Lavoro e diritti in Valle d'Aosta

mondo degli affari e della politica; o almeno non conosco casi di lavoratori dipendenti, artigiani, piccoli e grandi imprenditori, discriminati in base alla lingua che conoscono o che non conoscono. Né mi risulta che ci siano state manifestazioni di intolleranza, a parte le scaramucce campanilistiche che avvengono in tutto il mondo, su base “etnico”-linguistica. Anzi è un fenomeno di straordinario interesse la rapidità con la quale nel giro di poche generazioni (o una sola) i neo-valdostani hanno assimilato, con gli aggiornamenti portati dalla modernità, modi di vita, tradizioni, lingue locali. Il fatto che, finita la guerra e sconfitto il fascismo, tutti i Valdostani, quale che fosse la data dell’arrivo sul luogo della loro famiglia, abbiano gradito il regime di autonomia speciale; e che la stessa militanza nei partiti “etnici” sia aperta a ciascuno, quale che sia il suo cognome e la sua origine, accelera di molto l’identificazione. Oggidì una “notte di san Bartolomeo”, o la meno cruenta “proporzionale etnica” quale vige in Alto Adige/Südtirol, metterebbe in serio imbarazzo gli esecutori. Recentemente si è verificato un fenomeno inedito: l’interesse solidale di tutti quelli che erano già presenti sul territorio ha favorito la messa in opera, a iniziare dal 1987 di un marchingegno discriminatorio, la prova di conoscenza del francese, a cui sono sottoposti quelli che aspirano a un impiego pubblico in Valle d’Aosta. Alla radice di questa invenzione c’era il presupposto che i Valdostani francofoni sarebbero stati privilegiati rispetto agli aspiranti non francofoni di altre regioni; la messa in pratica della norma relativa ha dato origine a molti paradossi istruttivi. La politica linguistica regionale si è arricchita via via di nuovi accorgimenti, come l’importazione dell’ “indennità di bilinguismo”, chiamata in Valle d’Aosta “indennità di francese”, che premia i dipendenti pubblici per il supplemento di professionalità che verrebbe loro, per vie molto misteriose e precluse al profano, dalla conoscenza della seconda lingua, nello specifico del francese. Non credo però che questa, come altre forme di politica linguistica, sia incisiva o porti vantaggi materiali o immateriali durevoli; tanto più che ormai il paesaggio “etnico” è soggetto a cambiamenti così veloci, la circolazione di persone e di idee è così intensa, le sfide mondiali dell’economia sono così serie, che non si può immaginare di governare, con costi più o meno incontrollabili, i comportamenti linguistici concreti di una data popolazione. Forse sarebbe più economico e più vantaggioso per il cittadino contribuente-utente che la “mano pubblica” allenti un po’ la presa e lasci che le forze in campo giochino più liberamente. [ 71

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