Congresso XIX documento 2

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 1 Le radici del sindacato. Senza lotte non c’è futuro 1. Perché un documento alternativo. Una Cgil radicale, conflittuale e di classe. L’ultimo congresso della Cgil aveva generato in molti/e la speranza di un cambiamento della linea degli anni passati, verso maggiore democrazia, conflittualità sociale, autonomia dalla politica e un rapporto più stretto con i movimenti. Questo cambio di rotta non è avvenuto. Per questo presentiamo un documento radicalmente alternativo a quello della segreteria nazionale, chiedendovi di sostenerlo. In questi anni, la Cgil non si è contrapposta al governo in modo efficace e a una opposizione radicale ha preferito l'unità con i vertici di Cisl e Uil. Quando ha tentato di mobilitare il mondo del lavoro, è sembrata poco convinta, timorosa di mettere in discussione le compatibilità di sistema, intenzionata a ricostruire le condizioni per gestire la crisi insieme a padronato e governo. Attraversiamo una fase di straordinaria gravità, caratterizzata da una pandemia mondiale, dall’aggravarsi della crisi ambientale e dalla minaccia che la guerra assuma dimensioni mondiali. Una fase segnata da una gestione capitalistica della crisi che, a fronte dell’eccezionale recessione del 2020, ha avviato importanti politiche di spesa: tra manovre economiche e fondi europei sono stati stanziati 396 miliardi di euro, per la maggior parte a debito, che dovremo quindi ripagare nei prossimi anni. Dopo anni di sacrifici, finalmente avrebbero potuto esserci risorse per lo Stato Sociale, il lavoro, i salari, la sicurezza, le pensioni, gli investimenti nel Sud e l'occupazione dei giovani e delle donne. Invece, in larghissima parte, di nuovo, queste risorse sono andate principalmente alle imprese e al mercato. Per noi sono rimaste le briciole, persino per sanità e scuola, che, dopo la pandemia, dovevano essere la prima urgenza del paese e che invece sono l'ultima voce di spesa, ulteriormente impoverite dalla scellerata decisione di aumentare ancora le spese militari. In questa situazione, la Cgil avrebbe dovuto rivendicare una svolta in grado di contrastare la crisi e pretendere, con una vertenza unificante, risorse e investimenti per il lavoro, per finanziare una riforma del sistema pensionistico in senso egualitario e socialmente sostenibile e per veri aumenti salariali, tanto più necessari e urgenti a causa dell’aumento dei costi energetici. Abbiamo invece inseguito il governo Draghi e rinunciato a un ruolo di opposizione sociale. Abbiamo assecondato una gestione contraddittoria della crisi sanitaria, fin dall'inizio indirizzata a garantire il profitto e l'economia prima che la salute pubblica. La Cgil ha subìto la decisione di porre fine al blocco dei licenziamenti, quella di operare altri tagli ai servizi sociali e quella di imporre nuove privatizzazioni. Non abbiamo contrastato l’autonomia differenziata. Quando, finalmente, siamo arrivati allo sciopero generale, il 16 dicembre scorso, era tardi. Non c'era una reale intenzione di costruire finalmente una opposizione sociale e infatti, per mesi, non c'è stata una mobilitazione generale in campo, nonostante l'ennesima promessa infranta sulle pensioni e l’impoverimento dei salari, a causa dell’impennata inflazionistica. C'è uno scostamento enorme tra quello che la Cgil proclama nei documenti e quello per cui i vertici si attivano, si mobilitano e contrattano. É la condizione stessa di chi rappresentiamo a renderlo palese. Negli ultimi 30 anni, in Italia, i salari reali sono diminuiti, gli orari medi sono più lunghi, la precarietà è aumentata, il tasso di occupazione delle donne, soprattutto al Sud, è molto più basso della media europea, tre persone al giorno in media muoiono sul lavoro. Per cambiare tutto questo, la Cgil deve partire prima di tutto dal mettere in discussione la linea che ha accettato e praticato in questi decenni. Sono anni, per esempio, che, nei Congressi, si promette una campagna di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ora proponendola per legge. È un obiettivo sacrosanto, ma non basta scriverlo, se poi non ci si mobilita davvero, nemmeno per la riduzione dell’età pensionabile. È a monte che la Cgil deve cambiare linea: non basta proclamare quello che vogliamo, dobbiamo proporre una strategia di lotta per provare davvero e fino in fondo a ottenerlo. Senza una vera intenzione di mobilitarsi e di costruire occasioni radicali di lotta, senza una piattaforma generale, non riusciremo a ottenere nemmeno uno dei diritti che abbiamo perso e che ogni quattro anni, nei Congressi, promettiamo di riconquistare. Per far questo, bisogna partire dal bilancio di quello che è stato fatto. L’attuale linea della Cgil si è rivelata

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 2 nei fatti in continuità con quella degli anni precedenti, persino più ostinata nel cercare la concertazione e sviluppare nuove forme di codeterminazione che, comunque, in tutta evidenza il governo Draghi non vuole concedere. Una Cgil che, nonostante le divisioni con la Cisl, la loro esplicita subordinazione al governo e al padronato e l’acuirsi delle divergenze tra i rispettivi modelli sindacali, continua a presentare piattaforme unitarie e persino inseguire l’illusione di una unità organica tra le confederazioni. Un’idea che, per i differenti sistemi valoriali e le diverse pratiche sindacali e contrattuali, per noi, è impraticabile. Oggi la Cgil, nel confronto pubblico e nell’azione sindacale, è più moderata di prima di fronte a una Confindustria che è invece più agguerrita che mai, perfino feroce nei momenti più drammatici della crisi sanitaria, quando, nella primavera del 2020, con le pressioni per non istituire subito la zona rossa in Val Seriana e gli slogan #bergamoisrunning e #milanononsiferma, rivendicava senza scrupoli che la produzione non poteva fermarsi, anteponendo gli interessi economici e il profitto alla sicurezza di chi lavora e alla salute di interi territori. Serve, oggi più che mai, una Cgil che, oltre a fare proclami e scrivere grandi documenti, sia in grado di riattivare antagonismo e conflittualità per contrapporsi agli interessi di Confindustria e del governo Draghi. Non serve moderazione, ma al contrario maggiore radicalità, come ha dimostrato la vertenza esemplare di GKN, la fabbrica in provincia di Firenze che è stata occupata il 9 luglio del 2021, diventando protagonista di un vasto movimento di lotta che ha portato in piazza decine di migliaia di persone contro un intero sistema di sfruttamento, fatto di licenziamenti e delocalizzazioni, precarietà, appalti, bassi salari, ingiustizie e sfruttamento. La lotta di un collettivo di fabbrica, dopo decenni, attraverso il protagonismo dei delegati e il rapporto democratico con i lavoratori, è riuscita a dare una prospettiva di cambiamento, proponendo una linea sindacale alternativa, radicale e di lotta, non settaria ma rivendicativa, che ha messo da parte il senso di sconfitta e di rassegnazione e ha saputo costruire, oltre alla necessaria vertenza in tribunale e sui tavoli di trattativa, un movimento di lotta, fatto di legami di solidarietà e di convergenza, tenendo insieme, sotto un'unica parola d’ordine, #INSORGIAMO, il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici con quello ambientalista, della scuola e per la pace. Questo è quello che l'intera Cgil dovrebbe fare, archiviando finalmente anni di concertazione, compatibilità, moderazione salariale, rassegnazione; anni di lotte non fatte (come nel 2011 sulle pensioni), iniziate tardi (come quella contro il Jobs act) oppure non proseguite (come l'ultimo sciopero generale); anni di burocratizzazione dell’organizzazione, enti bilaterali e servizi, patti sociali e allontanamento dai movimenti sociali. Per affrontare le sfide della modernità e del futuro, bisogna guardare avanti, capire e anticipare i cambiamenti organizzativi, le sfide della digitalizzazione, la gig economy, lo sfruttamento 4.0, senza mai smettere di ricercare e ritrovare nella nostra storia e identità, il nostro ruolo antagonista e di classe, valorizzando il protagonismo dei delegati/e e delle lotte. È necessario ricostruire i rapporti di forza nei luoghi del lavoro, sostenere l’autorganizzazione, i comitati di lotta, i coordinamenti, le assemblee di delegati/e nella costruzione delle piattaforme e degli scioperi. È necessario sviluppare una conflittualità diffusa, in grado di riprendere il controllo sul salario e sull'organizzazione del lavoro e ricomporre in una vertenza generale le lotte nei posti di lavoro e nei territori. Lotte come quelle che, a marzo 2020, anticiparono le decisioni dei vertici sindacali e, nella situazione di pericolo determinata dal Covid, portarono autonomamente a chiudere tante fabbriche prima che lo decidesse, fuori tempo massimo, il governo. In poche parole, la Cgil deve recuperare le proprie radici, in questo senso recuperare la piena autonomia da governi e padronato e tornare a essere più "radicale". 2. Lo scenario: il mondo allo sbando. Crisi climatica, pandemia, guerra La crisi dell’attuale capitalismo, trasformando il mondo con velocità e intensità senza precedenti, sta producendo disastri, generando contesti di incertezza, conflitti e rischi sistemici, che moltiplicano le emergenze e le crisi planetarie, determinano e rendono drammatica la scarsità delle risorse energetiche, minerarie e alimentari, pongono in discussione la stessa sopravvivenza dell’umanità. Anche la pandemia di Covid, che ha prodotto milioni di morti nel mondo, è l’effetto di queste dinamiche: la devastazione ambientale, la massiccia urbanizzazione e l’intensificazione degli allevamenti animali. Tutto ciò mette a dura

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 3 prova le condizioni di vita del mondo intero, aumentando le disuguaglianze tra chi sfrutta e chi è sfruttato. In questo quadro, sono 59 i conflitti aperti nel mondo. La guerra in Ucraina, l’unica di cui si parla, è uno spartiacque, che ridisegna aree economiche, alleanze politiche e blocchi militari contrapposti intorno ai principali poli imperialisti del mondo. Una dinamica che accelera i nazionalismi, il riarmo generalizzato e politiche economiche di guerra. Le conseguenze della guerra sono pagate amaramente dalle popolazioni, a cominciare da quella ucraina, colpita direttamente. La ferma condanna dell’invasione russa è imprescindibile, ma non basta. Bisogna individuare e rimuovere le diverse cause che l’hanno determinata e opporsi a tutti coloro che hanno interesse nel proseguire la guerra, a partire dalla NATO e dalla sua strategia di espansione e di riarmo che ha alimentato la tensione. La guerra e le sanzioni, nel quadro della competizione mondiale e delle speculazioni sui mercati, hanno finito per colpire la popolazione, accentuando in Russia, in Europa e nel mondo disoccupazione, diseguaglianze e l’impoverimento dei salari, mentre gli Stati Uniti, perseguendo i propri obiettivi di potenza, esportano in misura maggiore e a un prezzo più alto il loro gas, prodotto con enormi devastazioni ambientali. La Cgil deve promuovere un movimento generale contro la guerra, in relazione e in supporto alle organizzazioni sindacali di ogni paese che lottano contro i nazionalismi e le logiche di questo conflitto. Dobbiamo mobilitarci per l'uscita dell'Italia dalla Nato, contro l’invio di armi, il riarmo e la politica bellicista del governo Draghi. Dobbiamo continuare e aumentare il nostro impegno nella raccolta di aiuti umanitari alle popolazioni coinvolte nella guerra, nel sostegno all’accoglienza degli uomini e delle donne profughe e dei disertori. La nuova crisi sta rallentando la crescita cinese e colpirà i paesi periferici, mentre fra quelli avanzati le conseguenze peggiori saranno sopportate da chi, come l’Italia, ha già debiti elevati. Tutto questo precipita sulla UE, dopo decenni di politiche liberali fatte di austerità, privatizzazioni, scelte antipopolari e contro il lavoro. La gestione stessa della crisi economica, della pandemia e ora della guerra, oltre a rendere palesi le contraddizioni interne, conferma il ruolo di subalternità dell’EU agli interessi del capitale finanziario. Si annuncia una crisi ancora più difficile da contrastare e gli strumenti fino ad oggi pensati, come il rialzo dei tassi della Fed e prossimamente della Bce, determineranno lo strangolamento dell’economia reale, favorendo la finanza e colpendo i consumi. Le conseguenze di tutto questo saranno drammatiche, non solo in termini di vite direttamente colpite dalla guerra, ma anche per le carestie che saranno causate dalla rarefazione delle materie prime e per l’impennata inflazionistica (basata sull’espansione del debito e le politiche monetarie per gestire la crisi dell’ultimo decennio, innescata dalla ripresa post-pandemica ed esacerbata dalla guerra), che sta già determinando effetti dirompenti sui salari e sulle condizioni di vita dei ceti popolari. Anche gli impegni assunti dalle grandi potenze per rallentare la catastrofe ambientale, già insufficienti, finiscono, per essere vanificati. La logica che li sottendeva, in realtà, non era tanto la salvaguardia del pianeta, quanto il profitto dei grandi investitori. Con la guerra, questi impegni vengono ulteriormente stravolti da scelte energetiche scellerate e si ricomincia a parlare di ritorno al carbone, al nucleare, alle trivellazioni nel mare e alle forme più invasive di estrazione del gas, con conseguenti ulteriori devastazioni ambientali. Gli effetti della crisi saranno durevoli e faranno emergere un’economia globale profondamente diversa dal passato per specializzazioni e aree geografiche. Al generale impoverimento della popolazione corrisponderà un arricchimento sempre più insostenibile e quasi esente dal carico fiscale delle aziende globali e di una ristrettissima fascia di multimiliardari. Il drastico peggioramento delle condizioni di vita popolari, in assenza di una speranza di cambiamento e di riscatto del lavoro, rischia di alimentare i governi reazionari e sovranisti e i sistemi politici in cui, anche grazie a una informazione asservita alla politica, si sviluppano strutture tecnocratiche che esautorano i Parlamenti, anche contro gli orientamenti della maggioranza della popolazione. L’Italia è particolarmente coinvolta in questo scenario da “economia di guerra”: l’impennata inflazionistica e l’ulteriore riduzione dei salari, la ripresa delle politiche di privatizzazione e di tagli alla spesa pubblica, la riduzione della crescita, la carenza e il rincaro delle materie prime che rischia di causare il rallentamento e la chiusura di migliaia di aziende impattano su un sistema produttivo già debole. Un sistema che era già uscito

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 4 più frammentato e divaricato tra Nord e Sud dalle due recessioni del 2009 e del 2012 e che soffre da anni l’assenza di una visione strategica e di piani di sviluppo e di investimento pubblico sui principali settori manufatturieri e energetici. Anche il sistema bancario italiano, in un’economia costruita sulla finanziarizzazione, ne è uscito profondamente trasformato: sono stati travolti i confini tra raccolta del credito e investimento e si è determinata una concentrazione in grandi gruppi internazionali, che accumulano profitti sulle spalle delle persone e scaricano i costi delle proprie concentrazioni su lavoratori e lavoratrici. 3. Il lavoro tra vecchio e nuovo sfruttamento. 3.1 Basta precarietà A partire dagli accordi di concertazione degli anni 90 fino alla cancellazione dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori nel 2012 e ancora con il Jobs act nel 2014, precarietà, ricatto, riduzione dei diritti e bassi salari hanno completamente trasformato il mondo del lavoro. La crisi sanitaria ha peggiorato queste dinamiche, lasciando centinaia di migliaia di persone, in larghissima parte donne, senza lavoro e ammortizzatori. Nel 2020 sono infatti andati perduti quasi 1 milione di posti, in particolare in servizi, cura, pulizie, commercio, turismo, arte e spettacolo. La ripresa c’è stata, in parte, ma tutta con lavoro precario (97%), anche nel settore pubblico. Questa crescente precarietà cristallizza i divari, in particolare tra uomini e donne, tra Nord e Sud, alimenta ingiustizie e rende tutte/i più ricattabili. Si è determinato un abbassamento complessivo di salari, diritti e sicurezza, con condizioni di iper-sfruttamento in alcuni settori tradizionali, come logistica e lavoro agricolo, ma anche in quelli più innovativi come la gig economy. Tale dinamica deve essere radicalmente messa in discussione limitando per legge e nei contratti nazionali l'utilizzo dei contratti a termine (solo per picchi di produzione, sostituzioni, stagionalità). Bisogna riunire la complessità dei lavori, tornando a riunificare contratti e salari, con un’iniziativa sindacale determinata e persistente. Il lavoro a tempo indeterminato deve tornare a essere la regola. La Cgil deve rilanciare una campagna di mobilitazione per l'abrogazione del Jobs act, di tutte le precedenti leggi sulla precarietà e per la riconquista dell'art.18: iniziativa che è invece stata derubricata dalla nostra agenda, insieme alla raccolta firme sulla Carta dei diritti del 2015. Dobbiamo garantire le stabilizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici precarie, sia nel pubblico che nel privato, impedire l'esternalizzazione di rami d'azienda, riassorbire appalti e esternalizzazioni nei servizi pubblici, rafforzare la clausola sociale, vietare lo staff leasing e l'uso improprio del lavoro para-subordinato e delle partite IVA, riconducendo al lavoro dipendente i rapporti di lavoro fittiziamente autonomi. Occorre rivendicare una politica occupazionale attiva gestita da servizi pubblici e che non divenga occasione di sviluppo di nuovi mercati e profitti. Contestualmente, va sviluppata una politica occupazionale e di investimenti per il Sud, un piano straordinario in grado di azzerare le disparità infrastrutturali, annullare le differenze nei servizi sociali, sviluppare lavoro e occupazione. Un intervento pubblico che sia anche contro le mafie e le loro politiche di sottosviluppo, che segni nel contempo una svolta rispetto alle prassi clientelari che hanno caratterizzato storicamente l’alleanza tra le classi dominanti del territorio e quelle nazionali. Aree condannate altrimenti a ulteriore impoverimento, anche a causa della ondata migratoria, soprattutto giovanile, degli ultimi anni. Si deve rompere con le politiche ghettizzanti, rivolte a donne e giovani. Bisogna cambiare prospettiva e rafforzare per tutti/e, uomini e donne, i congedi parentali e il sistema pubblico di cura, in particolare per l'infanzia e la non autosufficienza, investendo finalmente in una grande campagna di assunzioni nei servizi pubblici. In particolare, per i giovani, vanno pensate misure specifiche, a partire dal contrasto a ogni forma di lavoro gratuito o sottopagato, imposto oggi come regola di ingresso nel mondo del lavoro (dall'alternanza scuola-lavoro a stage, tirocini e finto apprendistato). Al tempo stesso, deve essere radicalmente rivisto il sistema degli ammortizzatori sociali, delle indennità di disoccupazione e del sostegno alla povertà. Nessuno deve essere lasciato senza lavoro e senza reddito. La cassa integrazione deve aumentare il proprio importo e essere estesa universalmente a tutti i lavoratori e le

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 5 lavoratrici, attraverso un maggior contributo a carico delle imprese. L’indennità di disoccupazione deve essere sostenuta dallo Stato, aperta a chiunque cerchi lavoro senza vincoli di età o condizione, mantenuta costante nel tempo, accompagnata con politiche attive di formazione e qualificazione senza obblighi che spingano ad accettare impieghi squalificati o sottopagati. Al di là di ciò, a carico della fiscalità generale ci deve essere uno strumento universale di contrasto alla povertà, cioè un reddito di base, senza vincoli, che comprenda, oltre al sostegno economico, politiche di inclusione e sostegno sociale. 3.2 Tuteliamo il nuovo lavoro Bisogna regolare le nuove forme di lavoro. I cambiamenti vanno accompagnati, anzi anticipati, senza però mai perdere di vista tutele e diritti: troppo spesso l'innovazione si è tradotta in “nuovo lavoro con vecchio sfruttamento”, a volte anche più invasivo a causa del digitale, che può rendere meno controllabile la prestazione, l'orario e l'organizzazione del lavoro. Questo sta avvenendo anche nei settori più tradizionali: in fabbrica o nella logistica con la digitalizzazione di linee e mansioni; nei lavori impiegatizi e pubblici con le diverse forme di lavoro agile o da remoto (smartworking). Tali processi, in particolare lo smartworking, sono stati accelerati dalla crisi e sono esplosi durante la pandemia, in un'ottica emergenziale. Ora si stanno strutturando in molti settori. Le nuove modalità e forme di lavoro, oggi consentite dalla tecnologia, da infrastrutture digitali diffuse e dall’uso di massa, potrebbero essere occasione per i lavoratori e le lavoratrici di riduzione della fatica, maggiore autonomia, autogestione di tempi e prassi lavorative, riduzione di orario, conquista di spazi di vita. In generale, potrebbero essere una occasione di riduzione del traffico, dell’inquinamento e di diversa gestione dei tempi e degli spazi delle città. Finiscono, però, molto più spesso, per essere terreno di diminuzione dell’occupazione, esternalizzazioni, perdita di salario, individualizzazione del rapporto di lavoro e rischio di isolamento, allargamento a dismisura di reperibilità sui tempi aziendali, moltiplicazione del controllo (anche tecnologico) sulla prestazione, uso padronale dei tempi di vita. Per tanti/e, in particolare per le donne, l’uso massivo dello smartworking nell’emergenza ha avuto queste caratteristiche. Per molte imprese e anche servizi pubblici è stata invece una occasione di riduzione strutturale dei costi e incremento dello sfruttamento. Queste diverse modalità e forme di lavoro devono essere pienamente contrattate, sia nel pubblico che nel privato, garantendo occupazione, tutele, diritti e salari. Il lavoro agile e da remoto (smartworking) deve essere una scelta libera e reversibile, i costi di connessione, di illuminazione e di riscaldamento non devono ricadere sui lavoratori e sulle lavoratrici, devono essere confermate (o sostituite) tutte le forme di indennità e salario accessorio, garantite le norme di sicurezza, gli spazi e l'ergonomia delle postazione, tutelati i diritti sindacali e contrastato il rischio di isolamento, garantiti precisi limiti ai tempi di lavoro e reso esigibile il diritto alle disconnessione. In generale, l’incremento di produttività e i minori costi collegati alle applicazioni di tecnologie informatiche e digitali devono essere immediatamente tradotti in aumento della qualità del lavoro, riduzione dell’orario e quindi aumento dell'occupazione. L'innovazione digitale sta determinando anche un controllo sempre più invasivo sui lavoratori e sulle lavoratrici. I big data, raccolti all’interno e all’esterno dei processi di lavoro, consentono ai datori di lavoro una conoscenza pervasiva e incontrollata di abitudini, stato di salute, esigenze economiche, legami sociali, idee politiche di chi lavora o cerca lavoro, alimentando nuove discriminazioni e perpetrando quelle di sempre, compresa quella di genere. La Cgil deve essere parte attiva di questa discussione e lanciare una campagna informativa e di mobilitazione affinché il tema sia regolato da norme specifiche, a tutela della privacy, ma ancora prima contro ogni discriminazione, controllo e limitazione della libertà, individuale e sindacale. 3.3 Una legge contro licenziamenti e delocalizzazioni Deve essere rivendicata una vera legge contro le delocalizzazioni. Lo sblocco dei licenziamenti a luglio 2021 è stata una resa senza condizioni, subìta con la firma su una “presa d’atto”, che ratificava un impegno generico e non vincolante delle imprese, in cambio della promessa mai mantenuta di una riforma sugli ammortizzatori e senza un piano per i settori a rischio, come l’automotive. Sono decine le aziende che

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 6 hanno chiuso e trasferito la produzione all’estero, dopo aver preso milioni di euro dai governi. È esemplare la vertenza delle acciaierie di Piombino, dove da 8 anni i lavoratori aspettano un piano industriale, mentre si avvicendano compratori stranieri che promettono, speculano e poi abbandonano il sito. Oltre ai casi più noti di grandi imprese come Termini Imerese, Alitalia e Almaviva, sono centinaia di migliaia i lavoratori e le lavoratrici abbandonati nel silenzio, con l'unica prospettiva fallimentare della cassa integrazione. La legge approvata dal governo nell'autunno scorso non è la soluzione. Non vincola né punisce le aziende che delocalizzano dopo aver ricevuto sovvenzioni, invece formalizza le procedure, stabilendo i tempi e monetizzando i licenziamenti. Rende cioè le delocalizzazioni più facili e certe per le imprese. Sulle delocalizzazioni esiste una proposta, scritta da vari giuristi democratici la scorsa estate durante l'occupazione di GKN, che prevede l'annullamento dei licenziamenti e in caso di cessione dello stabilimento il diritto alla prelazione da parte di una cooperativa di lavoratori e lavoratrici, sostenuta da forme di nazionalizzazione, a partire dai settori in crisi e da quelli strategici. Questa proposta deve essere sostenuta dall'intera Cgil e deve diventare volano di una grande campagna di mobilitazione contro licenziamenti e delocalizzazioni, costruendo le condizioni di forza per rivendicare l'intervento pubblico e le nazionalizzazioni senza indennizzo, in cui lavoratori e lavoratrici divengano protagonisti di un nuovo controllo dei processi di produzione. Per questo bisogna tornare a una pratica conflittuale e di lotta che costruisca mobilitazioni diffuse, alimentando convergenza e solidarietà. Nessuno si salva da solo: per difendere le aziende in crisi, bisogna mobilitare l'intero territorio e il settore coinvolto, modificando i rapporti di forza, anche attraverso i legami di solidarietà. 4. La contrattazione: salario, orario e sicurezza sul lavoro 4.1 Aumentiamo i salari, cancelliamo l'IPCA, conquistiamo una nuova scala mobile L'Italia è l'unico paese in Europa dove, negli ultimi 30 anni, i salari reali non sono aumentati e dove si guadagna meno che nel 1990. Gli stipendi sono stati prima moderati dalla concertazione, poi bloccati da provvedimenti legislativi, infine erosi dalla crisi dell’ultimo decennio. Ma soprattutto pesa l’offensiva padronale: la durata dei contratti nazionali è stata allungata, sono moltissimi quelli che non vengono rinnovati alla scadenza con ritardi clamorosi. È stato da tempo smantellato ogni meccanismo automatico di rivalutazione (scala mobile), sono state depotenziate quasi tutte le progressioni economiche come gli scatti di anzianità (eliminati nella scuola e fermi da anni in molti settori privati). Inoltre, sono state inserite negli aumenti componenti non monetarie (welfare e benefits) e sono aumentate le parti variabili e aleatorie, anche tramite la detassazione. Questa condizione, che da sempre pesa in modo maggiore sulle donne, è stata aggravata dalla pandemia e dalla successiva ripresa con il ritorno dell’inflazione, destinata a crescere nei prossimi mesi a causa della guerra e della speculazione su energia e materie prime. Una situazione intollerabile che pesa in particolare sui redditi più bassi, soprattutto dei precari, ma in generale del lavoro dipendente e dei pensionati/e, anche a causa delle basse rivalutazioni degli stipendi e delle pensioni negli ultimi anni. Tre famiglie su quattro stanno riducendo anche le spese per mangiare e curarsi. Quattro milioni di persone non riescono a pagare le bollette. Tale impoverimento è frutto anche dell’abbandono da parte del sindacato di politiche rivendicative e conflittuali nei rinnovi contrattuali, sia pubblici che privati, con l’accettazione dei vincoli imposti dalle imprese, come il Patto per la Fabbrica del 2018, l'IPCA (indice inflattivo depurato proprio dall'aumento dei costi dell'energia) e la possibilità di derogare in senso peggiorativo i contratti nazionali e le leggi (art.8 legge 138/2011). Anche gli aumenti contrattuali “a 3 cifre” sono ben poca cosa rispetto alla crescita dell’inflazione che si profila. È il caso del contratto dei metalmeccanici, dove l’aumento superiore a 100 euro, scambiato nella primavera del 2021 con un allungamento della durata e una rischiosa riforma dell’inquadramento professionale, ha finito per essere risucchiato dall’inflazione successiva, peraltro su importi erogati ex post, quindi con un anno di ritardo rispetto all’aumento reale dei prezzi. Al tempo stesso, il fatto di non aver contrastato adeguatamente il proliferare della precarietà e le catene di subappalti ha determinato una giungla contrattuale, che alimenta la competizione anche all'interno dello

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 7 stesso sito di lavoro, con effetti negativi per tutti/e, sia salariali che di sicurezza. Negli ultimi anni, a fronte di scarsi aumenti nei contratti nazionali, il sindacato ha preferito seguire altre due strade, entrambe fallimentari. Innanzitutto si è accodato alla generale richiesta al governo di riduzione delle tasse, alimentando l'illusione di un salario netto superiore in busta paga, ma a costo di un’erosione delle entrate e conseguenti tagli allo Stato Sociale. In secondo luogo, ha accettato di rimandare parte degli aumenti al secondo livello della contrattazione, quello aziendale, meno diffuso proprio dove i salari sono generalmente più bassi, cioè nelle piccole imprese, al Sud e nei settori ad occupazione prevalentemente femminile. Questo ha avuto l'effetto di incrementare i differenziali salariali complessivi, sia territoriali che di genere, ma anche di aumentare le differenze tra i settori e tra le diverse dimensioni di impresa. Inoltre ha rinforzato una logica fondata su indicatori variabili e incerti, legati alla produttività, alla presenza e alla “meritocrazia”, che rischia di divenire, anche nel settore pubblico, strumento arbitrario di controllo e divisione della forza lavoro. Mantenere i salari nazionali bassi e pensare di recuperare la produttività al secondo livello ha anche un altro rischio, assai insidioso: quello di consegnare direttamente alle aziende il potere salariale, attraverso superminimi individuali, straordinario o elargizioni collettive unilaterali, distribuite paternalisticamente come regalie. Al tempo stesso, si è affermata la pratica del welfare contrattuale, in particolare i fondi sanitari e pensionistici, persino nel settore pubblico. Tutto ciò è stato utilizzato per rendere meno evidente l'abbassamento complessivo dei salari, ma ha alimentato indirettamente la sanità privata e reso più povere le pensioni per effetto dei minori contributi versati. È ora di cambiare radicalmente questa linea, di riprendere una politica di lotta, di rifiutare la moderazione salariale, di rivendicare aumenti più alti dei minimi contrattuali anche con piattaforme separate se necessario e di mettere in discussione, nel privato, i vincoli dettati dalle imprese, a partire dall’IPCA; nel pubblico, il Patto per l'Innovazione di Brunetta e le leggi che limitano il diritto di sciopero nei cosiddetti servizi essenziali. Il contratto nazionale deve tornare a essere uno strumento universale e solidaristico di crescita del salario per tutte/i. Bisogna rivendicare aumenti fissi e certi e pretendere la riforma della rappresentanza, impedire i contratti pirata e la competizione sleale negli appalti. Nel settore pubblico, dobbiamo tornare alla piena contrattualizzazione superando i vincoli imposti dal decreto 165/2001. Un deterrente importante allo sfruttamento può essere un salario minimo che determini una paga oraria certa, dignitosa e sotto la quale nessun lavoro possa essere svolto, a patto che non sia un modo per aggirare le condizioni normative dei contratti nazionali, ma invece lo strumento per tutelare le retribuzioni dal dumping contrattuale di alcuni settori e il volano per rafforzare la contrattazione in senso generale, spingendo verso l’alto le retribuzioni di tutti/e. Infine occorre ripensare a una nuova scala mobile, cioè un meccanismo di recupero automatico dell'inflazione. La Cgil deve mettere questa rivendicazione al centro della sua strategia: per rafforzare la contrattazione nazionale, serve oggi più che mai un meccanismo che all’aumento dei prezzi faccia seguire un aumento automatico dei salari, come era la scala mobile che ci è stata tolta 30 anni fa. 4.2 Lavorare meno, lavorare tutte/i! È ora anche di riprendere il controllo dei tempi e degli orari di lavoro nei contratti nazionali, perché, dopo 30 anni, non soltanto si guadagna di meno, ma si lavora di più e peggio. La moderazione salariale ha dato alle imprese la possibilità di aumentare lo sfruttamento, utilizzando la leva della precarietà e dei bassi salari per imporre a tutti/e un maggior controllo di orario, ritmi e carichi di lavoro più elevati, con ricadute anche sulla sicurezza e la salute di chi lavora. Nel privato, soprattutto nella produzione manifatturiera, questo ha corrisposto a un aumento dello straordinario, dei ritmi e della flessibilità imposta. Nei servizi, ha preso la forma di una pericolosa destrutturazione dell'orario, con part time in larghissima parte imposti, soprattutto alle donne, e di conseguenza salari ancora più bassi, scarsissimo controllo dell'orario e lo sdoganamento di turni spezzati, domenicali e festivi. Nei servizi pubblici, questo ha significato il pieno controllo delle direzioni su lavoro, flessibilità e performance, agevolato dal cedimento sindacale rispetto a quegli istituti contrattuali che consentivano di contrattare orari e organizzazione. I lavoratori e le lavoratrici devono recuperare il controllo della prestazione e dell'orario di lavoro, tornare a

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 8 contrattare l’organizzazione del lavoro e rivendicare la riduzione generalizzata dell’orario a parità di salario: “lavorare meno per lavorare tutti/e”, redistribuire cioè il lavoro esistente, aumentandolo dove non c’è o è poco, riducendolo dove è troppo. Va costruita una vertenza generalizzata per contrastare la flessibilità e l'aumento delle disponibilità aziendali, il lavoro domenicale e festivo, i part time involontari e i turni spezzati. Bisogna regolare in modo chiaro, universale ed esigibile il diritto alla disconnessione nelle nuove forme di lavoro. Va demistificata la narrazione secondo cui part time, flessibilità e smartworking servono alla conciliazione vita-lavoro, in particolare delle donne, perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di decisioni unilaterali e comunque gestite dai datori di lavoro, che non corrispondono affatto a una liberazione, ma anzi a un maggior ricatto e di conseguenza a una maggiore disponibilità ad accettare le necessità dell’impresa, con effetti anche sulla carriera e, nel caso del part time imposto, sul salario e sulle future pensioni. L'obiettivo della conciliazione vita-lavoro per tutte e tutti va ricercato, oltre che diffondendo una cultura di maggiore condivisione della cura tra uomini e donne, rivendicando servizi pubblici diffusi, gratuiti e di migliore qualità, in particolare per l'infanzia e la non autosufficienza, in modo da liberare chi lavora di una parte dei propri compiti di cura, senza che questo ricada su salari e condizioni di lavoro. 4.3 Difendiamo la sicurezza. Mai più morti sul lavoro! Un deciso cambio di passo è ancora più urgente sulla sicurezza. Lo impone la vergognosa media di tre morti al giorno sul lavoro, in aumento, come il numero di infortuni e malattie professionali. Ancora più inaccettabili sono i casi avvenuti nei mesi scorsi di ragazzi giovanissimi morti in alternanza scuola-lavoro o tirocinio. Tutto ciò è la misura dell’assoluto disinteresse, in nome del profitto, verso salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, un dato emerso in modo feroce nella gestione della crisi sanitaria. Prima che si arrivasse a imporre le norme contro il contagio, nei posti di lavoro è accaduto di tutto: persino supermercati e RSA che vietavano l'uso delle mascherine per non spaventare clienti e utenti, fino alle pressioni esercitate da decine di migliaia di imprese non essenziali per ottenere le deroghe dalle prefetture e aggirare il lockdown dopo il 22 marzo 2020. Nemmeno il sacrificio di centinaia di operatori e operatrici sanitarie che hanno perso la vita nel 2020 è servito a imporre una nuova cultura della sicurezza. Dopo la crisi sanitaria, si è tornati alla «normalità», con un nuovo arretramento, dovuto alle maggiori condizioni di precarietà, alla strutturale mancanza di risorse e al mancato investimento sugli enti di sorveglianza, sovraccaricati per due anni anche dai compiti di controllo delle norme Covid. Sui temi legati alla sicurezza è necessario promuovere con radicalità una mobilitazione permanente, fino allo sciopero generale, rifiutando ogni compromesso e ogni monetizzazione di salute e sicurezza. La Cgil deve mobilitarsi, scioperare e costituirsi parte civile per ogni morte sul lavoro, pretendere pene certe e più severe, garantire che ogni lavoratore e lavoratrice, delegato/a, RLS possa denunciare condizioni di rischio senza ritorsioni. Vanno maggiormente istituzionalizzati e coperti da ulteriori titolarità e autonomia gli RLS, anche attraverso l'aumento del monte ore previsto dalle norme vigenti. Ovunque va pretesa, come previsto dalla legge, la consegna del DVR (documento di valutazione dei rischi). Soprattutto si devono pretendere investimenti sui controlli ispettivi, più risorse e più personale per verificare le condizioni di lavoro e il rispetto delle norme di sicurezza. Sugli appalti, oltre a contrastare la precarietà e le disarticolazioni contrattuali, va difesa e implementata la clausola sociale. Va rilanciata una grande campagna per introdurre il reato di omicidio sul lavoro e definita l’istituzione di una Procura nazionale per la sicurezza. Bisogna diffondere la consapevolezza che queste morti non sono incidenti dovuti al caso o alla distrazione. Sono eventi determinati solo in parte da poca formazione, ma soprattutto dal mancato rispetto delle norme, dall'aumento degli orari e dei ritmi, dell'età media di permanenza al lavoro, oltre che dalle condizioni di ricatto, dalla precarietà, dagli appalti e dalla manomissione degli impianti. È necessario su questo recuperare anche un punto di vista di genere, che ponga in modo specifico il tema della salute e della sicurezza delle donne, comprese le molestie sui posti di lavoro (che vanno introdotte come rischio nei DVR), la diversa esposizione e protezione dai rischi, il rapporto tra salute riproduttiva e

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 9 organizzazione del lavoro (in particolare lavoro notturno, turni di sabato e domenica, movimenti ripetitivi e catena di montaggio). 5. Il sistema pensionistico peggiore d'Europa Il sistema pensionistico universale fu conquistato tra il ‘67 e il ‘69 in un contesto di grandi lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Negli ultimi 30 anni, ogni governo ha attaccato quelle conquiste, secondo una strategia internazionale che ridotto il cosiddetto primo pilastro (la pensione pubblica), sviluppando quello privato, in mano al mercato e alla finanza (i fondi di categoria e la previdenza integrativa). Il processo è iniziato nel 1994, quando fu alzata l’età pensionabile, fu eliminato il riconoscimento del lavoro di cura per le donne, furono ridotti i rendimenti attraverso il sistema contributivo e favoriti i fondi privati. Le norme di salvaguardia per i lavoratori e le lavoratrici con almeno 18 anni di contributi sancirono la prima grande divisione tra generazioni. Il colpo di grazia lo ha dato la legge Fornero, che, con gli attuali 67 anni e l’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita, ha reso la previdenza italiana la peggiore in Europa. I costi di questa controriforma saranno sempre più evidenti nei prossimi anni, con pensioni che, oltre a essere già le più tassate in Europa, in prospettiva saranno sempre più povere a causa dei coefficienti di trasformazione bassi e dei pochi contributi versati, a causa di un mercato del lavoro in cui i giovani e i precari faticano a entrare. Durante il primo governo Conte, il meccanismo di quota 100 è stato un intervento parziale, provvisorio e illusorio. Ha favorito l’uscita solo di alcuni settori (62 anni di età e 38 di contributi) e congelato l’adeguamento alla speranza di vita per la pensione anticipata (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 e 10 per le donne). Nel gennaio 2022, quota 100 è stata sostituita con quota 102 (64 anni e 38 di contributi) e molto probabilmente con quota 104 nel 2023. Così, il problema dell’età pensionabile e delle basse pensioni rimane senza alcuna soluzione. La Cgil ha perso l’ennesima occasione per proporre una riforma generale delle pensioni, capace di tutelare in particolare il lavoro povero e discontinuo. Lo sciopero del 16 dicembre è stato tardivo: quota 102 era già stata decisa, senza opposizione sindacale, con la promessa di un tavolo per il 2023. Un tavolo che è e rimarrà una illusione. Si arriverà alla prossima scadenza senza nessuna risposta. La verità è che sulle pensioni i governi hanno sempre fatto cassa, mettendo strumentalmente i giovani contro gli anziani, mentre in realtà hanno privato le generazioni dopo il 1995 di una prospettiva previdenziale dignitosa. Nemmeno sui lavori usuranti e gravosi si è mai trovata una soluzione. Non c’è nessuno che non sia consapevole di questo. Ma in questi decenni Cgil Cisl e Uil non si sono opposte davvero, basti pensare alle sole 3 ore di sciopero nel 2012 contro l’approvazione della Fornero. Non abbiamo neppure ricercato una soluzione di compromesso nell’ambito del sistema contributivo, ad esempio l’innalzamento dei coefficienti di trasformazione per i salari più bassi, per evitare l’esito di tassi di sostituzione che impoveriscano drasticamente i nuovi pensionati. Chi guadagna 1000 euro non può avere un tasso di sostituzione del 60%, ma deve ritrovare una pensione in linea con gli ultimi stipendi. Si è smesso di pretendere i 60 anni di vecchiaia o i 40 di anzianità, di rivendicare il sistema retributivo, assumendo noi stessi il punto di vista del padrone, cioè che non è possibile. Non è vero. Quello che non è possibile e non è giusto è continuare a lavorare fino a 67 anni e oltre. Quello che non è possibile è ritrovarsi in pensione con poco più di metà del proprio stipendio. Le risorse per banche, imprese, mercati finanziari e spese militari si trovano sempre. Non si trovano mai per le pensioni perché non lo pretendiamo più. La Cgil deve rompere la logica delle compatibilità. Bisogna abrogare la legge Fornero e ogni meccanismo automatico di allungamento dell’età lavorativa. Bisogna ridurre l’età pensionabile, tornare al sistema retributivo, anticipare l’uscita di chi svolge lavori gravosi e usuranti, di chi ha cominciato molto presto a lavorare e di chi svolge anche il lavoro di cura. Bisogna difendere il sistema a ripartizione e separare la previdenza dall’assistenza, respingere ogni forma di decontribuzione. Bisogna rivendicare meccanismi automatici di indicizzazione, per mantenerne costante il potere d’acquisto. Occorre aumentare le pensioni minime con riferimento ai contributi versati e aumentare le pensioni di chi ha le retribuzioni più basse. In particolare, va difesa la condizione delle donne, sia delle attuali pensionate (generalmente più povere), sia di quelle future, senza meccanismi penalizzanti, come è stata Opzione donna. Bisogna rivendicare l’integrazione contributiva e retributiva dei periodi di maternità e i congedi parentali.

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 10 È ora di costruire una grande mobilitazione su questo e pretendere con le lotte quello che ci hanno tolto in questi decenni senza un contrasto sindacale efficace. 6. Diritti e servizi sociali universali. 6.1 Riforma del fisco a partire dalla patrimoniale Lo Stato Sociale, conquistato nel dopoguerra a partire dalle rivendicazioni e dalle lotte del lavoro, permette l’effettivo riconoscimento di diritti universali (salute, istruzione, mobilità, accesso a servizi di base, sostegno sociale). Di fatto, questi servizi rappresentano una componente del salario globale, che integra gli stipendi e deve esser a carico di chi possiede la ricchezza del paese. Così, oggi, non è. Il sistema fiscale è storicamente iniquo e incrementa le disuguaglianze, drenando le risorse dal Lavoro al Capitale. Ad esempio, dal 2008 ad oggi le entrate dalla tassazione sulle persone sono aumentate (Irpef locale +40%, Imu-Tasi +91%), quelle sul Capitale sono diminuite (IRES -35%, IRAP -44%, rendite finanziarie -36%). I recenti interventi del governo Draghi hanno aumentato questa forbice. Da tempo, la Cgil afferma che questo è uno dei principali problemi del paese. Queste parole non si sono però tradotte in pratica vertenziale, a volte perseguendo soluzioni persino sbagliate, come per la defiscalizzazione di straordinari, welfare aziendale e salario accessorio. La Cgil deve organizzare una mobilitazione contro il fiscal compact (il patto di bilancio europeo che costringe i Governi europei a ridurre la spesa sociale) e i Trattati che impongono austerità, per abrogare l’obbligo di pareggio di bilancio dalle Costituzioni, per l’annullamento del debito, per costruire vertenze e coordinamenti europei. In questo quadro, è importante rivendicare una tassazione fortemente progressiva, con una drastica riduzione delle aliquote su dipendenti e pensionati/e, contro ogni proposta di flax tax (cioè un’unica bassa aliquota sul reddito delle persone fisiche invece delle attuali quattro, a seconda del livello di reddito). Al tempo stesso, va rivendicata la riduzione delle imposte indirette (cioè quelle legate alla spesa, che quindi pagano tutti, come l’IVA), l’introduzione di forti tassazioni sulle rendite e i movimenti di capitali, una patrimoniale sui grandi patrimoni, un serio contrasto all’evasione e elusione fiscale 6.2 La sanità deve essere pubblica, gratuita e di qualità L’emergenza sanitaria ha avuto un impatto drammatico sui servizi pubblici, a partire dalla sanità, già sotto organico e massacrata da decenni di tagli, privatizzazioni e regionalizzazioni. La retorica degli “angeli della corsia” ha nascosto una scomoda verità: gli “eroi” hanno stipendi molto al di sotto della media europea, turni oltre il limite della sopportazione psicofisica e sono stati mandati in trincea nel più completo caos gestionale e senza tutele per la salute. Decenni di tagli (37 mld tra 2010 e 2020) hanno ridotto la sanità pubblica a un colabrodo. La tragedia del 2020 non è stata una fatalità, ma la conseguenza dell’aver smantellato la sanità pubblica e favorito quella privata. La lotta al Covid ha gravato sulle spalle del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), mentre i privati hanno continuato a fare profitti con le prestazioni non urgenti. Dalla pandemia, governo e istituzioni non hanno imparato nulla e continuano a perseguire le stesse politiche: appena l’emergenza sanitaria si è affievolita, sono tornati all’attacco e, mentre, da un lato, hanno trovato senza difficoltà altri 13 miliardi per le spese militari, dall’altro, hanno ridotto ulteriormente la spesa sanitaria. Lavoratori e lavoratrici della sanità assunti con contratti precari per far fronte all’emergenza sono stati mandati a casa. I pronto-soccorso, una volta tornati alla fase pre-pandemica, sono rientrati nel caos per la carenza di personale medico e infermieristico. Il governo Draghi ha stabilito un taglio della spesa sanitaria nel triennio 2023-25 di tasso medio annuo dello 0,6%. Il rapporto tra spesa sanitaria e Pil passerà al 6,2% nel 2025, uno tra i più bassi dei paesi Ocse. Un business per gruppi privati dal momento che il SSN non sarà in grado di garantire la prevenzione, la cura, il diritto alla salute di tutti/e. Già ora, milioni di persone rinunciano alle cure, a visite specialistiche e di prevenzione a causa delle lunghe liste di attesa o per ragioni di carattere economico. È necessario un significativo aumento dei fondi destinati al SSN a partire dalla restituzione immediata delle decine di miliardi tagliati; la percentuale del Pil destinata alla sanità deve essere raddoppiata. Le strutture sanitarie private convenzionate, tipiche del modello Lombardia, sottraggono fondi al pubblico; i servizi resi da quelle strutture devono essere ripubblicizzati e chi ci lavora deve essere riassorbito dal SSN.

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 11 È necessario un piano straordinario di assunzioni in sanità, a partire dal reclutamento immediato di almeno 100mila professionisti sanitari e medici e la stabilizzazione di tutti i precari/e. I loro salari, tra i più bassi in Europa, devono aumentare. Va contrastata la precarietà di migliaia di operatori e operatrici del settore, che, a causa dei processi di aziendalizzazione e privatizzazione, hanno condizioni di maggiore sfruttamento: a parità di lavoro devono corrispondere le stesse condizioni normative e lo stesso salario. Per rilanciare la prevenzione bisogna sviluppare la rete sanitaria territoriale, compresa quella non ospedaliera, investendo sull’assistenza domiciliare, i medici di base, la riabilitazione e tutti i servizi specialistici, la gestione delle patologie croniche e delle dipendenze, le case della salute. La pandemia ha ulteriormente dimostrato che è fondamentale investire sulla ricerca sanitaria pubblica, che non può essere precaria. La ricerca sanitaria italiana si regge, invece, sul lavoro precario di lunghissima durata. I ricercatori e le ricercatrici devono essere stabilizzati. La Cgil deve schierarsi per la sospensione dei brevetti nella ricerca scientifica e sanitaria, come strumento non soltanto di equità ma di salute pubblica globale. La tutela della salute non può essere subordinata alla protezione della proprietà intellettuale, tanto più quando i brevetti sono frutto di una ricerca sovvenzionata dai sistemi pubblici. La salute non può avere confini, tanto meno può diventare motivo di business per le grandi multinazionali farmaceutiche. 6.3 No alla sanità integrativa La difficoltà della sanità pubblica di rispondere ai bisogni delle persone ha spalancato la strada alle privatizzazioni e alla sanità integrativa. Non è la mancanza di risorse economiche a determinare questo processo, ma una strategia per consentire a grandi gruppi economici di lucrare sulla pelle delle persone. La sanità integrativa regge solo se a usufruirne sono in pochi. Ha come primo obiettivo il profitto e non la salute delle persone. Non integra la sanità pubblica ma al contrario la sostituisce e indebolisce. Tra l’altro, la crescita delle prestazioni manda in crisi i fondi stessi come nel caso di Metasalute (il fondo contrattuale dei metalmeccanici), che, dopo anni di respingimenti pretestuosi e disservizi, ha quasi rischiato il default, scaricandone poi i costi sugli aderenti, attraverso l’introduzione di ticket. La Cgil deve disdettare la sanità integrativa nei contratti nazionali. 6.4 No a ogni autonomia differenziata La pandemia ha messo ulteriormente in luce gli effetti nefasti della regionalizzazione, della differenziazione dei servizi sanitari e della loro qualità su base territoriale. La regionalizzazione è stata una delle ragioni dell’inefficienza della campagna vaccinale. Ciononostante, molte Regioni, in testa Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, hanno continuato a chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata. L’autonomia differenziata sarà un disastro, aumenterà i danni della regionalizzazione già determinati dalla modifica del Titolo V della Costituzione e il già enorme divario tra Nord e Sud del paese. Ciascuna Regione gestirà in proprio parte delle risorse in competizione con le altre, le persone avranno diritti e servizi diversi a seconda del territorio in cui risiedono. La sanità verrà ulteriormente indebolita, la scuola perderà la propria unicità e unitarietà, lo stesso contratto nazionale sarà rimesso in causa, mentre si svilupperanno nuove privatizzazioni e un ulteriore aumento delle diseguaglianze. Questo iniquo progetto di divisione del paese va fermato e la Cgil deve mettere in atto una decisa opposizione all’autonomia differenziata, in ogni sua forma. 6.4 Per un’assistenza pubblica e universale Da anni si assiste all'aumento progressivo di persone anziane non autosufficienti e/o disabili, a cui non corrisponde un adeguato incremento dei finanziamenti necessari all’assistenza sanitaria. Durante la pandemia, tanti decessi tra anziani/e e personale di Rsa, Case di Riposo, Aziende di Servizi alla Persona (Asp) e cooperative sociali si sarebbero evitati se diverse Regioni non avessero preso la decisione scellerata di trasferire i malati di Covid non più ospedalizzati nelle Rsa e se, in generale, ci fosse stato un vero piano di emergenza e degli investimenti pubblici sui servizi. La rete di assistenza domiciliare alla persona deve garantire, se richiesta, la permanenza della persona non autosufficiente all’interno del proprio domicilio. L’accesso ai servizi, la presa in cura del soggetto, la definizione di percorsi personalizzati devono mantenersi rigorosamente di competenza del servizio

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