Lavoro e diritti in Valle d'Aosta
La “maestra” si occupava di più macchine filatrici, ma aveva due o più aiutanti: era possibile anche che la si sostituisse temporaneamente, ma a mansioni diverse corrispondeva lo stesso salario e le conseguenti richieste di adeguamento non erano ben accolte! Molte delle intervistate ricordano con piacere i rapporti di amicizia e confidenza instauratisi fra donne che passavano insieme 8-10 ore al giorno per 300 giorni l'anno; le semplicità della vita e i percorsi casa - fabbrica effettuati in gruppo, a piedi, in ogni stagione (sino all'introduzione di camion con autisti, peraltro poco puntuali, negli anni 30); anche la durezza del lavoro non pericoloso in sé ma effettuato in un ambiente “rumoroso e polveroso”; l'abituale sabato lavorativo e spesso anche la domenica (“non si era obbligati, ma lo si faceva per non perdere il posto…”); i permessi ridotti al tempo indispensabile per celebrare il matrimonio; l'assenza di retribuzione durante i periodi di malattia prima dell'istituzione della “mutua” (per contribuire alla quale “non tutte erano d'accordo”); la mancata assunzione delle donne incinte; l'astensione dal lavoro non retribuita durante la gravidanza; il ritorno in fabbrica 40 giorni (non pagati) dopo il parto. Buona parte delle operaie valdostane, dopo il turno in fabbrica, dovevano occuparsi della famiglia, dei campi, degli animali: il salario veniva consegnato ai genitori, almeno sino al matrimonio, e l'acquisto di scarpe o indumenti "importanti" come un cappotto, poteva essere effettuato esclusivamente a rate. Le assunzioni furono abbastanza facili sino agli anni ‘30: talvolta si entrava in fabbrica se uno dei genitori lasciava il lavoro. La scarsità di materie prime e la cattiva qualità di quelle reperibili durante il periodo bellico rallentarono l'attività dello stabilimento e ridussero il numero delle operaie da più di 1000 a circa 150: il cotonificio fu dipinto di verde, ricorda una delle intervistate, le finestre, nere, rimasero chiuse a causa dell'oscuramento e il lavoro, anche notturno, venne svolto con un' insufficiente illuminazione elettrica. A partire dagli anni 60, ristrutturazioni e ammodernamenti portarono sì in fabbrica nuove macchine ma anche diminuzione di occupati: la Commissione Interna, di concerto con l'Azienda, chiese secondo le testimonianze l'autorizzazione ad effettuare il lavoro notturno, svolto prevalentemente da manodopera femminile. Una delle conquiste ritenute più importanti fu la parificazione dei salari, prima corrisposti non in base alla produttività, ma secondo l'età; le intervistate sono però concordi nel ricordare che le donne venivano retribuite meno degli uomini, anche nei periodi che precedettero la chiusura dello stabilimento. Si ricordano con chiarezza l'occupazione della fabbrica per 6 mesi, lo sgomento e lo sconforto provocati dalla sua chiusura, il licenziamento simultaneo di tutti i dipendenti il 16 settembre 1971, le difficoltà, per molte donne insormontabili, data l'età, di trovare un nuovo lavoro, la vita diversa senza il salario della fabbrica. Operai veneti, bresciani, napoletani e calabresi lavoravano alla Soie di Châtillon e le ragazze che provenivano da altre regioni erano ospitate alla "Provvidenza", il grande pensionato gestito da suore, di cui si ricorda il vitto cattivo, i pidocchi, i controlli esercitati dalla Madre Superiora anche sulle assenze e la malattia, gli scarsi momenti di svago per le convittrici, che superarono anche le 400 unità: molte rimasero in questa struttura sino al matrimonio. Le testimonianze delle donne assunte alla Soie, alcune delle quali si sono stabilite in Valle una volta sposate, sono concordi nel ricordare la durezza del lavoro “a cottimo”, le multe e i controlli, l'ambiente malsano (caratterizzato da umidità, con l'acqua che si accumulava sul pavimento), i lunghi tragitti a piedi, in gruppo e nel buio, in tutte le stagioni, prima e dopo l'orario e la decurtazione di almeno mezz'ora di salario per l'ingresso tardivo in fabbrica, l'obbligo “di studiare la dottrina fascista come il catechismo” durante il Ventennio, il timore di dire una parola di troppo a partire dal periodo della guerra d'Africa, l'imposizione di assistere alla visita del Duce a Châtillon, la disumanità e il fanatismo fascista di uno dei direttori, Imberti, cugino dell'omonimo Vescovo di Aosta, il “dono” della fede nuziale alla Patria sentito come un pesante sacrificio (“avevo solo quello d'oro, non avevo niente altro…”). Per molte giovanissime ragazze del Nord-Est d'Italia il viaggio sino a Châtillon costituiva la prima occasione di allontanamento dal paese e dalla famiglia d'origine ed era compiuto con una notevole apprensione, dopo aver spesso superato le comprensibili resistenze da parte dei genitori. Il reclutamento avveniva tramite i parroci che affiggevano le offerte di lavoro in chiesa, le interessate partivano poi in “tradotte” per un luogo assolutamente sconosciuto e lontano come la Valle d'Aosta, dalla quale era raramente possibile fare qualche visita ai genitori: solo in caso di morte erano concessi brevissimi permessi. Anche diventare madre era complicato, spesso l'operaia lavorava sino a qualche ora prima del parto e riprendeva servizio dopo i 40 giorni previsti. 60 ]
Made with FlippingBook
RkJQdWJsaXNoZXIy NTczNjg=