Lavoro e diritti in Valle d'Aosta

nella cerchia dell’élite, contribuiscono all’amministrazione locale, si valdostanizzano in tutto salvo che nel cognome, sono poliglotti, danno cittadinanza valdostana al loro dialetto, o lingua, d’origine 1 . Naturalmente tutto non è stato così pacifico: molti intellettuali aostani, così come alcuni osservatori esterni, erano convinti che l’invadenza del piemontese sia nei rapporti sociali sia nella vita familiare costituisse un pericolo mortale per il francese, e profetizzavano che nel XX secolo un dialetto (il piemontese, e non la lingua italiana!) avrebbe sostituito la lingua francese. La profezia non si è avverata; rimane da vedere se il piemontese non sia stato il cavallo di Troia che ha contribuito a disgregare i sistemi locali e a creare un vuoto riempito dall’italiano. L’ipotesi è ragionevole, ma occorre dire che l’avvento del piemontese in Valle d’Aosta non comportava di per sé la rovina degli altri sistemi linguistici: diverse lingue, più o meno nobili, possono convivere sullo stesso terreno, purché sia chiaro quando con chi e perché usarle, e gli utenti dell’una, o dell’altra, o di più di una ci trovino la loro convenienza materiale o immateriale. La seconda industrializzazione della Valle d’Aosta, verso la fine del XIX secolo, ha richiamato, prima in piccole unità, poi in gruppi via via più numerosi (specie a partire dalla Prima guerra mondiale) figure professionali specifiche o lavoratori non qualificati, uomini e donne, soli o in comitive, singoli o seguiti dalle loro famiglie, precari o stanziali: ma tutti in possesso di una identità “regionale” composita, di cui faceva parte la lingua (o sia dialetto). Ora: solitamente si ragiona intorno ai problemi causati al delicato equilibrio linguistico valdostano dall’irruzione di questi allofoni. Qui ci vorrebbe una piccola rivoluzione: si dovrebbe indagare sull’effetto provocato negli allofoni dall’impatto con questo paese, italiano ma francofono; e sulle complesse strategie di adattamento linguistico adottate dalle diverse categorie di nuovi venuti. Diversamente dal piemontese, le nuove lingue regionali entrano in Valle d’Aosta a testa bassa: nessuna di esse, né il bergamasco né il ligure né il veneto hanno la forza (il prestigio sociale o il numero dei locutori) per ambire a sostituire o solo contaminare le lingue dei nativi (o sia gli immigrati da più vecchia data); il loro statuto è precario, la loro trasmissione da una generazione all’altra è esposta a rischi, e questa non è una maledizione, perché “sacrificare” la lingua del padre è una premessa per l’emancipazione e l’integrazione nella nuova comunità. I gruppi più conservativi, che abbiano magari la sfortuna di essere anche più numerosi o concentrati in un sito dato, si votano alla ghettizzazione linguistica e sociale, che ha lunghi strascichi. Ora: su che piattaforma avviene la comunicazione tra tutti quelli che parlano lingue diverse, siano autoctoni o immigrati? A quella data, in assenza di un regolamento pubblico o di qualche coazione, i sistemi in campo si confrontano sulla base della loro forza. Emerge a un certo punto la proposta di valdostanizzare gli immigrati, di iniziarli alle lingue locali; non mi è chiaro se fosse una cosa concreta o una pia immaginazione; il fatto è che è formulata negli anni ’20 del XX secolo, quando ormai il “mercato” aveva deciso che la lingua franca fosse l’italiano. Non so con sicurezza se a questo abbia contribuito anche la malizia degli uomini o sia bastata la forza delle cose: certamente l’assimilazione degli immigrati avrebbe richiesto un forte investimento intellettuale, ma anche dei numeri adeguati: ebbene, proprio mentre “neo-valdostani” si insediano, una percentuale importante di nativi emigra in modo permanente, in Europa e in America. L’emigrazione valdostana, fatto assai poco studiato, specie nei suoi aspetti più drammatici, priva, come avviene altrove, la Valle d’Aosta dei suoi elementi migliori, più intraprendenti; l’impoverimento, demografico e non solo, può aver contribuito a frustrare ogni eventuale intento assimilativo. Non ignoro che si dice che i due fenomeni – lo svuotamento e riempimento simultanei – siano stati indotti o coatti per indebolire la resistenza valdostana; però sto sempre aspettando di vedere i documenti che corroborino queste affermazioni (anche se per la verità ho letto nei miei archivi di un progetto fumoso di Mussolini, di mandare volontari piemontesi e valdostani in Alto Adige, a sostituire i locali “optanti” che Hitler pensava di spedire in Alsazia, da cui avrebbe scacciato i Francesi. Ma siamo già nel 1940, a una data molto tarda). La mancata conversione degli immigrati (almeno per l’immediato) agli usi linguistici locali non pare abbia avuto conseguenze sul loro lavoro e sul loro percorso nel 70 ] a1) Il censimento del primo gennaio 1858 dà per Aosta i dati seguenti: gli abitanti sono 7757 (3947 maschi e 3810 femmine); di essi parlano il piemontese 1369 persone (879 maschi e 490 femmine); il tedesco 8 (5 maschi e 3 femmine); il francese 6380 (3063 maschi e 3317 femmine). Quindi i piemontesofoni dichiarati sono circa il 21,5%: ma que- sto non significa che ignorino il francese, e viceversa.

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