 
          [8]
        
        
          
            cultura · affabulazioni
          
        
        
          È un neologismo affabulatio - onis: la morale
        
        
          della favola; una persuasione improntata su
        
        
          un impegno stilistico alto.
        
        
          Pervade la visione Rinascimentale dell’uomo
        
        
          fautore del proprio destino, poi con le inquie-
        
        
          tudini barocche di malinconiche sofferenze,
        
        
          arriva alle liriche colte in cui il narrare si fa elo-
        
        
          quente in seducenti artifici.
        
        
          Le parole affabulate sono al servizio dell’im-
        
        
          maginazione, illuminano e creano nuovi sce-
        
        
          nari completandosi con la gestualità.
        
        
          È cultura: arte, conoscenza e scienza, fisica e
        
        
          metafisica, materia e spirito, essere ed apparire.
        
        
          È comunicazione che favorisce la crescita, la
        
        
          diffusione e la fruizione del bello che ricerca
        
        
          l’immaginazione e recupera la dimensione del
        
        
          fantastico: il sogno; la favola; la magia; il mi-
        
        
          stico.
        
        
          Allora si puo’ decidere di aderire all’estetica,
        
        
          necessaria per affascinare e persuadere, o
        
        
          andare al teatro cercando la verità delle illu-
        
        
          sioni.
        
        
          E poi  esternare, poetare, dire e maledire, in-
        
        
          vocare, minacciare o inneggiare. Costellazioni
        
        
          di pensieri in forme di aforismi.
        
        
          Leggeremo di pittori clandestini.
        
        
          Filologi severi ed esercitati.
        
        
          Complessi di memorie.
        
        
          Transiti di passioni umane…che poi è la vita.
        
        
          Tutto questo è affabulazioni; uno strumento
        
        
          che nobilita il senso individuale contribuendo
        
        
          alla dimensione plurale dell’esistenza.
        
        
          È il piacere di leggere, il formulare pensieri sul
        
        
          mondo che si vive e su quello che ancora si
        
        
          desidera.
        
        
          È cum-sentire grandioso e fantastico della re-
        
        
          lazione; in altri modi, con altri mezzi.
        
        
          Una bifora, un antico portone con monogram-
        
        
          ma del santo, un simbolo, una pietra.
        
        
          Trattenere un pensiero o trarlo da un profondo
        
        
          recesso conmeraviglia, brivido e smarrimento.
        
        
          Cosi le parole recano stampigliate l’ombra
        
        
          leggera del sospetto e l’anima liberata dalla
        
        
          speranza.
        
        
          Tutto in una libertà di fondo lontana da auto-
        
        
          compiacimento, sempre avvalendosi di sfu-
        
        
          mature etiche.
        
        
          Saper stare tra crociate o invasioni musulma-
        
        
          ne, rivoluzioni tecnologiche, poesie e verità.
        
        
          Sempre sull’orlo di qualcosa, sapendo scom-
        
        
          mettere di non poter essere più gli stessi.
        
        
          
            Le affabulazioni sono leziosaggini stilisti-
          
        
        
          
            che che allontanano dall’altro, proteggo-
          
        
        
          
            no da sé, mistificano la reale dimensione
          
        
        
          
            dell’uomo in congetture di trame illusorie
          
        
        
          
            ed ingannevoli.
          
        
        
          
            
              Di Antonella Fortuna.
            
          
        
        
          “Non riuscivo più ad arrestare la marcia; cam-
        
        
          minavo e continuavo a camminare oltre ogni
        
        
          presumibile stanchezza, aldilà degli interessi
        
        
          alla sosta”.
        
        
          Dissero gli
        
        
          
            scienziati
          
        
        
          che era una malattia, un
        
        
          disturbo della mente, e che nella neuro imma-
        
        
          gine di me, si coglievano aspetti dimensionali
        
        
          di”ritiro ed allerta” e bisogni di parossismi per
        
        
          scorrere la vita senza uno spazio di tempo per
        
        
          poterla pensare.
        
        
          Cosi e solo cosi mi sarei potuto sentire in un
        
        
          vivere d’anedonia.
        
        
          Sapevo che non era la mia verità, avevo
        
        
          già tatuato il corpo e ferito le parti interne,
        
        
          per auto-confermarmi lo schema corporeo,
        
        
          ma camminare continuava a fluire come una
        
        
          necessità impellente.
        
        
          Allora i
        
        
          
            mistici
          
        
        
          pensarono ad un allontanamen-
        
        
          to dall’etica, una confusione di nessi episte-
        
        
          mologici con lo smarrimento e la fuga.
        
        
          I clinici risposero che si trattava solo del
        
        
          bisogno di risolvere il trauma e nella resilienza
        
        
          consapevolmente camminare.
        
        
          E poi i
        
        
          
            kinesiologi
          
        
        
          con i loro meridiani scom-
        
        
          posti e le
        
        
          
            neuroscienze
          
        
        
          attente alle mie
        
        
          deafferentizzazioni, infine, i
        
        
          
            maestri invisibili
          
        
        
          con le loro auree somme che mi stordivano di
        
        
          campane tibetane.
        
        
          Basta, sono stanco, ma ancor più stanco della
        
        
          mia stanchezza, lo sono di queste parole affa-
        
        
          bulate. Nell’andare mi hanno accompagnato
        
        
          luci ed ombre, latrati di cani e bisbiglii sospet-
        
        
          tosi, porte chiuse e venditori di scarpe magi-
        
        
          che e poi miriadi di analisi sul perché stavo
        
        
          camminando e mai sul come mi sentivo…..
        
        
          Un giorno non diverso dagli altri, nell’incedere
        
        
          senza mete ne ragioni, attraversai una collina.
        
        
          Sopra vi si stagliavano una casa, un grande
        
        
          cortile, alberi in filari e molte figure umane
        
        
          immobili. Era l’ora del tramonto, lo ricordo dal
        
        
          rosso vermiglio che rifrangeva tra le zolle arate
        
        
          in distese senza ostacoli di una natura liberata.
        
        
          Tutti li, in piedi, silenziosi a guardare la vita nel
        
        
          sole che va a riposare per poi tornare ancora
        
        
          ed ancora. Avvicinandomi mi hanno guardato
        
        
          negli occhi lungamente e senza parole, cosi i
        
        
          miei piedi si sono fermati e senza alcuna affa-
        
        
          bulazione sono rimasto li.”
        
        
          Le affabulazioni sono leziosaggini stilistiche
        
        
          che allontanano dall’altro, proteggono da sé,
        
        
          mistificano la reale dimensione dell’uomo in
        
        
          congetture di trame illusorie ed ingannevoli.
        
        
          Affabulatori-moralizzatori che vivono per e con
        
        
          lo stratagemma di vendere la felicità.
        
        
          Noi scegliamo di guardare gli uomini per
        
        
          capirne desideri e timori e se poi fermandosi
        
        
          vorranno , ascolteremo quel camminare senza
        
        
          sosta nel moto perpetuo del cercarsi.
        
        
          Rischiare la vita, decidere, scegliere, speri-
        
        
          mentare l’inusuale. Appassionarsi ed appas-
        
        
          sionare, agire anche quando non si hanno
        
        
          soluzioni perfette. Vivere senza il rimedio delle
        
        
          affabulazioni.
        
        
          
            Il gruppo nasce da un’idea di Mario Tronco,
          
        
        
          
            componente della Piccola Orchestra Avion
          
        
        
          
            Travel, e del documentarista Agostino
          
        
        
          
            Ferrente che ne filma in diretta la nascita.
          
        
        
          L’Orchestra di Piazza Vittorio è un’orchestra
        
        
          multietnica nata nel 2002 all’interno dell’As-
        
        
          sociazione Apollo 11, associazione che nasce
        
        
          per salvare l’unico cinema sopravvissuto nel
        
        
          quartiere Esquilino di Roma , lo storico cine-
        
        
          ma Apollo che verrebbe trasformato di lì a
        
        
          poco in una sala bingo. L’idea è trasformare il
        
        
          cinema in un laboratorio multiculturale, in cui
        
        
          proiettare film e suonare musiche dal mondo.
        
        
          Il progetto è sostenuto da artisti, intellettuali e
        
        
          operatori culturali che hanno voluto valorizzare
        
        
          il rione, dove gli Italiani sono una minoranza
        
        
          etnica.
        
        
          L’Orchestra che muove i passi da questo pro-
        
        
          getto rappresenta una realtà unica: è la prima
        
        
          e sola orchestra nata con l’auto-tassazione di
        
        
          alcuni cittadini che ha creato posti di lavoro
        
        
          e relativi permessi di soggiorno per eccellenti
        
        
          musicisti provenienti da tutto il mondo e pro-
        
        
          muove la ricerca e l’integrazione di repertori
        
        
          musicali diversi e spesso sconosciuti al gran-
        
        
          de pubblico, costituendo anche un mezzo di
        
        
          recupero e di riscatto per artisti stranieri che
        
        
          vivono a Roma talvolta in condizioni di emar-
        
        
          ginazione culturale e sociale.
        
        
          Ognuno porta all’interno dell’Orchestra la
        
        
          propria fede, cattolica, musulmana, induista,
        
        
          ebraica, atea. Ognuno porta la nostalgia del
        
        
          proprio paese, e la speranza di tornarci, ognu-
        
        
          no porta il proprio strumento, e la melodia di
        
        
          casa, ognuno i propri colori.
        
        
          Questo laboratorio di suoni è la prova tangibi-
        
        
          le che la diversità, le molte culture miscelate
        
        
          insieme, danno vita a qualcosa di nuovo, che
        
        
          è molto più complesso, articolato, sfumato,
        
        
          molto più ricco della semplice somma delle
        
        
          parti di cui è composto.
        
        
          La prova dunque che lo straniero non è l’uomo
        
        
          nero, ma musica e colore, lingua ed emozioni
        
        
          con cui ed attraverso cui è possibile arricchire
        
        
          il nostro mondo.
        
        
          
            In una canzone dell’album “Parola Sante”
          
        
        
          
            Ascanio Celstini immagina la resurrezione
          
        
        
          
            e il riscatto di quelli che definisce cadaveri
          
        
        
          
            vivi e in questa occasione allarga i ranghi
          
        
        
          
            del gregge di pecore nere a ogni emargi-
          
        
        
          
            nato a ogni minoranza contemporanee. Di
          
        
        
          
            Carla Capriotti
          
        
        
          Il nero porta sfortuna. Per non compromettere
        
        
          la qualità della lana bianca, pregiata, le peco-
        
        
          re nere vengono escluse dalla tosatura. Anche
        
        
          nella società occidentale la pecora nera salta
        
        
          facilmente all’occhio, come in un gregge, e
        
        
          anche qui  viene rapidamente esclusa dalla
        
        
          “produttività” del resto della popolazione. Nei
        
        
          “favolosi anni sessanta” luoghi di esclusione
        
        
          sociale e reclusione erano ancora i manicomi,
        
        
          popolati dai così detti folli, i matti.
        
        
          All’epoca, in molti casi da un giorno all’altro,
        
        
          matto potevi diventarci. Era matto un uomo
        
        
          con un pensiero pervasivo, prepotente e ine-
        
        
          vitabile; un ragazzo con un deficit cognitivo;
        
        
          era matta una donna malata di Alzheimer; era
        
        
          matta la donna che andò alle poste per farsi
        
        
          dare parte del suo denaro e lì scoprì di non
        
        
          avere più nulla perché chi amministrava i suoi
        
        
          risparmi, oltre ad amministrarli, li spendeva;
        
        
          era matto Nicola che raccontò di aver visto i
        
        
          marziani. L’etichetta di matto era assegnata
        
        
          spesso a prescindere dalla presa in carico
        
        
          della psichiatria: i manicomi erano abitati da
        
        
          ogni genere di uomo o donna che la società
        
        
          non riusciva a pensare assieme al resto delle
        
        
          persone così dette sane. Un rituale ossessivo,
        
        
          un ritardo, una demenza, una reazione dispe-
        
        
          rata, una fantasia necessaria per difendersi
        
        
          dalla brutalità della realtà e poi, come Nicola, il
        
        
          resto della vita in manicomio.
        
        
          Nicola con i suoi trentacinque anni di mani-
        
        
          comio elettrico, è il protagonista del testo
        
        
          e dell’opera di teatro sociale che
        
        
          
            Ascanio
          
        
        
          
            Celestini
          
        
        
          ha scritto nel 2006, “
        
        
          
            La pecora
          
        
        
          
            nera
          
        
        
          ” (Einaudi, 2006).
        
        
          Nicola è un matto qualsiasi con una storia che
        
        
          diventa metafora dello squallore del sistema
        
        
          che rinchiudeva i figli più deboli perché inca-
        
        
          paci di difendersi da soli dal sistema stesso.
        
        
          
            Sanguineti
          
        
        
          in una celebre recensione lo rac-
        
        
          conta così: “Non si sa se ridere o piangere, ma
        
        
          non importa niente. In questa compresenza
        
        
          assoluta di comico e di tragico si ritrova incar-
        
        
          nata la grande modalità tragica moderna”.
        
        
          La modalità tragica moderna è ancora oggi
        
        
          quella di rinchiudere, nascondere, camuffare.
        
        
          Il manicomio e l’elettro shock anche se a fati-
        
        
          ca e con molte lacune, dopo la legge 180 del
        
        
          1970 promossa da
        
        
          
            Basaglia
          
        
        
          , hanno ceduto
        
        
          il passo ad altri luoghi dove rinchiudere o
        
        
          ingabbiare le pecore nere. La somministrazio-
        
        
          ne prescritta, massiccia, di psicofarmaci e la
        
        
          medicalizzazione di qualsiasi disagio emotivo
        
        
          e organico; l’altissimo dosaggio di metadone
        
        
          a giovanissimi con esperienze di dipendenza
        
        
          patologica; il carcere per i poveri cristi. Altre
        
        
          forme di coercizione, aggiornate, nella rete
        
        
          nel villaggio globale, nuove tipologie di pecore
        
        
          nere accanto alle solite.
        
        
          In una canzone dell’album “
        
        
          
            Parola Sante
          
        
        
          ”
        
        
          Ascanio Celstini immagina la resurrezione e il
        
        
          riscatto di quelli che definisce cadaveri vivi e
        
        
          in questa occasione allarga i ranghi del greg-
        
        
          ge di pecore nere a ogni emarginato a ogni
        
        
          minoranza contemporanea e canta “i froci, gli
        
        
          ebrei, i palestinesi dell’Intifada, i barboni lungo
        
        
          la strada, le zecche comuniste, gli anarchici,
        
        
          gli spastici, quelli col cesso a parte, i brutti e
        
        
          sporchi, i negri, i meridionali, gli autonomi dei
        
        
          centri sociali, gli zingari, le zoccole e i droga-
        
        
          ti” che assieme, riappropriandosi del tempo
        
        
          dello spazio e della vita che gli viene negato
        
        
          compiono il gesto rivoluzionario di raccontare
        
        
          la realtà per quella che è, tragica e comica
        
        
          e piena di errori di ortografia ma dignitosa e
        
        
          vera, che reclama attenzione e cura e stato
        
        
          sociale e diritti condivisi.
        
        
          
            Affabulazioni
          
        
        
          
            È cum-sentire grandioso e fantastico della relazione; in altri modi, con altri mezzi.
          
        
        
          
            Eppure bastava guardarmi
          
        
        
          
            Diciotto musicisti
          
        
        
          
            che provengono da dieci paesi e parlano nove lingue diverse
          
        
        
          
            La pecora nera
          
        
        
          
            
              Di Riccardo Gullini
            
          
        
        
          Sono uscito indigesto
        
        
          Da questo nudo pasto
        
        
          Resisto
        
        
          Annuisco
        
        
          Vincitore di me stesso
        
        
          Disturbato
        
        
          Perplesso
        
        
          Fogli…in cui ho letto la cura da seguire
        
        
          Per placare…le mie pulsioni più scure.
        
        
          
            La Cura