A m a A q u i l o n e • l u g l i o 2 0 2 4
2 3 LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI Eccoci, Francesco. Prima di iniziare questa intervista sento di doverti sinceramente ringraziare per questo libro, così umano e così necessario per tutti, non solo per chi ha condiviso con te questa lunga storia. È un libro ospitale, perché chiunque lo legga, quale che sia la sua esperienza, si senta accolto tra queste pagine e finisca con “l’indossare” la vostra storia seguendo una tua bellissima sottolineatura: «Abbiamo preferito indossare la nostra storia, abituati all’emergenza, cercando di abbandonarci a una visione “indomabile”, laica e vastissima, più che affidarci alla certezza delle nostre azioni personali». È il tuo/vostro non metodo, la cui essenza è tutta riassunta nel titolo, “La stanza degli ospiti”. Cominciamo da qui… Francesco Cicchi: La stanza è un luogo fisico. Se usiamo il sinonimo “camera” lo cogliamo meglio: l’accoglienza è preparare con cura la camera per l’ospite. Ma poi è anche metafora di altro. C’è un lavoro che mi capita di fare con i ragazzi: spiego loro che dentro di noi siamo pieni di stanze, la stanza della paura come quella dell’amore. Dobbiamo visitarle e scoprirle, perché ognuno è diverso e le stanze di Giuseppe non sono quelle di Andrea. Per portare allo scoperto questi mondi interiori, l’unico metodo è quello della reciprocità: prendersi cura dell’altro vuol dire prendersi cura di me. Per questo l’operatore si mette non di fronte, ma di lato, sta accanto, accompagna nel percorso, cammina insieme. Colpisce nel libro la sottolineatura ripetuta del valore del ripetere gli stessi gesti ogni giorno. Perché li ritieni essenza del percorso di cura? F.C.: Perché sono l’espressione più vera dell’amore, che non è enunciazione teorica o sentimentale. L’amore è pratica quotidiana, è regola, è la ripetizione del rosario delle cose semplici. Le cinque parole con cui nel libro decliniamo il verbo amare – accoglienza, semplicità, spiritualità, bellezza, dignità -, implicano la concretezza di una ritualità. L’opposto di qualsiasi affermazione dogmatica. Amare è anche la fatica di dire “ti voglio bene”: è incredibile quanta fatica comporti! Ma alla fine è la pratica quotidiana che ti guida ad uno sguardo diverso nei confronti dell’altro, che poi è uno sguardo diverso verso se stessi. Dire “ti voglio bene” genera un volere bene a se stessi. Che peso hanno i nomi nella storia di Ama Aquilone? Il libro ne è pieno… F.C.: Preciso che sono nomi, non cognomi. Un po’ come accade con gli angeli… Nel nome c’è tutto, perché è quello che i tuoi genitori ti hanno dato, hanno scelto per te. E quella scelta custodisce un gesto d’amore, da cui scaturisce una storia, bella o sfortunata che sia. Perché il valore del nome resta anche se ad esempio sei figlio di un abuso: ti dà un’identità, è una cosa che ti viene data e che ti fa vivere. Faccio sempre una raccomandazione agli operatori: chiamare per nome e mai per cognome. Il nome mi emoziona sempre. Recentemente, in occasione di un esame in Ematologia, al mio turno mi sono sentito chiamare dall’infermiera: “Francesco, vieni”. Quell’approccio ha ribaltato il mio stato d’animo, mi ha aiutato a vivere quella situazione. Per te i tuoi genitori hanno scelto un nome che s’addice molto alla tua storia… F.C.: Penso spesso alla situazione di quando sono nato. Mia mamma mi ha partorito in casa e cosa ha fatto mio padre? È andato in Comune per darmi un nome: c’è tantissimo in quel gesto. Era una scelta condivisa, dato che mia mamma era devota a san Francesco e, quando suo fratello era soldato nella campagna di Russia, andava sempre ad Assisi per chiedere protezione. Poi, il nonno paterno si chiamava Francesco. Nel libro non ne parli, ma c’è un episodio del Vangelo su cui vorrei mi dessi un tuo pensiero. È quello di Marta e Maria, quando Gesù va a trovare le due sorelle di Lazzaro e mentre una sta lì ad ascoltarlo, l’altra è costretta a darsi da fare per accogliere la banda degli apostoli. Tu da che parte stai? F.C.: Umilmente dico che sto dalla parte di Marta. Perché esprime l’amore nei confronti di Gesù attraverso una pratica, un fare. Del resto era un approccio familiare anche agli apostoli, che erano gente di lavoro. Marta si preoccupa di accogliere nel migliore dei modi e manda un messaggio potente. È un’attenzione inaspettata, che ti disorienta. Mi ricorda l’approccio di uno psichiatra che ha lavorato in Comunità, Alberto Mancini, che quando vedeva un ragazzo andare in down, lo portava subito a correre con lui, o a volte a lavorare la terra. L’attenzione all’altro si esprime sempre attraverso una pratica. A proposito di correre: il percorso di cura prevede un traguardo? F.C.: Non conta il traguardo, conta il cammino. Spesso la tentazione degli operatori è quella di mettere al centro il risultato e, per ottenerlo, cercano di essere innovativi. Invece io insisto nel raccomandare di essere ripetitivi, perché è nella ripetitività che un ragazzo trova la strada. Nel fare con regolarità e fedeltà le stesse azioni: è una strada che porta ad un recupero di spiritualità e che vale anche per chi ha deficit cognitivi causati dalla sua esperienza di tossicomane. Attraverso la ripetitività si ritrova se stessi e soprattutto si sperimenta di nuovo uno stupore nei confronti della realtà. Lo stupore è la chiave che apre a tutto. Chi si droga pratica una ripetitività ossessiva per cercare l’adrenalina, la scossa emotiva effimera. Praticare una ripetitività di gesti normali in grado di riaccendere uno stupore davanti alle cose, lo ripeto, è la chiave di tutto. Le stanze, le case: l’esperienza di Ama Aquilone è definita dai luoghi. Ad un certo punto del libro (e Vittorino Andreoli lo sottolinea nell’introduzione) si inserisce un up-grade: la casa-cattedrale. Ama Aquilone è una realtà aperta a tutte le esperienze spirituali, ma laica. In che senso la casa è anche cattedrale? F.C.: Nel senso che è il luogo dove ci ritroviamo e dove celebriamo ogni giorno la messa della vita. È il luogo della celebrazione della vita, ma anche della morte, dove siamo chiamati a pensare a tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Dove guardiamo alle tante fatiche di cui è stipato il cammino. Ho usato l’immagine della cattedrale non certo per retorica. La casa è il luogo fisico della regola, della ripetitività quotidiana, dove si riscopre la bellezza dei gesti anche grazie alla bellezza di ciò che ci circonda e di ogni minimo dettaglio. È il luogo di una fatica, dove si fa largo quello stupore di cui abbiamo parlato. Per questo alla fine è come una cattedrale, una cattedrale della vita. € 13,00 www.infinitoedizioni.it - info@infinitoedizioni.it FB: Infinito edizioni - IG: Infinito edizioni X: @infinitoed Un gruppo gruppo di ragazze e ragazzi decide di “accompagnare il viaggio” di coloro che la società benpensante nasconde sotto lo zerbino: i senza fissa dimora, i rom, le prostitute, i minori senza famiglia, i tossicodipendenti. Questo è il diario dei loro primi quarant’anni di attività, una narrazione nella quale la storia sociale si intreccia con la Storia: le prediche di don Gallo e la nascita delle prime Comunità terapeutiche, la rivoluzione di Franco Basaglia, la “scoperta” dell’AIDS e il proibizionismo, fino ad arrivare al cuore dei nostri giorni. Il racconto di un nuovo eroismo che ribalta i paradigmi dell’accoglienza, mettendo al centro la reciprocità, la tenerezza, l’ironia. «La stanza degli ospiti è fatta di autenticità, di condivisione, di cooperazione, di aiuto reciproco. E si respira nell’aria che “il tuo io è dentro l’altro e l’altro è parte del tuo essere al mondo”». (Vittorino Andreoli). Francesco Cicchi è fondatore e presidente della Cooperativa sociale Ama Aquilone, una delle realtà più rappresentative della regione Marche, impegnata da oltre quarant’anni sul fronte della marginalità, della pace, dell’integrazione. È autore di Pietra. L’anima e l’infinito da abitare (La Meridiana, 2017). Alessandra Morelli scrive per il teatro, la narrativa, l’arte contemporanea. Francesco Cicchi con Alessandra Morelli La stanza degli ospiti e d i z i o n i infinito GRANDANGOLO GRANDANGOLO GRANDANGOLO Francesco Cicchi con Alessandra Morelli La stanza degli ospiti Presentazione di Vittorino Andreoli La stanza degli ospiti Intervista di Giuseppe Frangi a Francesco Cicchi Il senso del cuscino È un cuscino l’immagine simbolo di Ama Festival 2024. Bellissima intuizione di Andrea Castelletti: il cuscino è il luogo dove appoggiare la testa, dove trovare riposo dopo tanto errare: «Cara testa, appoggiata sul cuscino,/ dentro la neve del letto», cantava Giovanni Testori, testimone commosso al trapasso della vecchia mamma. Il cuscino è luogo caldo che qualcuno ha avuto la premura di preparare, pulito e accogliente, per far sentire a casa chi vi si poserà. Il cuscino è anche soffice, volume senza spigolature, forma che si chiude con molta gentilezza con le alette della federa che lo ricopre. Il cuscino si lascia plasmare, senza opporre resistenze: non pone condizioni. Come quello che compare sulla copertina di Itaca e sui manifesti del Festival, che custodisce la memoria, cioè la forma di chi ha appena accolto. Il cuscino ha anche un suo luogo deputato: è la stanza. E non a caso “La stanza degli ospiti” è il titolo di questa edizione di Ama Festival, titolo derivato dal libro di Francesco Cicchi, appena pubblicato, che è un po’ al centro della due giorni. È bello che Ama Festival proponga un percorso non imperniato su una categoria, pur buona come certamente quella dell’ospitalità, ma imperniato su un percorso che fa riferimento ad una situazione specifica e circoscrivibile: lo spazio fisico destinato a colui che viene ospitato. La stanza a lui o a lei destinata. La stanza che è lì, in attesa della presenza inattesa per cui è stata amorevolmente predisposta. La stanza è un deposito di storie, le tantissime che Henri Matisse, La sieste, 1938 hanno intessuto gli oltre 40 anni di vita della cooperativa Ama Aquilone e che fanno da sottofondo alla storia ricostruita nel libro scritto da Francesco Cicchi insieme ad Alessandra Morelli. La parola ospite ha una caratteristica particolare: vale sia in accezione attiva e passiva. Ospite è colui che viene accolto ma è anche colui che accoglie. L’inglese divide in “guest” e “host” per definire rispettivamente chi è ospitato e chi ospita. Nelle lingue latine invece non si fanno distinzioni, ed è una vera fortuna avere a disposizione un termine che incorpora questa sovrapposizione di senso. Tra ospite-ospitato e ospite-ospitante c’è più che una complementarietà di ruoli, c’è una comunanza di destino. Leggiamo nel libro: «Eravamo piuttosto giovani compagni di viaggio, con i quali i nostri ospiti, barboni, zingari, prostitute o tossicodipendenti, avrebbero percorso insieme un pezzo di strada». Sono le storie di tante individualità che vengono ospitate dentro l’esperienza di un noi. Un noi che è frutto di una coscienza cresciuta sul campo, come racconta Vittorino Andreoli nell’introduzione al libro: «L’ostinazione dei nostri gesti semplici, e un po’ spericolati, avrebbe dimostrato di lì a poco che non esisteva un confine tra il benessere del singolo e quello sociale, né una legittimità nell’affermare “questo non è un mio problema”, perché tutto ciò che accade è, in realtà, un’armonica connessione o, come avremmo fatto incidere su molti dei nostri oggetti quotidiani, tutto è me». Nella stanza dell’ospite tutto è me, cioè tutto è noi. Giuseppe Frangi Francesco Cicchi, presidente e fondatore della Cooperativa Ama Aquilone F. Cicchi, La stanza degli ospiti, Infinito Edizioni
4 5 Chi ospita è ospitato Fratelli tutti la salvezza, ma solo insieme Se vi è un tratto specifico dell’uomo, questo deve essere individuato in ciò che il filosofo Jaques Derrida felicemente definisce “un invincibile desiderio di giustizia”. Non si può negare l’evidenza che mostra come questo desiderio “invincibile” sia in realtà continuamente “vinto” all’interno di un agire che trasforma la giustizia, nei migliori dei casi, in una astratta ricerca di equilibrio, e, il più delle volte, come per altro Nietzsche aveva ben compreso, in una mera volontà di rivincita, cioè in pura e semplice vendetta. Qualcosa di simile accade, così penso, per l’ospitalità, per l’agire ospitale. C’è un modo di ospitare che ha qualcosa di perverso. Si tratta di quella che definisco “ospitalità assoluta”: si ospita per il gusto e la gratificazione di ospitare; all’interno di un simile ospitare, l’ospitante è più affezionato (quasi ne gode) al valore astratto dell’ospitalità che attento alla concreta determinazione, all’unicità, dell’ospite. L’“ospitalità assoluta” si prende così cura più dell’ospitalità che dell’ospite; da questo punto di vista essa ama alla follia il gruppo, ha una vera passione per lo spirito di gruppo, mentre non ha alcuna autentica preoccupazione per l’unicità dei soggetti che ospita, poiché è del tutto paga del semplice fatto di ospitarli: più ospiti ospita più è soddisfatta, e neppure immagina che per un soggetto “finito e mortale” un’autentica attenzione verso uno debba talvolta escludere l’attenzione per l’altro. Così facendo l’“ospitalità assoluta” rischia sempre di ospitare tutti, di voler ospitare tutti, ma mai pienamente nessuno. L’“ospitalità piena”, invece, è quella che un soggetto finito e mortale, riconoscendosi tale, esercita nei confronti di un soggetto a sua volta finito e mortale; appartiene all’esercizio di questa ospitalità l’attenzione per l’unicità di ciò che si ospita, ed essa è definita non solo dal saper riconoscere il limite, ma anche dal sapersi imporre un limite (vero antidoto ad ogni perversione): questa pratica dell’ospitalità, infatti, sa che per essere piena deve rinunciare a voler essere assoluta. A questo proposito vorrei fare un riferimento alla riflessione di Emmanuel Levinas sulla “casa”, che mi sembra cogliere un punto essenziale del modo d’essere del soggetto ospitante, un modo all’interno del quale il raccogliersi in sé deve essere sempre coniugato con l’essere accolto dall’altro da sé. Ad avviso di Levinas, ciò che dimora, ciò che abita, per utilizzare un termine che preferisco, non è mai l’essere, ma sempre e solo il singolo, un singolo uomo, e questi abita come singolo, come sé, solo all’interno di un luogo in cui si trova accolto dall’altro da sé. Se, come vuole Heidegger, l’uomo esiste come uomo in quanto abita, allora egli abita, e non semplicemente esiste o sussiste, proprio perché è egli stesso abitato; si potrebbe anche dire: l’esperienza del soggetto, esperienza dell’abitare, ma anche esperienza che è essa stessa un abitare, non può mai prescindere dal fatto che il soggetto stesso, l’abitante, è a sua volta abitato da un’alterità (ecco, direbbe Levinas, il tema non-heideggeriano per eccellenza) che in alcun modo è in grado di trascurare e misurare. In estrema sintesi: l’uomo, nel suo vivere da uomo, abita, e non solo esiste, perché è a sua volta abitato, perché la sua esperienza di uomo è al tempo stesso sempre quella di un essere abitante/abitato. Marc Chagall, Doppio profilo su sfondo blu e verde, 1950 ” L’uomo, nel suo vivere da uomo, abita, e non solo esiste, perché è a sua volta abitato, perché la sua esperienza di uomo è al tempo stesso sempre quella di un essere abitante/abitato. “ I valori dell’ospitalità e dell’accoglienza hanno un testo di riferimento molto attuale: è l’enciclica “Fratelli tutti” promulgata da papa Francesco il 3 ottobre del 2020, enciclica come lui ha spiegato dedicata «alla fraternità e all’amicizia sociale». Fraternità e amicizia sociale per Francesco non sono astratte utopie. Esigono decisione e la capacità di trovare percorsi che ne assicurino la reale possibilità di attuarsi. L’importanza di questa Enciclica sta nel fatto che non suggerisce solo visioni di valori, ma incalza tutti rispetto alla messa in pratica di quei valori, suggerendo percorsi e buone prassi e aperture concrete di nuovi orizzonti. Rileggerla è un modo di mettersi in cammino. (Riccardo Bonacina) Ospitalità, con tutto il riguardo e la premura possibili Non è un caso che molte piccole popolazioni sopravvissute in zone desertiche abbiano sviluppato una generosa capacità di accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio, dando così un segno esemplare del sacro dovere dell’ospitalità. Lo hanno vissuto anche le comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola di San Benedetto. Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati «con tutto il riguardo e la premura possibili». L’ospitalità è un modo concreto di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo. Quelle persone riconoscevano che tutti i valori che potevano coltivare dovevano essere accompagnati da questa capacità di trascendersi in un’apertura agli altri. Fare propria la fragilità degli altri La parabola del Buon Samaritano è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti, oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana. Senza fraternità non c’è libertà La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore. Essere aperti alle differenze Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse. Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e, a tale scopo, la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo, dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, «non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana». Accogliere il bene delle esperienze altrui Quando si accoglie di cuore la persona diversa, le si permette di continuare ad essere sé stessa, mentre le si dà la possibilità di un nuovo sviluppo. Le varie culture, che hanno prodotto la loro ricchezza nel corso dei secoli, devono essere preservate, perché il mondo non si impoverisca. E questo senza trascurare di stimolarle a lasciar emergere da sé stesse qualcosa di nuovo nell’incontro con altre realtà. Non va ignorato il rischio di finire vittime di una sclerosi culturale. Perciò «abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui». Ospitalità, amare e curare la propria casa Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro, se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa, perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti. Papa Francesco L’ospitalità è un modo concreto di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo. ” “ Silvano Petrosino LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI
6 7 Ciò che li muove è un desiderio Matteo Garrone Cosa l’ha spinta a prendere di petto con il suo film il grande tema delle migrazioni? Avevo l’idea di questo film (Io capitano ndr) da molto tempo, da quando diversi anni fa in un centro d’accoglienza un ragazzo di 15 anni mi aveva raccontato di essersi dovuto mettere alla guida del barcone senza averlo mai fatto prima. Un’immagine che mi era rimasta impressa. Poi però avevo accantonato il progetto, soprattutto perché avevo qualche timore nell’entrare in una cultura che non era la mia, non volevo essere l’ennesima persona a speculare sui migranti. Ma poi mi sono convinto del fatto che ciò che resta è il film, e quello è l’importante. Spero che sarà visto dai giovani italiani, è pensato anche per loro, affinché si riconoscano in questi personaggi e magari prendano coscienza dei propri privilegi. Io capitano, 2023 Arturo Martini, L'ospitalità (Pietà), 1931 Una delle parole che stanno alla base di questo suo approccio alla migrazione è desiderio. Ce la spiega? Il motore che mi ha spinto, che ha spinto me in prima persona a fare questo film, è cercare di far capire, o almeno di raccontare, che dietro quei numeri ci sono delle persone, con dei desideri. Gli stessi desideri che da ragazzi avevamo noi, di viaggiare, con le famiglie che si preoccupano, i sogni da inseguire, con la differenza che loro si trovano all’interno di un sistema che gli impedisce di muoversi. Ho raccontato un tipo di migrazione diversa da quella che di solito sentiamo, che prevede che un migrante debba partire solo a causa di una guerra o dei cambiamenti climatici. Gran parte di loro sono semplicemente giovani, che come tanti anche del nostro Paese, hanno accesso ai social, vedono il nostro mondo e desiderano opportunità migliori, occasioni di guadagno per poter aiutare la famiglia o semplicemente desiderano conoscere posti nuovi. Questo a loro è precluso, mentre noi prendevamo l’aereo e andavamo a vedere l’America o l’Inghilterra o i Paesi che volevamo conoscere, loro per farlo devono mettere in gioco la loro vita: è questo che mi ha spinto a fare questo film. Fare un film così è come dare “ospitalità” ad una storia che non viene mai raccontata nella sua verità? Il tentativo è stato quello. C’è chi scappa da guerre, da povertà estrema o cambiamenti climatici, ma in Africa ci sono 52 Stati, quindi quando fuggi da un conflitto e non hai nulla, la cosa più facile è spostarti nel Paese accanto, perché affrontare un viaggio verso l’Europa costa molti soldi. Ho semplicemente dato voce a dei racconti ancorati a storie vere, documentabili, persone che mi dicevano di essere partite, perché volevano in qualche modo cercare fortuna, avere accesso a un mondo che poi è un mondo globalizzato, perché i social ci sono anche in Senegal. I miei due ragazzi vengono da una povertà dignitosa, qualcosa come l’Italia degli anni Cinquanta, c’è il piatto a tavola e c’è questa capacità di relazione delle famiglie numerose, dove la sera ancora si raccontano le storie, invece di stare attaccati ai cellulari. Ma c’è anche la voglia di accedere a un mondo che sembra ricco di promesse, di possibilità di realizzarsi nel lavoro e di aiutare la famiglia per poi tornare in Africa. Le spinte sono tante, ma tra queste cose c’è anche il desiderio di conoscere il mondo. Sono giovani, no? E il settanta per cento degli africani sono giovani. C’è una domanda cui non sanno darsi una risposta: perché dei loro coetanei possono venire liberamente in vacanza in Africa con un aereo, mentre, se loro cercano di andare in Europa, devono rischiare la vita su un barcone? Ma si può tenere fuori dalla porta un mondo che preme? Abbiamo di fronte giovani che, grazie a internet, hanno una finestra costante sull’Occidente e non sanno darsi una risposta al perché i loro coetanei possono venire tranquillamente in Africa, mentre loro non possono andare liberamente in Europa per realizzare i loro sogni. E comunque una cosa è sapere dei pericoli in astratto, un’altra è viverli in concreto. Seydou e Moussa partono con quell’atteggiamento candido e un po’ spavaldo tipico dei giovani di ogni tempo, che vogliono conoscere il mondo e sono convinti di riuscire a compiere qualsiasi impresa. In questo senso il mio film è anche un racconto di formazione: mentre lo realizzavo pensavo ai romanzi di avventura di London e di Stevenson in cui l’eroe affronta una serie di prove che lo fanno crescere. LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI na premessa necessaria: non c’è un motivo per cui continuare a leggere versi scritti in metrica secoli fa, se non per un costante bisogno di eroi (archetipi, direbbe qualcuno) che siano in grado di tra-durre, ovvero di condurre alla comprensione, ciò che nel nostro presente storico e umano appare incomprensibile: la speranza degli esuli che per altri si fa lutto e violenza, l’onore che produce orrore, l’amore che porta abbandono. Il nodo è in quella che gli antichi chiamavano xenìa, cioè la “capacità di essere ospitale”. Un vincolo sacro, una legge non scritta che imponeva, pena l’ira degli dèi, di accogliere chiunque si presentasse alla porta di casa senza essere stato invitato, e la cui necessità di essere ospitato era prioritaria rispetto alla conoscenza del nome, della condizione e dell’ascendenza familiare. L’etimologia ci suggerisce che l’ospite è normalmente qualcuno che viene da lontano, che ha bisogno di una sistemazione temporanea e con il quale il padrone di casa intesse uno scambio. Ma se a trovarsi sul limitare dell’uscio sono una donna ed un uomo, tutto diventa intimamente più complesso: il racconto epico lo descrive, oltre ogni ragionevole dubbio. Nel VI libro dell’Odissea, Ulisse approda, esausto, nell’isola di Scheria, dimora del popolo dei Feaci. Nascosto tra i cespugli, decide di mostrarsi nudo a Nausicaa, figlia del re dei Feaci, che si era recata al fiume insieme alle sue ancelle. Contrariamente alle compagne, che fuggono alla vista di quell’uomo sconosciuto e dall’aspetto spaventosamente trascurato, Nausicaa, ispirata dalla dea Atena, resta davanti ad Ulisse e lo ascolta parlare. Poi gli procura del cibo, acqua ed una veste pulita, ammonendo le ancelle: “È un misero naufrago che è capitato, e dobbiamo curarcene; provengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.” L’amore che si deve al profugo (del perché l’epica nonmuore mai) Alessandra Morelli U L’ospitalità, sembra dire Omero, è una postura dell’animo, che è tanto più armonica quanto più gli esseri umani sono differenti tra loro, come Nausicaa ed Ulisse: una giovane ed un adulto, una principessa ed un mendicante, una protettrice ed un superstite. Non di rado l’ospite arriva dal mare: è in questo caso che l’epica conferisce al cuore femminile lo spazio massimo di accoglienza nei confronti di tutti i dispersi. Nel I libro dell’Eneide, Virgilio descrive il naufragio dei Troiani sulle coste di Cartagine. Tra loro c’è anche Enea. Giunto con i suoi compagni in città, incontra la regina Didone, una donna profondamente sola che, dopo la cruenta perdita del marito Sicheo, l’amore della sua vita, ha vagato per molto tempo, prima di trovare un luogo in cui stabilire la sua nuova dimora. Didone si riconosce nel dolore dei profughi che ha davanti a sé, e li accoglie: “una sorte simile alla vostra volle che anch’io, travolta da mille affanni, infine mi fermassi in questa terra: provata dal dolore, ho appreso a soccorrere gli infelici.” Le parole della regina di Cartagine testimoniano come l’ospitalità sia qualcosa che si può imparare, nonostante il proprio dolore e grazie al dolore di un altro. Ci si incontra, per starsene un po’ al sicuro. Prima di tornare in mare aperto. Alessandra Morelli
8 9 Fa la sua apparizione ora, il personaggio nuovo e straordinario del nostro racconto. Straordinario prima di tutto per bellezza: una bellezza così eccezionale, da riuscire quasi di scandaloso contrasto con tutti gli altri presenti. Anche osservandolo bene, infatti, lo si direbbe uno straniero, non solo per la sua alta statura e il colore azzurro dei suoi occhi, ma perché è così completamente privo di mediocrità, di riconoscibilità e di volgarità, da non poterlo nemmeno pensare come un ragazzo appartenente a una famiglia piccolo borghese italiana. Non si potrebbe neanche dire, d’altra parte, che egli abbia la sensualità innocente e la grazia di un ragazzo del popolo… Egli è insomma socialmente misterioso, benché leghi perfettamente con tutti gli altri che stanno intorno a lui, in quel salone magicamente illuminato dal sole. La sua presenza lì, in quella festa assolutamente normale, e, dunque, quasi di scandalo: ma di uno scandalo ancora piacevole e carico di benevola sospensione. La sua diversità consiste, in fondo, soltanto nella sua bellezza. E tutti, le signore e le ragazze, lo osservano - senza naturalmente mostrarlo troppo, ben conoscendo in uno, lì dentro, la principale regola del gioco, che consiste nel non scoprirsi mai, a nessun patto. Dentro i limiti della più disimpegnata discrezione, quindi, qualche amica di Odetta, o qualche amica giovane della madre, chiedono chi è quel bel ragazzo nuovo. Ma Odetta alza le spalle. E Lucia si limita a qualche informazione altrettanto disimpegnata, se non a un puro e semplice sorriso. Insomma, di lui non sapremo niente; e del resto non è necessario saperlo. Il corpo è come un soffio carnale pieno di salute fisica e quindi anche - per la crudeltà delle cose giuste - morale. Con quel suo corpo, intatto, misura di un altro mondo- quello dell'innocenza tra salvatrice – l’ospite va a sedersi sul bordo del letto, pronto al suo dovere, con pieta, forse, ma senza nessuna umiliante compassione La nostra famiglia borghese, col suo ospite, è a tavola, così come è già stato tante volte nel corso di questa storia (il suo pranzo è pieno di grazia, ogni particolare della tavola apparecchiata potrebbe essere particolare di un affresco dei tempi in cui la produzione era umana). Chino sul suo piatto ognuno mangia in silenzio. I segreti sguardi d'amore per l’ospite, ognuno se li coltiva dentro di sé, come un affare che riguarda soltanto lui. L’amore comune per l'ospite non è infatti qualcosa che accomuna, e davanti a cui cade ogni difesa, come nelle occasioni in cui si può ingenuamente godere o soffrire insieme. Tutti i membri della famiglia sono resi uguali tra loro dal loro amore segreto, dal loro appartenere all’ospite: non c'è più dunque differenza tra l’uno e l’altro. Lo sguardo di ognuno ha lo stesso significato, lo stesso fine: ma, tutti insieme, non fanno certo una chiesa. (Anche se sacro è il silenzio di quel loro pranzo). Pier Paolo Pasolini Pasolini Appartenere all’ospite È il protagonista senza nome di Teorema, il romanzo e poi anche film che PPP scrisse nel 1968. L’ospite è lo scardinatore dolce e silenzioso di un ordine, quello della famiglia borghese. Presenza imprevista, ma inevitabile. Portatore di un soffio sacro senza etichette. Una sorta di “folle di Dio”, che arriva e se ne va come danzando, senza mai smettere di sorridere, e che riesce a stanare ad uno ad uno tutti i membri della famiglia, allacciando con loro rapporti intimi, senza intaccare la sua purezza. Ecco come lo scrittore lo presenta. LA STANZA DEGLI OSPITI Terence Stamo, l'ospite in Teorema VAN GOGH LA CASA GIAL LA, CON STANZA PER L’OSP I TE Vincent Van Gogh, La casa gialla, 1888 Il 1 maggio 1888 Vincent Van Gogh, arrivato da poche settimane ad Arles, affittava una piccola casa affacciata su Place Lamartine. Era una casa d’angolo con un locale a piano terra, adibito ad atelier, e due stanze in cima alla scala: una per sé e l’altra in attesa di avere un socio per condividere il sogno di una fraternità tra artisti: tra ottobre e dicembre di quello stesso anno sarebbe stata la camera di Paul Gauguin, prima che la convivenza precipitasse nella drammatica notte culminata con il gesto autolesionistico di Van Gogh. Quella casa oggi non c’è più perché, a causa dei danni subiti con le bombe alleate del giugno 1944, alla fine della guerra è stata demolita. Della casa esistono vecchie fotografie ed esiste soprattutto un quadro dipinto nel settembre 1988, uno dei suoi capolavori oggi custodito al Van Gogh Museum di Amsterdam. È grazie a quel quadro che oggi sappiamo il colore della casa: un giallo intenso, quasi abbagliante, che si ritaglia sul blu profondo del cielo. La “Casa gialla”, dunque, proprio come è stata ribattezzata la Casa Augusto Agostini che accoglie le mamme con i loro bambini. Una casa voluta dal grande e sfortunato artista per via di quella camera in più: la camera per l’ospite desiderato e atteso. E il colore giallo è l’espressione cromatica dell’intensità di quel suo desiderio. Su piazza Lamartine si svolgeva quasi tutta la sua vita: al numero 28 della piazza c’era la trattoria dove era solito mangiare. La titolare, la vedova Venissac, era anche la proprietaria dell’abitazione. Sulla destra si vede il ponte della linea ferroviaria che collegava Parigi a Marsiglia: da quel treno Van Gogh era sceso pieno di speranze per avviare la sua stagione al sud. Appena oltre il ponte, abitava il postino Joseph Roulin, un omone buono che conosciamo grazie ai ritratti che Van Gogh gli ha fatto e che con la sua famiglia aveva mostrato sempre grande affetto per il pittore. L’accensione reale o immaginaria del giallo della casa è il corrispettivo dell’accensione della sua anima, che in quei mesi era tutta tesa a realizzare un’esperienza di condivisione, a rompere il guscio della solitudine. Scriveva al fratello Theo in quelle settimane: «Sai mi è sempre sembrato idiota che i pittori vivano da soli. Si perde sempre quando si è isolati». In contemporanea aveva contattato Gauguin, annunciandogli di aver preso quella casa con una stanza per l’ospite: «Io da solo soffro un poco di questo isolamento. E mi sembra che se trovo un altro pittore che abbia voglia di sfruttare il sud e che, come me, sia tanto assorbito dal proprio lavoro da essere disposto a vivere come un monaco, allora la cosa si potrebbe concludere». E ancora al fratello Theo: «Vivendo soli sia l’uno che l’altro si vive come dei matti o dei malfattori, in apparenza almeno, è un po’ anche in realtà». Riuscì nell’intento, per 66 giorni densi di capolavori, ma anche di insofferenze reciproche. Poi, dopo la partenza di Van Gogh, quella stanza è rimasta vuota. Ma è rimasta vuota anche la casa, perché l’artista passò gran parte dei mesi successivi, prima del ritorno al Nord, nell’ospedale psichiatrico di Saint Remy. Tra le persone che avevano messo piede nella Casa gialla c’era Paul Signac, pittore anche lui. Ecco la sua testimonianza: «Mi portò nella sua abitazione a piazza Lamartine e ho visto quadri meravigliosi, i suoi capolavori: immaginate lo splendore di quei muri imbiancati a calce su cui spiccano i suoi colori in tutta la loro freschezza». Era la luce del cuore ferito e ospitale di Van Gogh. Giuseppe Frangi “La mia casa qui è dipinta all'esterno di un giallo-burro e ha le imposte verdi. Si trova in pieno sole in una piazza sulla quale si affaccia anche un parco di platani oleandri e acacie”. Vincent Van Gogh
12 13 Un dizionario di parole aperte Alla voce “Ospitalità” Nella Lettera agli Ebrei San Paolo scrive: “Non dimenticate l’ospitalità poiché per essa alcuni ospitarono angeli senza saperlo” (13,2). C’è da intendersi sulla definizione di angeli. Non sono quelli alati dei dipinti. Sarebbe troppo evidente offrire loro un posto a tavola. Si tratta invece di figure umane, “angheloi” vocabolo greco che indica i messaggeri. Il verso citato dice che gli ospiti potrebbero essere “angheloi”. Questa eventualità dovrebbe disporre a dare il benvenuto. Credo che sia più di un’eventualità. Credo che ogni ospitalità riceva in cambio un messaggio. Ogni ospitalità è una lettera giunta a destinazione. Ogni forestiero è “anghelos”. Ma io, quando sono stato accolto, ho lasciato o recapitato un messaggio? Se è successo, non me ne sono accorto. Ho tentato di essere impercettibile, dileguandoRobyn Denny, Baby is Three, 1960 mi come i fantasmi prima dell’alba, per andare in fabbrica. Riordinavo il letto, cancellavo tracce di passaggio in cucina prima di uscire. Quando rientravo tardi dal turno serale mi toglievo le scarpe fuori della porta per non fare rumore. Non so di che messaggio posso essere stato portatore. Restituendo le chiavi, chiudendomi l’uscio alle spalle con il mio bagaglio leggero, potevo solo dire a me stesso che non avrei dimenticato l’ospitalità. Ancora oggi a distanza di decenni so a chi devo la gratitudine di essere stato ospitato. Alla voce “Amicizia” La parola ha di molto allargato il suo campo di applicazione. Sui siti della rete indica poco più di un riconoscimento di contatto. Chi frequenta queste piattaforme si trova accreditato di decine e centinaia di tali amicizie. Ne faccio un uso più ristretto. Comporta per me un processo di frequentazione disteso nel tempo. Non è sufficiente essersi battuti sulla stessa barricata, condividere gusti, riti, viaggi. Un’amicizia si fonda su una reciproca selezione ed è sottoposta a continua conferma. Ha per suo statuto la lealtà. Ho allentato e sciolto amicizie per ragioni importanti, per cadute di stima. Peggio quando, invece dell’amicizia, è l’amico a morire. A maggio di qualche anno fa si è fermato di colpo il cuore a Giuliano, Giuliano Fachiri, conosciuto quando si era entrambi autisti nei convogli della guerra di Bosnia. A forza di su e giù si è prodotta la misteriosa caloria dell’amicizia. Ci si trovava nei miei giri per libri, mi fermavo da lui sull’Appennino bolognese e poi si andava insieme. Quando toccava a me pagare il conto in trattoria Giuliano non guardava la lista, prendeva quello che chiedevo io. Così in quei casi ordinavo le sue pietanze preferite, sempre tagliatelle, da non chiamare con lui fettuccine. Di simili minuscole premure è costituita l’amiciDa anni lo scrittore tiene un diario sul sito della sua Fondazione. Viaggiando con lui tra quelle pagine puntuali, sagge e semplici abbiamo trovato tre voci che aiutano ad approfondire il tema di Ama Festival 2024. zia. Sua madre tirava la sfoglia delle tagliatelle per cinque figli maschi. Svuotavano i piatti così in fretta che lei vedendoli ripuliti chiedeva se gliele aveva date. Queste sue storie non si stancava di dire e io di ascoltare. A pensarci cala un’ombra nel palmo della mano che ha conosciuto la stretta delle nostre due e mi succede di serrare il pugno. Ma dice un proverbio spagnolo che gli piaceva: nessuno ti toglie quello che hai ballato. Nessuna morte può revocare l’amicizia. Alla voce “Camminare” Ragionare coi piedi: ho imparato a scuola questa espressione di scherno rivolta agli scolari. Non ho avuto obiezioni alla formula finché non ho cominciato a salire in montagna. Nelle salite come nelle discese ho imparato a ragionare coi piedi. Appoggiarli sul ripido senza farli slittare. Misurare l’ampiezza della falcata secondo la pendenza. Guardare i punti di appoggio per i piedi prima di effettuare il passaggio con le dita sulla parete. Lo scalatore sa che vengono prima i piedi delle mani. Il loro appoggio trovato decide il successivo movimento del corpo. Si usa l’espressione: intelligenza motoria. In una scalata sta nei pochi centimetri delle dita dei piedi che dettano il passaggio da eseguire. Il primo traguardo dell’infanzia non è il balbettio di qualche sillaba, ma la statura eretta. L’abilità di reggersi staccando le mani da terra sta nei pochi centimetri del piede. La scoperta dell’equilibrio è il primo entusiasmo. Ci ho messo mezza vita a capire che i piedi ragionano, con una sapienza che risale alla scelta decisiva fatta dall’homo erectus. La civiltà umana proviene dalla libertà che i piedi hanno concesso alle mani, staccandole da terra. Il gioco del calcio ha poi assegnato dignità e valore alla macchina del piede. Quello sinistro di Maradona andava imbalsamato. Vorrei ospitare e dare da bere Vorrei scrivere qualcosa come la tazza di tè che i tibetani preparano sul tavolo quando parti. Perché stai già tornando. Perché qualcuno ti aspetta. Vorrei scrivere come una tazza che aspetta. Vorrei una scrittura aspettata. Una tazza accogliente. Vorrei ospitare e dare da bere. I bambini aspettano molto. Aspettano sempre. E si fidano che arriverai. Che tornerai. Se sopravvivi all’infanzia quando è una tempesta, diventi molto friabile. Arrivi a scuola e più avanti al lavoro già stanchissima, perché hai fatto tutta la strada cercando di essere invisibile. Si fa molta fatica a essere invisibili, soprattutto in città, dove ci sono certi sguardi che ti bucano e ti trivellano. L’infanzia, anche quando è spaventosa, è un luogo indimenticabile. Per le correnti. Ci sono delle correnti che ti trasportano in posti senza senso, solo festa. Festa del sangue nelle braccia, nelle gambe in corsa, festa nel respiro mozzato, festa di nascondino: «Liberi tutti!» Giocare è diventare forti, è cimentarsi con la morte e con l’invisibilità, è mancare e poi apparire. Se si sopravvive all’infanzia-tempesta non ci si deve mai dimenticare di non smettere di giocare. Giocare con follia, sempre. Ballare nel bosco. Ballare in cucina. Cantare per i fiori. Parlare alle zanzare. Parlarsi per convincersi di continuare a vivere. Non a sopravvivere, a vivere Apollinaire, Il pleut, 1916 proprio. Clandestinamente vivi, fuoco fino alle ossa, di nascosto. È l’estraneità la malattia di chi non si fa adulto: è che vede le maschere, non ce la fa a credere ai recitanti, vede le quinte. Quanti attori convinti di essere viventi. Quante arie. Per cosí poco. Un ruolo che la morte ti strapperà. Chi torna dall’infanzia ha la morte come compagna. Chi è stato nella tempesta soffre di attacchi di gioia. All’improvviso, senza motivo, senza condizione di significato, arriva. Una gioia da poveracci, leggerissima, brezza dentro. Assomiglia ad aver perso tutto? Assomiglia ad aver perso tutto e poi è domani. “Qui alla frontiera cadono le foglie, e benché i vicini siano tutti barbari e tu, tu sia a mille miglia di distanza, sul tavolo ci sono sempre due tazze”. (Anonimo della dinastia Tang). Cosa intendo, mi chiedo, con la parola «bene» quando lo invio a me stessa o agli altri? Certamente, lo stare bene nella propria pelle, nel corpo e nella mente. Trovare un proprio punto d’appoggio nel mondo, come fanno gli uccelli con i rami e lí trovarsi a proprio agio, intonati al luogo e al momento, e fare un dono agli altri. Avere la forza della consapevolezza: non solo ricevere le sue visite, ma saperne reggere la sfida, la sua forza rivoluzionaria, il suo sguardo sovversivo su se stessi e sul mondo. Seguire le invisibili linee. Vedere con limpidezza e profondità dentro di sé e dentro gli eventi e i fenomeni che incontriamo. Avere la risolutezza di tenere fede alle visioni profonde che sorgono e tradurle in azioni. Saldarsi alle parole, non lasciarle uscire da sole, non lasciarle orfane nel mondo, ma legarle al respiro, al cuore pensante, alla riflessione. Essere gentili senza scadere nella compiacenza, senza venir meno al proprio profondo sentire, ma condividerlo senza imposizioni, con parità e senza alcun intento di colonizzazione. Sapersi proteggere. Aver cura di sé, e quindi degli altri. Vedere il mistero che ci circonda ovunque. Sapersi inchinare e chiedere rifugio. Potersi abbandonare al sonno, perché ci si sente in un luogo abbastanza protetto. Potersi sfamare e dissetare. Poter reggere l’insoddisfazione e interrogarla e vederla trasformarsi in spazio aperto. Studiare il proprio carattere e poterne ridere quando va allo scontro con il carattere dell’altro, poterlo lasciar cadere come un costume di scena. Amare e lasciarsi amare. Vivere, respirare, meditare per addestrarsi a essere nulla. Tratto da Chandra Livia Candiani, “Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano”, Einaudi, 2022 Erri De Luca Chandra Livia Candiani LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI
14 15 LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI La stanza è un luogo fisico. Se usiamo il sinonimo "camera", lo cogliamo meglio: l'accoglienza è preparare con cura la camera per l'ospite. Ma è anche metafora di altro. Dentro di noi siamo pieni di "stanze", i nostri mondi interiori che dobbiamo visitare e scoprire. Per portarli allo scoperto, l'unico metodo è quello della reciprocità: prendersi cura dell'altro vuol dire prendersi cura di se stessi. DOMENICA 7 SALUTI ISTITUZIONALI MAURIZIO FRASCARELLI Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno ENTRARE NELLA STANZA DEGLI OSPITI: LA CURA DELLA RELAZIONE UMANA INTERVENTO DEL PROFESSOR VITTORINO ANDREOLI CERIMONIA DELLE DIMISSIONI DEGLI OSPITI DELLE CASE AMA AQUILONE APERTURA AREA RISTORO Presso la Bio Fattoria Social Ama Terra CIVIX + VOCALIST FISCHIETTO Dj set 70/80/90 Vocal song Francesca Manzella - 17: 00 18:00 18:30 21:30 SABATO 6 PRESENTAZIONE DEL CONCEPT AMA FESTIVAL 2024 con il Direttore Creativo Andrea Castelletti PRESENTAZIONE DEL LIBRO LA STANZA DEGLI OSPITI E DEL SEMESTRALE ITACA con Giuseppe Frangi, Alessandra Morelli e Francesco Cicchi "LA STRISCIA DELLA DISCORDIA" performance teatrale degli ospiti di Casa Aquilone "CARNE VIVA... VEGANA" performance teatrale degli ospiti di Casa Ama da laboratori teatrali a cura di Alessandra Lazzarini ed Emilio luliani BOOKSHOP AREA Nel corso della manifestazione sarà possibile visitare la mostra "Frammenti", con le opere realizzate dal laboratorio creativo delle ospiti di Casa Augusto Agostini, a cura di Nicoletta Cicchi. 21:30 - 22:30 - Raccontarsi e raccontare non con parole ma con immagini. È quello che hanno fatto le ragazze della Comunità Casa Augusto Agostini guidate con sensibilità e maestria da Nicoletta Cicchi. L’esposizione dei loro lavori, in tanti casi davvero sorprendenti per intensità e per invenzioni visive, è parte del palinsesto di Ama Festival 2024. La scelta del collage come tecnica di riferimento è significativa perché rimanda a biografie sofferte, a storie a più strati. Il collage è una tecnica che obbliga a confrontarsi con l’oggettività di ritagli di realtà, in questo caso soprattutto frammenti di carta stampata che sono stati messi loro a disposizione da chi li guidava. L’operazione chiave è quella di rimontare i frammenti per articolare un discorso pubblico su di sé e sul mondo. Il percorso si divide in quattro sezioni tematiche che raccolgono lavori individuali sulla loro storia personale, la violenza sulle donne, la trasformazione delle immagini, la delicatezza e si conclude con un lavoro collettivo di dimensioni molto maggiori, realizzato a sei mani, dove sei volti immaginati come autoritratti e stilizzati alla Fornasetti si affacciano su un pattern compatto di tubetti di colore, di pennelli e sigarette. Un pattern che è un duro condensato di vita ma che nello stesso tempo contiene un ribaltamento di prospettiva. Tutto quello che appare come deposito di resti a terra, è stato strumento per provare a guardare verso il cielo, come recita il titolo dell’opera. "Frammenti" UNA MOSTRA CHE GUARDA VERSO IL CIELO "Regarde le ciel", opera collettiva realizzata delle ospiti di Casa Augusto Agostini
16 17 Antonella Roncarolo accoglienza, nella sua forma più pura, si svela nei romanzi come un rifugio per l’anima, una stanza degli ospiti che accoglie non solo il corpo ma anche le storie e le fragilità di chi varca la soglia. I romanzi che propongo in questo spazio intrecciano le sfumature dell’ospitalità in una narrazione che riscopre continuamente il significato di apertura e accoglienza, insegnandoci che una stanza è molto più di un luogo di sosta temporanea: è un’entità viva, un luogo di incontro tra l’etica dell’accoglienza e l’intima capacità di empatia con l’altro. Il primo spunto è da una piéce teatrale della scrittrice inglese Agatha Christie, colei che ha inventato il genere investigativo della stanza chiusa. Ne “L’ospite inatteso”, la stanza dove il protagonista viene accolto, si carica di tensione e mistero, trasformandosi in un luogo dove l’ospitalità, tinta di sospetto e segreto, diviene quasi un personaggio a sé stante. Il mistero che si snoda attraverso le pagine della Christie trova un singolare eco nei racconti intrecciati del libro “Olive Kitteridge” della scrittrice americana Elizabeth Strout. La protagonista Olive del romanzo, interpretata nella serie HBO dalla straordinaria attrice Frances McDormand, con la sua indole complessa e a tratti burbera, si rivela come un inaspettato rifugio per coloro che cercano comprensione. La delicatezza dell’ospitalità si manifesta con una forza particolare nel romanzo “Mi chiamo Lucy Barton”, anch’esso della Strout, dove il silenzio sterile di una stanza d’ospedale si trasforma in un santuario di cura, condividendo e accogliendo le storie di una madre e una figlia. La fragilità di Lucy, avvolta in racconti e ricordi, si lega all’ospitalità trasformandola da semplice concetto a vissuto emotivo, una connessione che sfida il distacco e il dolore del passato. La scrittrice irlandese Anne Enright scrive nel 2015 il romanzo “La strada verde”, proseguendo questo viaggio attraverso il nucleo familiare, dove la casa della famiglia Madigan diviene teatro di un raduno natalizio che porta alla luce tensioni a lungo sopite. La famiglia si riunisce, e il calore dell’accoglienza cerca di risanare le ferite della distanza e del tempo, tessendo un ricamo di rapporti che si intrecciano tra affetto e conflitto. In contrasto, la dimora che accoglie Tess nel romanzo di fine ottocento “Tess dei D’Urbervilles” dello scrittore inglese Thomas Hardy si rivela essere un rifugio effimero, un luogo di speranza che si contorce in inganno e tradimento. La giovane Tess, attraverso le tappe della sua fuga, si confronta con varie forme di “ospitalità” che mascherano le intenzioni oscure di chi detiene il potere, delineando un ritratto amaro della sua vulnerabilità e della crudeltà del mondo che la circonda. In conclusione un romanzo gotico e del terrore, anch’esso scritto alla fine del diciannovesimo secolo. “L’Isola del dottor Moreau” di H.G. Wells incarna un’ospitalità distorta e corrotta, dove le promesse di accoglienza si perdono tra gli echi di un laboratorio di orrori. Qui, il concetto di ospitalità si spezza, mostrando come sotto la vernice di civiltà possa nascondersi una realtà di sperimentazione e dominio. L' TITOLO L’ospite inatteso AUTORE Agatha Christie CASA EDITRICE Mondadori TITOLO Olive Kitteridge AUTORE Elizabeth Strout CASA EDITRICE Fazi Editore TITOLO Mi chiamo Lucy Barton AUTORE Elizabeth Strout CASA EDITRICE Einaudi TITOLO L’Isola del dottor Moreau AUTORE H.G. Wells CASA EDITRICE Feltrinelli TITOLO La strada verde AUTORE Anne Enright CASA EDITRICE Bompiani TITOLO Tess dei D’Urbervilles AUTORE Thomas Hardy CASA EDITRICE Rizzoli accoglienza presuppone sempre un atteggiamento favorevole verso “l’altro”. La condivisione è facile e immediata per chi è vicino, per affetto e stima. Il problema si pone per chi chiede aiuto, perché è in difficoltà. Le difficoltà possono essere intervenute per colpa, per circostanze sfavorevoli, per condizioni naturali. Nel 2008 così scrivevo: «Almeno 200 mila cittadini di etnia tamil dello Sri Lanka settentrionale negli ultimi 8 mesi hanno dovuto abbandonare le loro case, per una campagna militare dell’esercito contro i guerriglieri delle Tigri per la liberazione della loro patria. I civili alla ricerca di scampo vagano nella giungla o tra le risaie. Particolarmente drammatica è la sorte delle madri con bimbi piccoli. I centri di accoglienza Caritas, le comunità, i centri servizi sono stati sommersi da ondate di persone, famiglie, gruppi in cerca di un tetto e di cibo. È sembrato che un tam tam diffuso abbia inondato il Paese. Stranieri, rom, senza dimora, minori, famiglie italiane: tutti hanno chiesto aiuto. Non è facile capire che cosa sia successo. Sembra che i luoghi di residenza non offrano nemmeno il minimo necessario: da qui la forza della disperazione per andare a cercare altrove. Questa sensazione non è campata in aria. Le amministrazioni locali, per scelta, per mancanza di fondi, per rigidità, hanno intrapreso la strada della cosiddetta “tolleranza zero”. Tradotto significa: non mi occupo di persone che vagano, che non hanno cittadinanza, che sono troppo povere e non hanno futuro. Le cosiddette ordinanze dei sindaci hanno prodotto i loro effetti: cacciare dai territori chi non è di quel territorio. Lo sconcerto che deriva da questa filosofia è che troppe persone sono senza riferimento. Nessuno si prende carico di una massa che vaga in Italia e in Europa. Vengono in mente le migrazioni del Medioevo, di cui parlano gli storici: «Pellegrini, nullafacenti, delinquenti attraversano l’Europa e sono un vero flagello». Recentemente ritornavo sullo stesso tema: «Accogliere presuppone attenzione, sensibilità, gratuità e rispetto. Il significato dell’accoglienza si può coniugare in molti modi; le caratteristiche rimangono uguali. L’attenzione si fonda sul preoccuparsi di chi vive accanto. Chi vive chiuso nei propri interessi impedisce ogni relazione, anche se, nella vita odierna, è impossibile non avvertire problemi, bisogni, povertà, solitudini. Da qui la sensibilità ad agire per attutire sofferenze. Senza calcoli: con generosità si può concorrere, se non a risolvere, almeno ad alleviare sofferenze. Ogni epoca registra fenomeni sociali ai quali le istituzioni non sono in grado di intervenire, addirittura senza avvertirne la gravità. L' La recente storia sociale del nostro paese, a partire dalla metà degli anni Settanta, ha visto fiorire sensibilità e iniziative per problemi sociali fino ad allora gestiti poco e male. L’elenco è lungo, caratteristico dei cambiamenti di quegli anni. Povertà, immigrazioni, abbandoni, violenza, dipendenze, sofferenze psichiatriche sembravano essere esplose tutte in una volta. In quel contesto si attivarono iniziative, molte delle quali provenienti dal mondo cattolico, per la verità, poco studiate e poco ricordate. Eppure, produssero effetti talmente ampi e significativi, da cambiare il modo di vivere e di affrontare i disagi sociali. Una vera rivoluzione, proveniente da piccoli modelli che dimostrarono che era possibile intervenire positivamente sulle situazioni di disagio. Il sorgere dei gruppi e delle comunità ebbe quasi sempre la stessa matrice: un religioso o religiosa, con un gruppo di volontari, sperimentarono metodi diversi di sostegno. Le caratteristiche di quei metodi ebbero come fondamento il rispetto della persona, con la propria storia. A seconda della problematicità si usarono metodi educativi, capaci di liberare dalle cause del disagio: molta attenzione si dedicò alle dipendenze. Si scontrarono anche visioni diverse sulle cause dell’uso di sostanze stupefacenti. Già allora si discuteva se il tossicodipendente fosse un deviato, un delinquente, un malato, un giovane in difficoltà. La scelta giusta - a distanza di tempo si conferma - è stata quella di considerare sempre e comunque, ogni persona problematica, come persona. L’obiettivo era raggiungere il risultato dell’autonomia e della liberazione dalle sostanze. Molti risultati positivi dettero ragione a quel metodo. Così con i minori, con i ristretti nelle carceri, per chi era sbandato o senza futuro. Il cammino degli inizi non fu facile: iniziare da zero, dovendo trovare casa, operatori, risorse economiche, metodi efficaci richiesero umiltà, sufficiente capacità critica, senza abbandonare i fondamenti dell’operare nel sociale. Ci furono anche sconfitte: solo l’esame pacato e profondo delle singole situazioni portarono alla sicurezza di camminare sulla strada giusta. A seguito di iniziative coraggiose iniziarono gli interventi delle pubbliche amministrazioni. Quei gruppi, nel tempo, sono stati sottoposti a regole, condizioni, strutture che lo Stato esige, trattandosi di impegni pubblici. Purtroppo, dopo la fase pionieristica, è seguito un cambiamento del comune sentire che ha abbassato l’attenzione ai grandi problemi sociali, diventati, nel frattempo, complessi e di portata nazionale. Il lavoro, il problema della casa, le immigrazioni, la libertà suggerita dalla rete, la pandemia, la guerra ucraina e recentemente di Israele, l’inflazione hanno ingigantito le problematicità. Le disuguaglianze, nel frattempo, sono aumentate e non sembrano fermarsi. La reazione, anche della pubblica amministrazione, non è all’altezza di risposte adeguate: le disparità tra i forti e i deboli sono aumentate. Né, ed è il più grande problema, si hanno idee e volontà di accettare il cambiamento e porvi rimedio. Due ambiti di vita sociale sono attualmente in grande difficoltà: gli adolescenti e gli anziani. Dell’adolescenza tutti parlano, senza saperla affrontare. Ragazzi cresciuti nell’alveo iperprotettivo delle famiglie sono in ricerca della propria identità, sbattuti tra le proprie emozioni e una società che li vuole ricchi e celebri. Stentano a sognare futuro; non conoscono le vie della crescita. I più fortunati e dotati corrono verso una sistemazione che li collochi sulla zona alta della vita sociale, molti altri rischiano di diventare massa informe e senza futuro. Gli sviluppi chiedono persone preparate, efficienti, specializzate; molti non avranno queste caratteristiche, destinate così a vivere ai margini della vita sociale. Gli anziani, nonostante l’allungamento della vita sia alla portata di tutti, rischiano l’insignificanza, per gli stessi motivi che affrontano gli adolescenti. Sono considerati un peso: invocano una morte repentina, o addirittura procurata, per non essere di inciampo alle future generazioni, dai vincoli affettivi e giuridici precari. Se vivranno una lunga fine invalidante, costituiranno un numero senza nome, in appositi luoghi a loro proposti, invocando la morte. Lo spirito pionieristico dell’accoglienza non va abbandonato: forse aggiornato, a condizione che non si perdano i principi umani e solidi del rispetto di ogni persona, in tutte le fasi della vita. È auspicio, ma anche impegno». Recentemente l’accoglienza ha assunto una dimensione nazionale. I nostri giovani emigrano, il clima glaciale delle nascite, la mancanza di professionalità, il lavoro povero suggeriscono vite di stenti. Gli affitti alle stelle non risparmiano nemmeno gli studenti universitari: alcune città sono diventate irraggiungibili. Il nodo dell’accoglienza lambisce il mondo, l’Europa, il nostro paese: se non si attuano politiche accoglienti gli anni che verranno saranno un grande problema per tutti: società chiuse, autoreferenziali e vecchie in età sono destinate all’estinzione. La rigidità del non accogliere è indice di declino: una cultura, avvitata su se stessa, incapace di leggere ciò che l’attende. Purtroppo, le conseguenze sono terribili; c’è da scegliere tra la siccità, l’invasione, la sopravvivenza. Siamo ancora in fase di transito: la coscienza esige di intervenire, senza perdersi in stupidi dettagli con l’illusione del presente che appare felice. Le teorie del “postumano” che la letteratura americana ha già sollevato – dominio delle economie dei grandi gruppi finanziari, l’avanzare dell’hi-tech, l’evolvere del gender - rischiano di diventare giochi di alcuni accademici oggi privilegiati.1 1 Cfr. R. Braidotti, Il postumano – La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi, II ediz., 2020 Accogliere/Condividere LA STANZA DEGLI OSPITI DonVinicio Albanesi ” Il nodo dell’accoglienza lambisce il mondo, l’Europa, il nostro paese: se non si attuano politiche accoglienti, gli anni che verranno saranno un grande problema per tutti: società chiuse, autoreferenziali e vecchie in età sono destinate all’estinzione. “ CONSIGLI DI LETTURA
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