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interviste
La dignità economica e morale, raccontata
nell’intervista a Luigino Bruni
Luigino Bruni, nato ad Ascoli Piceno nel
1966, è Professore Associato in Economia
Politica al Dipartimento di Economia Politica
dell’
Università Milano Bicocca
ed all’Istituto
Universitario Sophia
di Loppiano (FI). È vice-
direttore del Centro interdisciplinare e inter-
dipartimentale
CISEPS
; È vicedirettore del
Centro interuniversitario di ricerca sull’etica
d’impresa
Econometica
; è coordinatore del
progetto
Economia di Comunione
e membro
del comitato etico di
Banca Etica,
Negli ultimi
15 anni il campo di ricerca di Luigino Bruni ha
coperto molti ambiti, dalla Microeconomia,
all’Etica ed Economia, alla Storia del
Pensiero Economico e dalla Metodologia in
Economia alla Socialità e Felicità in Economia.
Recentemente i suoi interessi si sono rivolti
all’Economia Civile ed alle categorie econo-
miche ad essa collegate quali Reciprocità e
Gratuità. Su questi argomenti Luigino Bruni
ha scritto molti libri e vari di questi sono stati
tradotti in altre lingue. Nel 2008 il suo libro
“Civil Happiness” ha vinto il secondo premio
del “Templeton Enterprise Awards”. Questo
premio è assegnato ogni anno ai migliori libri e
articoli sulla cultura d’impresa scritti da autori
con meno di 40 anni al momento della pub-
blicazione. Attualmente la ricerca di Luigino
Bruni si è focalizzata sul ruolo della motivazi-
one intrinseca nella vita civile e economica.
D: Qual è la sua idea di dignità?
R:
Dignità è una delle parole ‘grandi’ dell’uma-
no, perché - come libertà, bellezza, verità,
amore... - hanno la rara capacità di riuscire a
dire da sole un tutto. Dire che una persona o
una vita è degna è una espressione a cui non
manca nulla, è già piena e completa solo con
questo aggettivo. Per questo, come per le altre
parole ‘grandi’ sue sorelle, le cose più impor-
tanti arrivano quando iniziamo ad articolare un
discorso, e mettere la parola ‘dignità’ accanto
ad altre. Dignità diventa una parola-categoria
molto concreta e utile quando la usiamo in
alcuni ambiti cruciali del nostro vivere, tra
cui la povertà umana, il fine vita, la cura in
generale, il carcere, gli immigrati, ma anche
il modo in cui trattiamo gli animali. Ricordo
una esperienza significativa a questo riguardo.
Durante un seminario negli USA, un collega
(filosofo) usò l’espressione: “le persone vanno
trattate in modo degno, non come animali”.
Un’altra persona presente disse: “ma perché
gli animali non dovrebbero essere trattati in
modo degno?”. La dignità diventa così una
categoria per valutare se i modi con cui trat-
tiamo ogni essere umano, sano e malato, la
natura e gli animali. Quindi una grande parola
del dibattito pubblico e della democrazia:
siamo riusciti ad ottenere grandi conquiste
umane dicendo e gridando, fino a dare la vita,
che non era degno dell’umanità discriminare
donne e neri, sterminare animali per le nostre
pellicce, uccidere i delfini nel catturare i tonni,
ma dobbiamo fare molto di più. Spero si arrivi
presto a dire che tenere essere umani in molti
centri di ‘accoglienza’ è contro la dignità, tene-
re i carcerati nelle attuali condizioni è contro la
dignità, assistere passivi a chi si rovina con le
slot machine è contro la dignità, far lavorare i
bambini è indegno, sfruttare lavoratori perché
poveri è anche indegno, come lo è spremere
neolaureati nelle multinazionali e dopo qualche
anno gettarli via.  Magari un giorno riusciremo
a dire che uccidere ogni animale è indegno, e
molte altre cose: le civiltà avanzano inserendo
nella lista delle cose indegne sempre nuove
cose.
D: La dignità è in crisi prof. Bruni? E se si,
quali sono le cause di questa “nuova espe-
rienza” non dignitosa?
R:
Una minaccia alla dignità viene, oggi più
di ieri, dall’avidità e dalla ricerca dei profitti e
delle rendite ad ogni costo. Assistere passivi
a multinazionali dell’azzardo (per un esem-
pio) che fanno miliardi di profitti sfruttando
le dipendenze e le fragilità, è un atto molto
indegno - di quelle multinazionali, ma anche
nostro che restiamo silenti e inerti. La dignità è
in crisi tutte le volte che qualcuno (e non solo
umano) viene usato come mero mezzo per fare
profitti. Stiamo umiliando la natura in molte
paesi poveri, solo per ridurre di qualche grado
la temperatura nelle nostre case: tutto questo
lo trovo indegno. 
D: La perdita della dignità economica (crisi
economica) secondo lei non è solo il risul-
tato, forse il più evidente, di una perdita
generale da parte della società, dei valori
legati alla dignità della persona? È vero che
siamo tutti più poveri, ma il problema forse
non è l’impoverimento morale e non quello
economico?
R:
Dietro la nostra crisi c’è certamente un
deterioramento dei ‘capitali morali’ delle nos-
tre comunità, e tra questi i capitali costituiti
dai valori della dignità umana. Non possiamo
negare che il nostro tempo conosce molte
conquiste sul terreno della dignità umana e
non, ma dobbiamo fare di più e meglio in nuovi
e vecchi ambiti: la qualità della cura di anziani
e malati, le nuove e vecchie dipendenze, la
scuola che si sta deteriorando rendendo meno
degna la vita dei poveri: è la qualità della scuo-
la che consente ai figli dei poveri di poter fare
una vita migliore, e più degna. 
D: L’impegno sul fronte dei diritti umani
(e dunque sulla dignità della persona) non
dovrebbe essere la prerogativa per una
Società che vuole considerarsi civile?
R:
Certo, e tanto si fa. Ma dobbiamo includ-
ere tra i diritti umani anche i diritti sociali ed
economici, sebbene non ci sia sempre un
corrispondente dovere in capo a qualcuno.
Dovremmo dire con più forza che è un diritto
fondamentale dell’uomo l’accesso al credito,
la possibilità di svolgere il lavoro che si ama
fare, e anche il diritto al buon gioco e alla festa.
La gamma dei diritti umani è potenzialmente
infinita, ma non dobbiamo dare per scontato
che i diritti conquistati ieri restino tali anche
domani, se non facciamo manutenzione e non
teniamo la guardia alta.
D: Prof. Bruni lei ci ha raccontato la dignità
e l’economia, alla luce delle sue analisi,
pensa che ci sia ancora spazio per la sper-
anza?
R:
Certo. Le riporto alcuni pensieri sulla sper-
anza che ho scritto (
su Avvenire
) poco tempo
fa:
La vera risorsa scarsa della nostra civiltà si
chiama speranza. Come ogni nobile e antica
parola, la speranza assomiglia a quelle città
stratificate, che nei secoli hanno conosciuto
molte vite e diverse civiltà. C’è, infatti, un
primo livello di speranza - che appare subito
perché molto superficiale - che non è una
virtù, ma è un male. È quella speranza che la
mitologia greca pone dentro il vaso di Pandora
(il vaso che conteneva tutti i mali), e che, mis-
teriosamente e ambiguamente, non fuoriesce
insieme agli altri mali per inondare il mondo,
restando rinchiusa nel vaso. È questa la sper-
anza che San Paolo chiama ‘vana’, quella a
cui ricorrono spesso i potenti, quando invitano
i cittadini a sperare in riprese immaginarie e in
futuri migliori, mentre non fanno nulla, o troppo
poco, per migliorare le condizioni di vita del
presente. La speranza di vincere al lotto e ai
gratta-e-vinci, o l’atteggiamento di chi di fron-
te ad una richiesta di aiuto risponde: ‘speriamo
in benÈ, una frase dal costo (e dal valore) nullo,
che segna la fine di quell’incontro e il mancato
inizio di un impegno responsabile per trovare
insieme una soluzione concreta. È questa la
speranza ‘oppio dei popoli’, che spesso è
diventata, e diventa, strumento di dominio,
soprattutto sui poveri, vittime di illusioni create
ad arte per mantenerli nella loro indigenza e
miseria. Questa speranza è un male perché
può farci vivere, o quantomeno sopravvivere,
senza l’impegno per diventare noi protagonisti
della nostra felicità, aspettando passivamente
che la salvezza arrivi dalla sorte, dagli dei,
dallo stato.
Se scaviamo più in profondità, troviamo un
secondo livello o strato della speranza, che
inizia a essere virtù. È quell’atteggiamento
spirituale e morale che porta a trovare vere
ragioni per sperare in un futuro prossimo
migliore del presente, e ad esercitarsi perché
quel ‘non ancora’ sperato diventi ‘già’. È la
speranza che ha spinto le generazioni passate
a lottare contro un oggi povero e parco di beni
e di diritti, per costruire un futuro migliore per i
loro figli e nipoti. È stata questa speranza che
ha reso sopportabili e a volte lieti i lavori di
tanti nostri nonni e nonne impiegati da semi­
servi nei campi o nelle miniere, perché dietro
quelle fatiche e lacrime intravvedevano futuri
diplomi, lauree, case, fatiche e campi diversi. È
la speranza delle fidanzate, delle spose, delle
madri, ma anche quella che ha portato tanti
mezzadri e piccoli artigiani a diventare impren-
ditori, non solo né tanto per amore del denaro,
ma in cerca di futuri migliori in dignità e libertà.
Ma c’è ancora un terzo livello di speranza,
che quando lo raggiungiamo inizia a svelarci i
tratti di una città antica molto nobile e bella. È
la speranza di chi ha lottato fin a dare la vita
per costruire un futuro migliore non solo per
i propri figli, ma per i figli e le figlie di tutti. È
questa speranza che ha spostato, e ancora
sposta, in avanti i confini dell’umano, che ha
sorretto tutte le virtù, le ha irrorate, ha dato
loro coraggio, senso e direzione. 
La scoperta delle dimensioni della speranza
non si arresta però a questo terzo, già alto e
nobile, livello. C’è infatti una quarta forma di
speranza, che si trova molto in profondità, e
che è diversa da tutte le altre, perché non è
più contenuta all’interno del registro semanti-
co della parola virtù. Non si raggiunge (diver-
samente dalle virtù) con l’esercizio, con la
disciplina, con l’impegno. Questa speranza è,
semplicemente, dono, gratuità. Quando arriva-
ci sorprende sempre, ci toglie il fiato. È l’incon-
tro con la stanza dei tesori. Questa speranza
non può essere né calcolata né prevista, ma
attesa e desiderata, e quando arriva è gioia
grande, paradiso, come il ritorno dell’amico
lontano tanto atteso e che un giorno, final-
mente e improvvisamente, torna davvero.
C’è un legame profondo tra questa speranza
e l’attesa. Ce lo dicono anche le lingue por-
toghese e spagnolo, dove esiste una sola
parola per dire sperare e attendere:
esperar
.
E c’è forse qualcosa di questa speranza nel
misterioso finale del Conte di Montecristo:
«Tutta l’umana saggezza è riposta in queste
due parole: attendere e sperare». È l’attesa
dello sposo con le lucerne accese di speranza.
Questa speranza arriva, come ogni dono vero
e grande, senza preavviso e senza chiederci il
permesso, quando abbiamo esaurito le risorse
naturali per sperare, e ci troviamo in con-
dizioni nelle quali non ci sarebbe più nessuna
ragione ragionevole per sperare, neanche nel
Paradiso. Eppure arriva, e dopo l’annuncio
di una malattia seria, di un grave tradimento,
dopo infinite solitudini, quando meno te lo
aspetti affiora nell’anima qualcosa di delicato,
un venticello leggero, e si riesce di nuovo a
sperare, a sperare e attendere diversamente.
Sentiamo che ci viene data una nuova pos-
sibilità, una nuova ragione per sperare vera-
mente, non per auto-inganno consolatorio ma
perché rinasce la forza di sperare oltre la dis-
perazione. E così dopo aver consegnato i libri
in tribunale, dopo l’ennesima illusione dell’en-
nesima promessa di fido bancario, dopo il
trentesimo colloquio di lavoro finito in niente,
dopo che ricadiamo per l’ennesima volta nello
stesso errore, ecco che con gli occhi ancora
lucidi rifiorisce, dentro, la speranza. E ci sor-
prende, e ci fa ricominciare la corsa, la lotta. 
Se sulla terra non ci fosse questa ultima sper-
anza, la vita sarebbe insopportabile - e diventa
tale quando questa speranza non arriva, o non
si sente per i troppi rumori. Sarebbe insop-
portabile soprattutto la vita dei poveri, che
invece, come la Cabiria di Fellini, riescono a
rimettersi in cammino, a sorridere, a danzare,
a sperare di nuovo oltre la sventura. È questa
la speranza che fa rialzare, anche oggi, migli-
aia di lavoratori, d’imprenditori, di cooperatori
sociali, di politici, di funzionari pubblici, che,
spes contra spem, vanno avanti anche perché
ogni tanto sperimentano questa speranza.
E così rilanciano la loro, e la nostra, buona
corsa.
È vero che siamo tutti più poveri
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