Itaca n. 4 - page 14

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spiritualità
Sono sempre stato attratto dagli Angeli, in parti-
colare da quelli con un nome e senza ali.
Raccontano di storie impossibili.
Si narra che in loro viva quella nota che rende la
musica dell’umano vivere polifonica.
Un giorno lontano incontrai alcuni di loro nella
nostra comunità, erano tutti malati di HIV.
Ricordo Massimo che piano piano perdeva la
vista, ma non la dignità.
I suoi occhi che ogni giorno di più si velavano
dell’inesorabile malattia opportunistica, ema-
navano profondità, luce, una luce introspettiva,
ogni giorno era come se fosse il primo di una
lunga vita da venire.
Roberto che sognava una casa con il suo nome
sul campanello, luogo dopo tanti non luoghi.
Mauro che accoglieva il suo cancro, come forza
generatrice per la scoperta dell’uomo che era
in sé, celebrando il funerale del drogato che
era stato.
Ancora, anni dopo, ed ancora dopo, Monica,
piccola e giovane donna schiacciata dalla nar-
razione di una vita breve ma tormentata, spez-
zata nell’anima, che con la sua maledetta dig-
nità , di piccola Icaro dei giorni nostri, decise di
gettarsi nell’abisso della sua anima, perché non
era importante riuscire a volare, ma lanciarsi .
Riccardo che sentiva forte su di sé l’insosteni-
bile non-leggerezza del vivere, aveva il sorri-
so abitato dalla malinconia e scriveva poesie:
“Toccatemi con tatto ve ne prego, non trat-
tatemi da matto e a qualsiasi creatura piena di
premura io chiedo di danzare con me al chiaror
di luna e che il vostro abbraccio non mi porti su
una duna”.
Tanto avrei ancora da raccontare, ma come
si può narrare di Angeli, di quelli incontrati , di
quelli presenti e di quelli attesi che ancora ci
dicono la bellezza della verità dell’anima, da cui
spesso fuggiamo?
Gli Angeli tengono insieme la fragilità con la
dignità, abitano una dimensione in cui lo spirito
vive di luce e d’impalpabile sostanza, il buio gli
appartiene solo per prepararsi ad uscire all’alba
di nuovi giorni.
La loro sofferenza ci parla di luce e non di
abbagli, la loro vita e quella di tanti altri è la
rappresentazione del vero volto dell’umano e
non delle sue maschere. Si ha molta più cura
del proprio corpo, rispetto a ciò che ci vive
dentro, fatto di scomode e strette scarpe, di
fragilità che non compromettono la verità, anzi
l’affermano.
Ciò che ci vive dentro è la nota che spesso ci
manca, perché dissonante , dissonanza che non
copre, ma scopre all’infinita polifonia della vita.
Incontriamo gli “Angeli” ogni giorno nel nostro
cammino, hanno la forza della pazienza, conos-
cono la profondità della bellezza, ma se ne
meravigliano sempre.
Massimo viveva il proprio giorno di malato
terminale, come se fosse il primo di tanti altri
da venire. Credo che per noi siano necessari,
risvegliano i nostri sensi. Fissiamo la luce del
giorno, ma non vediamo, apriamo le braccia ma
non abbracciamo.
Molti di loro non potranno più tornare, non
provo nostalgia per il già narrato, ma per quello
che avevano ancora da dire.
Angeli di un tempo senza tempo, di un vissuto
già finito ma già risorto.
Nel Vangelo si parla di sandali posati sulla sog-
lia, noi spesso varchiamo la soglia dell’umano
vivere senza posarli, sporcando il nostro e l’al-
trui cammino.
Mauro, Monica, Riccardo e i tanti che ognuno
incontra, probabilmente non hanno mai avuto
sandali da calzare o soglie da varcare, ma ad un
certo punto hanno bussato ed atteso.
. Natale 2105 .
Presidente Cooperativa Sociale Onlus Ama
Aquilone
Francesco Cicchi
“Abbiamo studiato l’integrazione in matemat-
ica, a scuola. Abbiamo imparato gli integrali,
la funzione esponenziale. È la curva asintot-
ica che possiamo tracciare all’infinito e che
non toccherà mai l’ascissa. L’integrazione
è così, bisogna correrle dietro ma più ti
avvicini più ti ricordano che non è affat-
to quella.” Abdelmalek Sayad. Una let-
tura sociologica del fenomeno migratorio.
Di Donatella Ferretti
Una riflessione seria sull’immigrazione non
può prescindere e non può essere adeguata-
mente sviluppata senza pensare, allo stesso
tempo e reciprocamente, il fenomeno ad essa
connesso dell’emigrazione. Dice a tal prop-
osito
Abdelmalek Sayad
, sociologo algerino:
“Immigrazione qui ed emigrazione là sono due
facce indissociabili di una stessa realtà, non pos-
sono essere spiegate l’una senza l’altra”. - Tratto
da “La doppia assenza. Dalle illusioni dell’em-
igrato alle sofferenze dell’immigrato”, edito da
Raffaello Cortina Editore
. Le proporzioni degli
attuali flussi migratori, dalla portata epocale,
impongono una comprensione più profonda di
quanto finora non sia stato fatto, attraverso una
riflessione sul fenomeno migratorio inteso come
“fatto sociale totale”, che va svincolata e resa
autonoma rispetto alle logiche politiche che
tendono a frammentarlo, cogliendone aspetti
isolati e parziali, nonché a ridurre la questione alle
semplicistiche posizioni pro o contro. Ho trovato
interessante ed originale l’analisi compiuta da
Sayad
, riferita specificamente all’emigrazione
algerina verso la Francia, esemplare in quanto
prima emigrazione da un paese del cosiddetto
terzo mondo verso l’Occidente, e che può essere
in quanto tale estesa ai fenomeni migratori in
generale. Egli sostiene che l’emigrato-immigrato
è sempre “fuori luogo”, un fuoriuscito dal territo-
rio di appartenenza, che necessariamente recide
i legami sociali e parentali e abbandona tradizioni
e usanze della sua terra; ma che allo stesso
tempo è uno straniero che si innesta in un tessuto
sociale a lui estraneo e per lo più ostile.
Ogni immigrazione è la risultante della combi-
nazione di due forze complementari: una “repul-
siva”, che espelle gli emigrati da casa loro e
darebbe conto dell’emigrazione; l’altra “attrat-
tiva”, che darebbe conto dell’immigrazione.
Emigrare
costituisce
oggettivamente
un atto di
natura politica, indipendentemente dalla volontà
o consapevolezza delle parti in causa. In pratica
si tratta di una “doppia assenza”. Il migrante
è allo stesso tempo assente sia dalla società
d’origine che da quella di arrivo, in una con-
dizione di esclusione dall’ordine politico e sociale
di entrambi i luoghi, quello che ha abitato e
quello che abita, straniero nel mondo intero. Per
questo Sayad individua l’immigrato come ato-
pos, una “persona fuori luogo”, un soggetto
non classificabile e privo di un proprio spazio
all’interno della società di destinazione. Egli
non è né cittadino né straniero, votato all’eter-
na contraddizione e alla non-appartenenza.
È così che l’identità del migrante si costituisce a
partire dalla prospettiva del paese ospitante, che
secondo le categorie di uno Stato nazionale deve
necessariamente demarcare e definire i confini
di appartenenza e, quindi, di non appartenen-
za. Di conseguenza il migrante viene definito in
negativo, rispetto a ciò che non è o alle carat-
teristiche che non ha, accentuando il carattere
di mancanza e di privazione che è già all’origine
della condizione stessa del migrante. Da qui la
necessità ormai impellente di una considerazione
più piena e articolata del fenomeno, che implica
un ripensamento delle strutture e delle categorie
che sono alla base delle identità nazionali, a
favore di un concetto nuovo di cittadinanza, che
si costruisce culturalmente attraverso un percor-
so fatto di conoscenza e di esperienze di identità
e solidarietà, e che soprattutto contribuisca a
ridefinire le linee di intervento abbandonando le
logiche emergenziali.
Il filosofo francese Emanuel Levinas, rompe i
confini di una visione egoistica dell’esistenza
ed approda al mistero della presenza dell’al-
tro nella nostra vita, mettendo in gioco una
inedita concezione di rapporto tra gli indi-
vidui che nasce dalla condivisione, dall’ac-
cordo e dall’accoglienza della diversità in
quanto tale.
Di Mario Giostra
.
“La responsabilità per gli altri, l’essere-per-l’al-
tro, mi è sembrata l’unica cosa capace di far
cessare il brusio anonimo e senza senso dell’es-
serci”. Questa citazione riassume una porzione
significativa del pensiero di Emanuel Levinas,
filosofo francese di origini ebraico-lituane scom-
parso da circa vent’anni. Le sue riflessioni si
sviluppano a partire dagli anni trenta e si car-
atterizzano per una visione dell’esistenza che
è destinata a trovare i suoi significati solo con
l’altro e di fronte all’altro istituendo un rapporto
interumano che scavalca il “dialogo silenzioso
dell’anima con se stessa” e lo sostituisce con
l’esperienza dell’alterità. È importante sottolin-
eare un aspetto del suo mondo interiore: in un
periodo storico in cui ogni ebreo avrebbe avuto
sacrosanti motivi per chiudersi in se stesso e
pensare unicamente ai propri guai, il filosofo
francese rompe i confini di una visione egois-
tica dell’esistenza ed approda al mistero della
presenza dell’altro nella nostra vita, mettendo in
gioco una inedita concezione di rapporto tra gli
individui che nasce dalla condivisione, dall’ac-
cordo e dall’accoglienza della diversità in quan-
to tale. Attraverso un’immagine molto significati-
va egli, nell’esplicarsi del suo pensiero, definisce
“volto” il modo in cui l’altro si presenta a noi. Il
“volto” dell’altro rappresenta la sua interiorità e
la sua presenza nel mio mondo; mi costringe
ad uscire da me stesso, guardare ogni “pros-
simo” negli occhi e rivolgere a lui uno sguardo
responsabile. Ciò suggerisce un atteggiamento
etico che si rivela straordinariamente attuale.
Azzardando un doloroso parallelo con la molti-
tudine ignota degli ebrei deportati a loro tempo
nei vari lager d’Europa, e purtroppo anche
d’Italia, non possiamo non rivolgere il nostro
pensiero alla marea anonima di bambini, donne
ed uomini che disperatamente stanno fuggendo
da una situazione insostenibile per raggiungere
il sogno di libertà e di pace rappresentato dai
nostri lidi. I media li presentano quasi sempre
come “uomini senza volto”, quasi delle non-per-
sone, facenti parte di una massa indifferenziata
che invade i nostri spazi. L’immaginario collet-
tivo, purtroppo, non si ribella a tale immagine.
Ma dietro a quegli sguardi erroneamente simili
tra loro si nasconde la ricchezza di un’uma-
nità tutta da scoprire. Ogni volto cela in sé
desideri, cultura, competenze professionali e
la capacità di amare. Non possiamo rimanere
indifferenti di fronte a ciò; chiudere gli occhi
sperando che il problema si risolva da sé. Ma
come fare? - Non è sufficiente procurar loro un
rifugio ed un pasto caldo; quella che dobbiamo
compiere è una operazione spirituale e cultur-
ale ben più complessa: trovare per ognuno di
questi volti, uno spazio dedicato all’interno della
nostra anima. Axel Honnet, ultimo esponente
della Scuola di Francoforte, introduce a questo
proposito il concetto di riconoscimento. Per
lui, la realizzazione di ogni individuo in quanto
persona non può prescindere dall’autorealiz-
zazione dell’altro; negare l’altrui autonomia e gli
altrui diritti, significa lavorare contro se stessi.
Si tratta di un’intuizione tutt’altro che trascura-
bile. Ri-conoscere l’altro significa conoscerlo di
nuovo; identificarlo come parte di me. Vuol dire
accettarlo come qualcosa di già noto, come
presenza che mi accompagna da sempre e
che ora deve semplicemente riprendere il posto
che gli spetta di diritto nel mio mondo vitale.
Ciò significa necessariamente accogliere ogni
diversità per restituire al volto dell’altro la dignità
dell’“esserci”, dell’essere-con-me.
Queste considerazioni ci offrono su un piatto
d’argento tutte le motivazioni sufficienti per
rivedere in toto il nostro atteggiamento nei con-
fronti del cosiddetto “problema immigrazione”,
superando paure, luoghi comuni, e ridicoli atte-
ggiamenti paternalistici.
Torno però a dire: Ma come fare? - Di analisi
in questo senso ne sono state azzardate a
sufficienza e Il rischio che si corre è quello di
perdersi in un oceano di chiacchiere inefficaci.
Dobbiamo individuare una strategia che ci con-
senta di tradurre in vita le parole ed i concetti
messi in gioco. Facile a dirsi ma non a farsi. Ad
ogni buon conto, se ci pensiamo bene, la nostra
tradizione culturale fornisce più di uno strumen-
to a riguardo. Pensiamo ad esempio alla famosa
“regola d’oro” del vangelo: “Fa agli altri ciò che
vuoi gli altri facciano a te stesso”. Si tratta di
un’affermazione per nulla banale che se messa
in pratica a qualunque livello contribuirebbe
efficacemente ad affrontare le problematiche
descritte. Come spesso succede, però, stiamo
tentando di risolvere i problemi di conviven-
za culturale attraverso un atteggiamento etico
e religioso tipicamente occidentale. Il nostro
etnocetrismo europeo rischia di trionfare ancora
una volta. Avventuriamoci, allora in una breve
indagine. Scopriremo senza eccessivo sforzo
che tale norma di vita non è distintiva del cris-
tianesimo ma è presente in tutti i testi sacri delle
grandi religioni. Se proviamo, per esempio, a
sfogliare gli scritti di Maometto, incontriamo la
seguente affermazione: “Nessuno di voi è un
vero credente fino a quando non desidera per il
fratello ciò che desidera per se stesso”.
Mi si permetta, allora, un’affettuosa provoca-
zione che rivolgo principalmente a me ed a
quei luoghi comuni che attraverso uno stalking
asfissiante molestano quotidianamente la mia
interiorità: Ma come! - Qui c’è evidentemente
qualcosa di stonato. Da quando Maometto
usa gli stessi concetti di Gesù di Nazareth? - E
da quando i musulmani parlano di fraternità e
di amore? - Ma “loro”, generalizzando un po’,
non erano quelli prepotenti ed aggressivi? Non
erano i “cattivi”?
Evidentemente non sono riuscito a guardarli
bene in volto.
Angeli
Egli non è né cittadino né straniero, votato
all’eterna contraddizione e alla non appartenenza.
Fa agli altri ciò che vuoi gli altri facciano a te stesso
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