni, asettici: 6 punto
0. I luoghi, senza le immagini:
Accumoli. La
terra aveva tremato lì.
Sotto la cantina, sotto
la discesa che da casa porta al paese, sotto
la fonte in cui ho bevuto milioni di volte, in cui
ho riempito centinaia di bottiglie di plastica e
taniche, da cinque litri, in vetro.
Stavano tutti bene, li vedevo nel piazzale da-
vanti alla chiesa: Dante, Piera, Andrea, Mat-
teo. L’ho anche twittato, pensando che nono-
stante tutto, fosse andato tutto bene; per ri-
empire quel vuoto assordante del silenzio dei
giornali e delle agenzie che mi metteva paura.
Sono andato a dormire sapendo di gravi crolli
e forse due feriti ad Arquata. Perché la terra
ha tremato espandendo la sua forza, contan-
do le vertebre della Salaria.
Oggi la Salaria è l’inferno.
La Salaria è una strada consolare: colle-
ga Porto d’Ascoli a Roma, attraversando le
montagne dell’Appenino e le valli scavate dal
Tronto. Ci si trascinava il sale, dalla costa alla
capitale del mondo. È una strada che cono-
sco a memoria, è un cordone ombelicale che
unisce la mia infanzia e la mia adolescenza
alla vita in cui da 9 anni provo a diventare un
adulto. I bagni al mare, i castelli di sabbia, le
albe fredde sulla riva, le prime sbornie, il ses-
so sudato nella casa al mare dei miei nonni, i
bagni al fiume – quello stesso fiume che ho
visto nascere tra i monti e morire nella foce – il
tempo bruciato in scooter, le mattine gelate a
inseguire la campanella, le sessioni d’esame
preparate sull’autobus, gli amici conosciuti a
Roma portati in provincia e quelli di sempre
ospitati in case con tanti letti e poche como-
dità.
Ora la Salaria si frantuma tra i monti che
l’hanno sempre accolta. Dicono di non
passarci perché è difficile portare i soc-
corsi, perché le case sono isolate e i ponti
crollano. Perché la gente urla da sotto le
macerie e il numero dei morti sale
. Perché
la polvere è sporca di sangue e il sangue di
polvere. Perché quelle case che sono sem-
pre state lì, sono venute giù, sotto la potenza
della terra. Perché Poggio d’Api, il mio Pog-
gio d’Api, si è in parte salvato, ma Amatrice è
crollata e io ci sarei dovuto andare il 16 ago-
sto, ma poi siamo andati a mangiare la piz-
za a Trisungo. Ed è crollata anche Accumoli,
dove mio zio è andato a prendere i documenti
dopo la morte di nonno; ed è crollata Illica e
mi ricordo di quando ci giocammo contro a
calcio, su un campo scosceso con le porte in
pvc e feci anche un gol. Non so i nomi dei ra-
gazzi contro cui giocai, chissà che fine hanno
fatto. È crollata Arquata e penso ai miei amici
che vivono lì, al grande castello che domina
la valle e sembra sfidare quelle montagne che
hanno dimostrato tutta la loro onnipotenza.
È crollata Pescara del Tronto che è il paese
che guarda dall’alto quello più in basso del-
la nonna della ragazza di cui ero innamorato
ai tempi del liceo.
Erano paesi bellissimi,
sono paesi bellissimi.
Silenziosi, immersi in
una terra rigogliosa, con i boschi che arrivano
fino in bocca al fiume. Austeri ma accoglienti.
Uterini. In quelle case c’era l’eternità e spero
ci sia ancora.
Butto giù queste parole inutili in un bar nel
centro di Roma, tra le viuzze su cui si affaccia-
no le chiese e i palazzi signorili. Penso siano
inutili, ma servono a me per non scoppiare.
Sento le voci dal telegiornale, con quel dialet-
to che so a memoria e mi fa sentire sempre a
casa. E ho gli occhi gonfi di lacrime e lo sto-
maco che pesa, le mani sudate.
Il
24 agosto
è il compleanno di mio nonno e
questo è il primo anno in cui non lo festeggia-
mo, è morto a novembre: ho inseguito questa
data per anni, cercando di piegare vacanze e
sessioni d’esame, per stare vicino a quel non-
no che ha tirato su la casa che questa notte
ha tenuto botta e non è venuta giù. Da oggi,
questa data si lega ancora di più alla mia vita
e alla mia storia, al mio paese, alle mie pietre,
alle mie montagne; e pretendo che continuino
a essere le mie e le nostre, come è sempre
stato, immortali, per sempre.
attualità
il mondo piccolo
24 agosto
Ph. Alberto Cicchini
Il nostro mondo è quello delle relazioni sociali, dei deboli, dei fragili, dei sogni apparentemente irrealizzabili, dei progetti economicamente perdenti,
ed è partendo da questa rete ed attraverso queste lenti che vogliamo connetterci con tutto quello che accade e raccontarlo.
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