Lavoro e diritti in Valle d'Aosta

incipiente, garantiva un’accoglienza più fraterna o meno ostile agli emigrati che sceglievano come meta i paesi francofoni, allargava l’orizzonte culturale della popolazione, con i vantaggi connessi. Il fatto che la bilancia sia venuta severamente a pendere dal lato dell’italiano, e come i cambiamenti di regime e i massicci investimenti più recenti non siano riusciti a raddrizzarla (a quanto mi pare, ma posso sbagliare), è una storia affascinante, con momenti e protagonisti di tutto rilievo, che però non posso affrontare qui; su questo punto basti il cenno che ho fatto sopra. Sarebbe utile tentare di quantificare il danno materiale che può aver subito la popolazione per l’affievolimento della conoscenza diffusa del francese, vedere se ci sia stato impoverimento, declassamento, e in che misura; ma allo stato delle mie conoscenze manchiamo di strumenti scientifici per aggredire il problema. Per entrare un po’ più a fondo nel tema, a questo punto, conviene mettere da parte la semplificazione usata fin qui, e introdurre altri protagonisti della problematica linguistica valdostana. Infatti le lingue in campo non sono le due evocate sopra, ma di più. È un caso un po’ parossistico, ma illuminante, quello dei due Gressoney, comuni della Valle d’Aosta i cui abitanti conoscono o conoscevano, abbastanza bene da usarle con disinvoltura negli ambienti appropriati, almeno cinque lingue: il dialetto germanico locale, il tedesco letterario, il francese, l’italiano, il piemontese. I loro interessi, la loro posizione geografica, e non il mecenatismo pubblico o privato, davano loro l’opportunità di essere poliglotti, che loro coglievano. E qui vorrei solo accennare a una questione che sorge spontaneamente di fronte a casi simili: qual è l’economicità di un multilinguismo più o meno spinto: la fatica di districarsi tra più lingue ottunde o aguzza l’intelletto, favorisce il successo scolastico (e quindi le carriere) o lo frena? Io credo, seguendo la lezione del mio maestro André Martinet, che il plurilinguismo non giovi di per sé, come molti scrivono, ma giovi o faccia danni a seconda di numerose variabili: i talenti innati della persona, le modalità più o meno sensate dell’apprendimento, la motivazione, le costrizioni… I suoi eventuali benefici sono gli stessi che può dare studiare pianoforte, o risolvere enigmi matematici, o ogni altra forma di ginnastica mentale. Ma scendiamo da Gressoney e veniamo nel resto della Valle d’Aosta. Nel paesaggio linguistico valdostano figura “da sempre” (per così dire), oltre al francese, il patois (francoprovenzale) nelle sue diverse varianti locali: sistemi linguistici compiuti e funzionali. Non c’è discriminazione sociale netta nella pratica del francese o del patois: il primo non è riservato alle classi privilegiate e il secondo non è patrimonio (e palla al piede) dei ceti umili. Questo è un fatto trascurato dalla ricerca, ma che sul terreno ha avuto grandi effetti. A queste due lingue (prendendo l’insieme dei patois come una lingua sola) si aggiunge, primo dei nuovi arrivati, il piemontese. Il piemontese, a seconda di chi lo parla, è una lingua nobile o plebea: il funzionario sabaudo che si installava nell’Intendenza di Aosta parlava un piemontese elaborato; anche se non era tanto la grazia della sua favella, quanto il prestigio del suo ruolo, a indurre le élite valdostane a imitarlo. Il caporale piemontese che accoglieva le recluta al grido di “Valdustan patata” usava un piemontese più sanguigno, e qui la recluta si adeguava più per forza che per amore. I piemontesi che, per tutto il diciannovesimo secolo, monopolizzavano determinati settori del commercio e dell’artigianato in Valle d’Aosta, non si facevano scrupolo di parlare piemontese (che forse era la sola lingua che conoscevano) con i loro clienti, che li assecondavano senza fatica, a quanto pare. A questo si aggiungeva la naturale penetrazione del piemontese per osmosi tra i comuni della bassa Valle d’Aosta e quelli del confinante Canavese. In tutti questi casi il piemontese entra nel paese di Aosta a testa alta. Qui si è verificato un fenomeno molto interessante: piemontesi immigrati, fortunati nelle professioni o nell’impresa, che entrano [ 69 Tullio Omezzoli, studioso di linguistica e storia contemporanea, ricercatore per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta.

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