Itaca n. 16

13 La tempesta della vita sul Fabbricone uando le sirene cominciarono a fischiare, le nuvole, che fin là erano rimaste quiete all’orizzonte, diedero inizio alla cavalcata. Bianche, gialle, grigie, orlate qua e là di nero invasero in poco tempo tutto il cielo e gettarono sulle case, sulle ortaglie, sui primi appezzamenti di campagna le loro ombre improvvise e sinistre. “Viene il temporale!” Si sentiva gridare per le strade, nell’affanno che tutti avevano di raggiungere al più presto le case. “Andiamo, andiamo, su!”, “In fretta!”, “Il temporale!”. Il vento intanto sollevava dappertutto terra e carte polvere e immondizie. Anche il Fabbricone, tagliato in due dall’ombra di una nube e da uno degli ultimi raggi di sole, si mise subito in allarme. Persiane che sbattevano. Panni, camicie e mutande che si agitavano sui fili. Un gran trafficare sui ballatoi e contro le ringhiere. “Vieni dentro! Su, su, che arriva la fine del mondo!” Parole, grida, urli e bestemmie. Contro la cinta, la fila dei pioppi si agitava da una parte e dall’altra. Allora, dall’estremo della periferia, dove le ultime case cedevano alle cascine o si perdevano nei campi, tra il brontolio dei primi tuoni partì la scarica dei razzi antigrandine. Cannonate che salivano veloci ed esplodevano poi con un sibilo nel niente. Una a destra e una a sinistra; una a est e una a ovest. “Avanti! Tirate!“ Gridò senza sapere a chi la Redenta, mentre spalancava la finestra per prendere il pezzo di fesa che, involto in un po’ di carta, se ne stava sul davanzale. “Tirate su razzi, bombe, madonne e anticristi! Su, su, che poi ci chiuderanno tutti in manicomio! Ecco cosa porta il vostro progresso! Come se non ci avesse già pensato la guerra a rovinarci nervi!” Un’occhiata, ma non più di quella, alle luci che saettavano verso sud e una al buio in cui il resto del cielo affondava come in un inferno. Quindi, stringendo la carne, si riavvicinò al tavolo. In quello stesso momento un razzo esplose sulla sua testa con più fragore degli altri e fece tremare i vetri. “Spaccate, spaccate su tutto che poi almeno non ci si pensa più. Deve piovere? Niente. L’interesse è che non pioSi intitola “Il Fabbricone” uno dei più famosi romanzi di Giovanni Testori, pubblicato nel 1962. È tutto ambientato in una casa di ringhiera nella periferia nord di Milano: il Fabbricone è il vero epicentro di tutte le vicende umane che si intrecciano. Ed è proprio il Fabbricone a segnare l’inizio del romanzo, con una scena che qui riproponiamo e che prefigura le tempeste quotidiane delle storie raccontate nel libro. Il 1923 è il centenario della nascita di Testori: il suo grande amore per la realtà lo rende scrittore vicino e attuale. va. Le stagioni? L’estate, la primavera, l’autunno? E chi le vede? A rovescio! A rovescio anche quelle! Come la gente, come la vita, come tutto!” Fuori, intanto, le poche gocce cui i razzi avevano permesso di cadere venivano giù grosse, lente e sfiatate. Per esse che si schiacciavano, parte sul davanzale, parte sui vetri, più che pietà, la Redenta provava una specie di rabbioso rancore. Insomma, adesso, nemmeno il cielo, nemmeno quello era più in grado di ribellarsi! Ma allora meglio il diluvio, meglio la fine del mondo! Perché vista la strada su cui si era messa, dove poteva finire l’umanità se non in una casa di cura. Un ciak. Un breve silenzio. Poi un altro ciak. Come se, invece che di gocce d’acqua, si trattasse di mosche che una mano scagliava da chissà dove perché andassero a schiacciarsi sulla terra. (…) Sì e no un respiro, ed ecco: un lampo più lungo degli altri saettò giù dalle nubi e lacerò i vetri della casa. Nell’interno le stanze parvero incendiarsi. Subito dopo il tuono prese a correre nel cielo per perdersi in una catena di brontolii, là, oltre l’orizzonte. Q Giovanni Testori e FrancaValeri, Milano

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