Itaca n. 17

2 Francesco Cicchi Ama Festival Ama Festival I Care Giovani volontari degli anni Ottanta, in una provincia del centro Italia, relativamente lontana dal clamore della cronaca nazionale. Eravamo soltanto questo. Portavamo con noi il mondo dei cantautori, di De André, Jim Morrison, Bob Dylan, e la “primavera” di Alda Merini. L’accoglienza dei fragili rappresentava per noi una scelta libera. Un’esigenza spontanea di avvicinarci ad un’umanità indifferenziata, che, ogni giorno, richiedeva una qualsiasi forma di aiuto. Eravamo noi i testimoni di quel popolo di dimenticati che vivevano disseminati per le strade, e che una certa società benpensante aveva scelto di nascondere sotto lo zerbino, come si fa per un fastidio difficile da gestire. Persone randagie, private di tutto, che, bussando alla nostra porta, ci coglievano impreparati, con le quali capitava di scontrarci duramente ed alle quali, molto spesso, non potevamo offrire nient’altro che i nostri limiti. Le nostre risorse materiali, non di rado, scarseggiavano, così cercavamo di porre rimedio a questa situazione moltiplicando le ore di lavoro. Imparammo a nostre spese che il nostro ruolo, sebbene avessimo poco più di vent’anni, era un impegno molto differente da chi decide che la giornata di lavoro è finita, timbrando un cartellino. Le nostre giornate, invece, spesso non avevano una fine, ma si protraevano ad oltranza, tra ripetuti turni notturni, quasi senza che ce ne accorgessimo. Prendersi cura dei fragili non era un “aristocratico” atto di carità, ma una “merce di scambio”. Ciò che quotidianamente ci veniva richiesto era, cioè, di assumere un atteggiamento differente da chi ci aveva preceduto: dovevamo entrare in un tessuto, le cui fibre intrecciate rappresentavano i diritti ed i doveri di una società intera. Quello che segue è uno stralcio del libro La stanza degli ospiti, scritto da Francesco Cicchi con Alessandra Morelli, di prossima uscita. È la storia della Cooperativa Ama Aquilone, un racconto autentico, come lo sguardo di chi l’ha scritto, ogni giorno, fin dalle origini.

3 Essere vasti in profondità n intellettuale, prima ancora di essere qualcuno che dice delle cose sul mondo è uno che abita il mondo in un certo modo. È uno che difende il mondo dai suoi nemici che sono quasi tutte le persone che stanno al potere politico, economico e a volte anche religioso. Per questo l’intellettuale diventa inevitabilmente una figura che necessariamente, in qualche modo, collide col potere. Non esiste un intellettuale che non disturba nessuno. Se non disturbi nessuno, vuol dire che stai girando un po’ alla larga. Certo, è una cosa che si può fare e che può essere anche utile in certi momenti. Ma oggi, dopo la stagione del Covid, gli intellettuali devono essere più esigenti, puntigliosi, attenti nel chiedere agli altri esseri umani, a cominciare dai propri territori, di non tornare alla cosiddetta normalità, a come vivevamo prima. Invece questo sta accadendo. Una normalità estenuata, avvelenata, insolente, abbrutita e impoverita. Io credo che si debba rivendicare una libertà per gli individui, che non è quella illusoria dell’individuo. L’uomo ha una profondità, una vastità che l’approccio di produzione e consumo non rispecchia. L’intellettuale ha il compito di ricordare questo e così lavorare per un mondo che permetta agli uomini di essere vasti in profondità. L’artista ha il compito di tenere largo il mondo, prima ancora che di trasformarlo. L’idea che il compito di un intellettuale sia quello di battersi per cambiare le cose è un’idea superata. Ci si deve arrendere all’evidenza che il mondo cambia quando vuole lui, o quando lo vuole una maggioranza di persone. In tanti casi non cambia affatto, perché ai più sta bene così come è. Così accade che per reazione gli intellettuali, i poeti e gli artisti mettano il broncio nei confronti della propria epoca. Ma in questo scorgo una pigrizia che non è degna di un intellettuale. Invece di tenere il broncio il poeta deve seminare sconcerto, dare scosse, costringere a ripensarsi in un’altra maniera. Ma questo accade se viene toccato il corpo di chi legge. La lettura di un vero poeta produce una sorta U Franco Arminio Ama Festival I bambini della Scuola La Zolla, percorso #MATERIAMI di Ambarabart per Casa Testori di contatto fisico anche, semplicemente, attraverso le parole. Altrimenti la poesia, pur circolando e diffondendosi, sia un po’ fessa, puramente coreografica. Una distributrice di consolazioni a buon mercato. La poesia ha certo anche una carica consolatoria. Ma la consolazione ce la si deve guadagnare, restando vigile come lettore. La poesia dovrebbe irradiare il quotidiano. Penso che si potrebbe aprire un collegio docenti leggendo una poesia; così il pranzo e la cena in ogni famiglia dovrebbe iniziare sui versi letti di una poesia. I bar dovrebbero essere pieni di poesia, così i cinema, gli uffici pubblici. Insomma, la poesia dovrebbe essere presente nei nostri spazi, nei luoghi normale della vita di ogni giorno. Presente nelle cerimonie, nei funerali, ai matrimoni. La poesia dovrebbe essere molto popolare. Ma popolare vuole dire che è frutto di un lavoro vero da parte dei lettori; vuol dire rispondere ad una necessità. Questo lavoro è un lavoro da fare sulle parole. Oggi viene messo al mondo un numero sterminato di parole. Siamo esposti quasi ad un naufragio nelle parole. Abbiamo davanti un velo di parole inerti che scivolano sopra una roccia di parole vive, che hanno bisogno di essere scoperte. Quindi il rischio è che si perda di vista la ricerca di una parola ulteriore, più carica, più densa, più necessaria per la nostra vita. Una parola che abbia del silenzio intorno. La parola poetica è una parola di questo tipo. È una parola che zampilla dalla carne e che in qualche modo è sorprendente, sia rispetto a chi la pronuncia, sia a chi la riceve: la parola poetica deve avere questa energia di stupore. La parola poetica è cosa che mette in ordine delle cose, le sistema o le organizza. La parola poetica non codifica la realtà, ma la allarga, la smuove. Ci sottrae dal nostro nido. Per questo è tanto preziosa. Questo accade perché la parola poetica è esperienza che butta giù da cavallo. Non è esperienza di chi vola o di chi sogna, ma è di chi sta a terra, di chi striscia, di chi è nell’affanno, nello spavento. Di chi è nel non sapere dove andare. È una parola del corpo, che scaturisce da una nostra postura percettiva. A me interessa la parola dei percettivi e non la parola degli opinionisti. Il poeta, scrittore e “paesologo” avellinese è protagonista di Ama Festival 2023. Al cuore del suo “I care” sta la fede nel valore della parola. Come spiega con questa sua testimonianza.

4 Giustizia è guardarsi negli occhi Ama Festival René Magritte, Il falso specchio, 1928 Adolfo Ceretti “I care” per Adolfo Ceretti è un’apertura a 360 gradi, che abbraccia vittime e colpevoli. Criminologo non mediatico, Ceretti non è solo il maggior esperto di giustizia riparativa, ma è anche colui che con più passione e convinzione l’ha messa in pratica, raccontandola anche in alcuni libri come il bellissimo Il diavolo mi accarezza i capelli. Per lui giustizia riparativa non è una teoria ma un’esperienza. Eccola raccontata dalle sue parole. os’è la Giustizia riparativa? E cos’è la mediazione che della giustizia riparativa è lo strumento privilegiato? Si potrebbe definire, secondo una delle prime e più classiche definizioni, un incontro, il più delle volte formale, con il quale un terzo imparziale tenta, mediante scambi tra le parti, di permettere loro di confrontare i propri punti di vista e di cercare con il suo aiuto una soluzione o, meglio una gestione, al conflitto che le oppone. Nella mediazione, insomma, il reato non è più solo una categoria giuridica, ma si trasforma anche “in evento psicologico o socio-psicologico”: per esempio un furto, pur essendo un illecito lesivo di un interesse patrimoniale, può essere vissuto dalla vittima, a seconda del tipo di relazione che preesiste con l’autore, come un’aggressione alla persona, una violazione della sua fiducia o, ancora, un tradimento affettivo. Le definizioni contengono sempre in sé il proprio limite nel voler circoscrivere in una clausola ciò che descrivono ma, in questo caso centrano fin da subito molto bene la questione, perché danno atto senza mezzi termini della lateralità della mediazione all’interno del diritto penale e della diversità del suo sguardo: il reato non viene più guardato e considerato come un’offesa ad un bene giuridico protetto dall’ordinamento, come la semplice violazione di una norma penale, quanto come un’esperienza di ingiustizia che frattura il “patto di cittadinanza” implicitamente esistente tra gli abitanti di una qualsiasi comunità, nella reciproca attesa - gli uni degli altri - di fiducia, riconoscimento, disponibilità alla pacifica convivenza. La mediazione non si accontenta delle sentenze, ne potrebbe, essendo le sentenze destinate al freddo, quasi scientifico accertamento di una verità processuale, in funzione di una soluzione o di una condanna; bensì ha l’ambizione di offrire qualcosa di più, in primo luogo alle vittime dei reati, ma anche ai loro autori: un luogo e un tempo per superare insieme, al di là dei ruoli processuali, le conseguenze generate dal reato. Questo vuol dire o vorrebbe la mediazione: consentire alle vittime dei reati e ai loro autori di incontrarsi per provare a ricostruire in modo condiviso quanto successo, raccontandoselo. Al centro dell’interesse è la realtà soggettivamente vissuta e non quella fenomenicamente accaduta, è la realtà quale viene alla superficie e alla luce attraverso il confronto tra le parti che non sono più solo una vittima e un autore di reato ma due soggetti che - ne siano non siano consci, lo avvertono di più o lo avvertono di meno - portano sulle spalle dei pesi, seppur diversi: per le vittime il peso è quello di una ferita o di una mancanza (perché sono vittime, naturalmente, anche coloro che sopravvivono alla morte di un familiare, di un amico); per gli autori di reato è quello di un passato con il quale fare i conti. Ma la mediazione non va in cerca neppure del perdono a tutti costi: non è richiesto agli autori di reato di ottenerlo né alle vittime di concederlo. Il perdono appartiene semmai alla coscienza del singolo individuo, nella quale la giustizia non può e non deve entrare; la punizione spetta invece ai tribunali sulla base della verità processuale accertata a punizione, intesa quale retribuzione del male compiuto non cancella le conseguenze lasciate del reato ed è su queste che si concentra la mediazione quale espressione della giustizia riparativa. Negli incontri di mediazione, vittime e autori di reato, recuperano una possibilità che il processo non contempla: quello di guardarsi negli occhi e di parlarsi, o anche solo di stare le une di fronte agli altri in silenzio. C

5 «Ci occupiamo di voi»: un gesto culturale a parola è antica, ma la declinazione assolutamente moderna: refettorio. Si chiama così la catena che Massimo Bottura ha lanciato in occasione dell’Expo milanese, che per tema aveva proprio il cibo, e che lui aveva pensato di declinare in una chiave precisa, quella antispreco. Di qui l’idea di aprire nella città che ospitava la grande manifestazione un Refettorio, mensa per i poveri con menù speciali, studiati da chef stellati, usando solo cibo recuperato. Dalla costola del Refettorio ambrosiano sotto la regia della Fondazione che Massimo Bottura ha creato con la moglie Lara Gilmore, Food for Soul, ne sono nati altri 13 sparsi per il mondo. Bottura racconta sempre che i mesi in cui aveva lavorato per avviare quel primo Refettorio sono stati i più emozionanti della sua vita, un’emozione che riaffiora ogni volta che vi ritorna. «È un progetto che mi ha guidato a far crescere il mio senso di responsabilità. Era stato visto come un’azione di charity, in realtà è un gesto culturale. Una risposta culturale al grande tema dello spreco alimentare». Culturale in senso di costruzione di una coscienza? «Anche in quel senso, ma non solamente. Perché il grande risultato è stato quello della mobilitazione delle competenze di tanti cuochi contemporanei, che si sono messi a disposizione per creare ricette funzionali all’uso degli alimenti più frequentemente recuperati. È stato uno sforzo creativo in cui ognuno ha reinterpretato quei cibi a rischio spreco secondo le proprie conoscenze e sensibilità. Ne sono nate centinaia di ricette: io dico che queste sono la nuova tradizione, la tradizione di domani». Ma non solo i cuochi si sono mobilitati attorno al suo progetto… «Proprio per questo dico che è un’azione prima di tutto culturale quella che abbiamo messo in moto. Ogni volta che abbiamo aperto un Refettorio abbiamo avuto una convergenza di idee creative da parte di artisti, architetti, designer. Ciascuno ha messo in campo idee creative che, interpretando il tema della lotta allo spreco, hanno dato ancor più rilevanza culturale a tutto quello che si sta facendo. Ricordo con emozione quando mi aveva chiamato il sindaco di Rio per aprire un Refettorio, e subito gli artisti si sono resi disponibili: Vik Muniz aveva realizzato una grande Ultima cena usando il “garbage” della città. Un’opera spettacolare che parla da sola e che oggi è appesa nel Refettorio Gastromotiva di Rio. Poi c’è un altro risvolto culturale di questa iniziativa». Quale? «Quello della bellezza. Ad esempio la bellezza del modo in cui vengono serviti i piatti nei Refettori. Questo è il valore dell’ospitalità. Parole come “benvenuti”, “venite, accomodatevi, ci occupiamo di voi”, è qualcosa di straordinario, di potentissimo. Poi la qualità delle idee, le idee che possono sviluppare tantissime altre idee». Dall’esperienza culturale del Refettorio e di Food for Soul era poi nato anche un libro, Pane d’oro, che ha l’apparenza di un semplice libro di ricette e invece è un libro di idee. «È un invito a guardare i prodotti nella nostra dispensa con occhi diversi, e renderci conto che anche i più umili ingredienti possono dar vita a piatti straordinari». L’approccio di Bottura è sempre un mix di antico e di ultramoderno. Da una parte sottolinea come alla base del suo sapere di cuoco stellato ci siano le memorie d’infanzia, «quel sapere antico e profondo delle nostre mamme e nonne, radicate nella filosofia della cucina povera, che rappresenta una fonte inesauribile di ricette e idee per recuperare fino all’ultima briciola». Dall’altra parte c’è la fiducia nella tecnologia: spiega come l’app sul cellulare che tiene sotto controllo le scadenze del cibo conservato in frigorifero ed evita così lo spreco anche nel piccolo orizzonte della casa, è tecnologia di grande valore culturale. L intervista a Massimo Bottura Ama Festival Vik Muniz, Ultima Cena, 1998 È un invito a guardare i prodotti nella nostra dispensa con occhi diversi, e renderci conto che anche i più umili ingredienti possono dar vita a piatti straordinari ” “

6 Pistoletto allo specchio o specchio è il simbolo dell’edizione di Ama Festival 2023: inevitabile rivolgersi a chi ha fatto dello specchio l’oggetto chiave del proprio percorso artistico: Michelangelo Pistoletto. «Quando mi si chiede quale sia l’opera che più mi rappresenta, non ho esitazioni: è sicuramente il quadro specchiante. In realtà non è solo un’opera, ma un progetto che prosegue nel tempo». Michelangelo Pistoletto, 90 anni, con grande lucidità e chiarezza guarda alla sua ormai lunga parabola artistica e ancora fissa il punto fermo in quell’idea scaturita nel 1961, con l’opera Uomo grigio di schiena, e che è continuata ad evolvere con il tempo. «Le superfici specchianti hanno questo aspetto che supera il limite dell’espressione soggettiva dell’artista. Vanno oltre: insieme alle immagini fissate che documentano la vita nel suo esistere e nel suo manifestarsi, il riflesso del quadro racconta immediatamente, senza interventi umani, ciò che è l’esistenza nel suo prodursi continuo, uno spazio tempo che diventa l’elemento essenziale. Sono opere in cui la materia non rappresenta più se stessa, ma rappresenta solo ciò che ha di fronte, un elemento speculare di verità sulle cose». Pistoletto ha messo a punto definitivamente la tecnica dei Quadri specchianti nel 1973: l’immagine viene dipinta su carta velina, ottenuta ricalcando una fotografia ingrandita a dimensioni reali e applicata su una lastra di acciaio inox L Ama Festival lucidato a specchio. Dal 1973 la velina dipinta è stata sostituita da un processo serigrafico grazie al quale l’immagine fotografica di partenza viene trasposta direttamente sulla lastra d’acciaio riflettente. Anche la più importante ed impegnativa delle creazioni di Pistoletto, cioè la Cittadellarte, sorta a Biella, dove lui è nato, trae origine dal lavoro artistico condotto sullo specchio. Così l’artista chiarisce questo nesso: «Cittadellarte nasce come spazio zero, cioè svuotato di tutti i fatti e i fenomeni che riguardano il contesto umano e sociale. Un vuoto però riempito magneticamente, poiché, come lo specchio, riflette tutti quanti quei fatti e quei fenomeni. Da questo stato si è attivata nel processo di trasformazione sociale responsabile, che rappresenta la linea guida di tutte le sue attività». «Lo specchio», continua l’artista, «ha rappresentato ai nostri occhi il luogo dell’irrealtà e della fantasia. Invece nel mio lavoro lo specchio è fenomenologico in senso scientifico: se si fa un passo indietro di un metro, entri nello specchio di un metro; se fai dieci passi indietro entri nello specchio di dieci passi... Riportato ad una dimensione temporale e non spaziale, questo significa che se vai indietro all’infinito, specularmente entri in un analogo futuro infinito». La suggestione dell’infinito inevitabilmente porta il discorso sull’opera-icona di Pistoletto, il Terzo Paradiso. Nel 2003 l’artista aveva scritto il manifesto del Terzo Paradiso e ne aveva disegnato sulla sabbia il simbolo, costituito da una riconMichelangelo Pistoletto allo specchio figurazione del segno matematico d’infinito. Da allora quel simbolo è stato moltiplicato in tantissimi contesti, con forme sempre diverse. «Il Terzo Paradiso», spiega l’artista, «è la fusione fra il primo e il secondo paradiso. Il primo è quello in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, fino alle dimensioni globali raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altro genere di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado e consunzione del mondo naturale. Il Terzo Paradiso è la terza fase dell’umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura. È il grande mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità nella visione globale. Il termine paradiso deriva dall’antica lingua persiana e significa “giardino protetto”. Noi siamo i giardinieri che devono proteggere questo pianeta e curare la società umana che lo abita». Un impegno che è ovviamente al cuore della missione di Cittadellarte. Conclude l’artista: «Abbiamo assunto il concetto di condivisione come matrice di una concezione dei rapporti umani radicalmente differente». Differente da cosa? Dalla logica della moltiplicazione che regge il sistema dell’accumulazione, dell’accorpamento e dell’occupazione possessiva». Grazie, maestro.

7 Biennale 2023 Ognuno appartiene agli altri in dall’inizio abbiamo immaginato il Padiglione Italia come una piattaforma per dare voce a quella generazione di progettisti, a cui sentiamo di appartenere, che interpreta un approccio alternativo alla disciplina. Siamo una generazione cresciuta in un contesto di crisi permanente – prima quella economica, poi quella sanitaria, ora quella geopolitica ed energetica, domani quella climatica – questa scarsità al netto della retorica non solo è un’opportunità, ma è anche l’unico contesto nel quale abbia senso operare. La fragilità strutturale del contesto italiano, caratterizzato dalla cronica carenza di lavoro e da una sovrabbondanza di progettisti, acuitesi negli ultimi dieci anni, è stata lo sprone per definire pratiche che applicano strumenti e prassi codificate dell’architettura a nuovi campi di applicazione. Il tessuto urbano è stato in gran parte costruito e gli architetti secondo noi devono assumere il ruolo di ricucire l’esistente, piuttosto che di creare nuovi manufatti. Le sfide che sentiamo come progettisti sono cambiate. L’Italia, inoltre, è uno dei Paesi in cui c’è un’eccezionale densità di architetti (uno ogni 400 persone, mentre in Cina il rapporto è di uno a 40mila). Ciò fa sì che un gran numero di architetti italiani abbia poche possibilità di lavorare sul territorio. L’architetto diventa così più un regista, un mediatore tra una rete di intelligenze, che contribuisce ad estendere lo spazio pubblico: molti progetti che abbiamo presentato a Venezia lavorano su una geografia spesso dimenticata. I nostri invitati hanno avuto la capacità, ad esempio, di trovare spazio pubblico sulla facciata laterale di una chiesa, a Marghera, che dal 1997 viene usata anche come parete per arrampicare. In provincia di Chieti, in Abruzzo, un ospedale abbandonato ha subito un processo di risignificazione diventando il Parco dell’Uccellaccio, dove un percorso in sicurezza consente di visitare l’edificio e ricollocarlo all’interno del paesaggio. Ogni progetto S Ama Festival “Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri”: è il titolo (bellissimo) del Padiglione italiano alla Biennale Architettura 2023, affidato alla cura di un collettivo di giovani architetti con base a Milano, i Fosbury. Hanno preso il loro nome dal celebre atleta americano che ha rovesciato la tecnica del salto in alto, introducendo il salto di schiena. Il Padiglione di Venezia è il loro salto alla rovescia: hanno rinunciato a gran parte del budget a disposizione, hanno concepito il grande spazio espositivo come osservatorio sull’attivazione di nove azioni site-specific diffuse in tutto il territorio italiano e promosse grazie al supporto della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Tutte azioni che hanno come minimo comun denominatore quello della “cura” di manufatti già esistenti, che vengono riconcepiti. A loro la parola. Collettivo Fosbury, Padiglione italiano dellla Biennale di Architettura diVenezia, 2023 presentato in Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri è una micro storia che tocca temi che su scala globale rappresentano delle sfide impossibili, come il multiculturalismo, la transizione ecologica, quella digitale e alimentare. Ma se vengono sviluppati in una dimensione territoriale più piccola, allora diventa possibile avere delle soluzioni tangibili. La narrazione è quindi un modo per dare un nuovo senso all’esistente. A Venezia abbiamo concepito qualcosa di diverso rispetto al passato. Non abbiamo pensato ad un’esibizione, ma ad un’azione. L’idea è mostrare come grandi temi sociali, che faticano a trovare soluzioni a livello globale, possano invece essere affrontati nel locale. Spesso per fare una mostra di architettura bisogna legarsi a dei media: un modellino, foto, altre forme di rappresentazione. Non si può prendere un edificio e portarlo dentro uno spazio espositivo. Noi abbiamo pensato avesse più senso creare una relazione con le comunità, provare a inserirsi nel contesto e lasciare qualcosa. Accendere una miccia.

8 Abbiamo cercato una frase che traducesse l’intraducibile. Prendersi cura del dolore dell’altro, del nostro pianeta e delle generazioni che verranno, prendendoci cura innanzitutto di noi stessi. Un messaggio di reciprocità che è anche una forma di identificazione con qualsiasi minoranza, verso la quale ci si impegna a dire: io ci sono, con il contributo che posso, che so, che devo. Abbiamo cercato una frase che fosse il contrario di “Me ne frego”. Una nostra personale dedica ai disobbedienti civili come Don Milani, priore di Barbiana, che innescò la sua rivoluzione da una scuola popolare, istruendo i bambini delle classi subalterne, perché fossero liberi dal quel destino di povertà, in cui erano stati confinati. Abbiamo cercato una frase con la quale si potesse anche ridere. Rifiutare la rabbia di cui si muore ogni giorno, per abbracciare la leggerezza come strumento di denuncia e di fiducia nei confronti del presente anche più tormentato. Ama Festival 2023 è la celebrazione di come una piccola frase possa contenere un significato immenso. “I Care”: “Mi importa”, “Me ne faccio carico”, “Mi sta a cuore”. Se è vero che la realtà è descritta dalla narrazione che ne facciamo, allora la consapevolezza anche di una sola parola, detta al di là di ogni convenienza, può determinare la piena realizzazione della nostra cittadinanza umana. Ama Festival

9 Franco Arminio negli ultimi anni ha messo a punto un modo assai originale di portare in giro la poesia. Il suo non è propriamente un reading, anche se legge versi dai suoi libri ed in particolare da quello appena uscito, Sacro minore. Non è uno spettacolo teatrale, non è un dialogo coi lettori, ma un po’ tutte queste cose intrecciate assieme. La sua si potrebbe definire una cerimonia lieta e pensosa: c’è spazio per il nostro lato dolente, come se ogni incontro fosse una sorta di federazione delle nostre ferite, e c’è spazio per la voglia di lietezza e di comunità che non possiamo più permetterci di trascurare. Sono serate in cui il pubblico e il luogo sono assai importanti: ogni evento è unico e irripetibile. Stefano Massini, scrittore e raccontastorie, è l’unico autore italiano nella storia ad essersi aggiudicato, con Lehman Trilogy, il Tony Award, l’Oscar del teatro americano. La sua cifra distintiva sta nel coniugare una spiccata vena letteraria ad un forte estro di narratore dal vivo. Divulgatore pop, graffiante, ironico, spiazzante, lontano dall’aurea dell’intellettuale autocelebrativo ed elitario, è un compositore e “scompositore” di parole e di storie, indagatore delle storie quotidiane e degli stati d’animo. Il grande pubblico italiano lo ha scoperto con i suoi interventi raffinati e spiazzanti in televisione a Piazzapulita, e in altri programmi televisivi tra cui Ricomincio da Rai 3. Dal 2016 collabora con il quotidiano “la Repubblica” anche con il suo spazio settimanale Manuale di Sopravvivenza. Fra i suoi testi, tradotti e rappresentati in più di trenta lingue, da Broadway alla Comédie-Française, Lehman Trilogy è stato messo in scena in tutto il mondo: in Italia al Piccolo Teatro di Milano nel 2015 da Luca Ronconi; a Londra (2018, 2019, 2023) e a New York (2019, 2021) con la regia di Sam Mendes. Qualcosa sui Lehman (Mondadori, 2016) è stato uno dei romanzi più acclamati degli ultimi anni (premio Selezione Campiello, premio SuperMondello, premio De Sica, Prix Médicis Essai, Prix Meilleur Livre Étranger). La sua nuova opera teatrale, già in corso di traduzione in molti paesi, è il monumentale Manhattan Project, affresco teatrale di oltre cinque ore sulla nascita della bomba atomica, appena pubblicato in Italia per Einaudi (marzo 2023). Ama Festival

12 Meglio dare che ricevere a cura è un termine che racconta molti capitoli della vita: umana, animale, dell'ambiente, guardando il presente e il futuro. Coinvolge la scienza, la cultura, i tempi ed i modi del proprio vivere. Racconta una caratteristica umana, anche se, in qualche modo, la natura suggerisce modalità di autoconservazione. Prendersi cura significa rivolgere l’attenzione a persone che non sono del tutto autonome ed hanno bisogno di aiuto. Farlo in ambito familiare ed amicale è spontaneo e quasi naturale. La civiltà ha elaborato leggi ed indicazioni che permettono a tutti - almeno teoricamente - di non rimanere soli, soprattutto nei momenti di bisogno. Il più classico dei modi di prendersi cura è rivolto agli infanti, alle persone anziane, ma anche agli adulti che teoricamente non dovrebbero aver bisogno di nulla. Eppure, la storia umana dice che tutti hanno bisogno di presenza, sostegno, vicinanza. Il problema serio si pone quando qualcuno che dovrebbe vivere autonomamente, in realtà non riesce a gestire la propria vita con sufficiente padronanza. Gli schemi per descrivere queste persone sonno molti: per schematizzare, si può seguire la linea dell’età. Dalla nascita alla morte, riflettendo sulle circostanze che, nell’arco della vita, possono accadere. La risposta sociale è chiamata ad intervenire nei momenti del bisogno, causati da motivi fisici, psicologici, relazionali, economici, ambientali. Per non cadere nella genericità si possono affrontare gli ambiti che, nello schema classico dell’assistenza, sono affrontati. Il mondo dell’infanzia può aver bisogno di salute fisica, familiare, relazionale. Le infezioni più comuni sono state risolte dalla prevenzione e dalla medicina, benché esistano ancora neonati che hanno problemi seri di salute. Di fronte a queste esigenze può capitare L Ama Festival che la scienza alzi le mani, per il non avere strumenti di soluzione. In queste circostanze genitori appassionati “girano il mondo” per trovare soluzioni. A volte queste soluzioni non si trovano; l’unica speranza è accompagnare e rendere meno faticosa la cura. Esistono centri di accoglienza per disabili, sia motori, che mentali. L’accudimento aiuta a recuperare tutte le funzioni residue e permettere almeno una convivenza pacifica e vivibile. Ciò non avviene ovunque: la differenza tra territori è notevole: ritardi ed accelerazioni dipendono da sensibilità e luoghi. Molta strada rimane da percorrere. Le famiglie si sentono molto sole; a volte con il carico totale della persona disabile che, nel tempo, aggrava la propria condizione. In età adolescenziale i problemi sono diversi. Il/ la ragazzo/a va alla ricerca della propria identità. Diventa, per alcuni momenti, ingestibile, in quanto nemmeno i genitori, gli insegnanti, gli educatori sono in grado di leggere messaggi che l’adolescente, con il proprio linguaggio, lancia. Non si riesce a comprendere se ha problemi, se è in ricerca, se sta deviando. Tutti parlano dell’età adolescenziale, anche se in realtà nessuno parla con loro. Esperienze positive dicono che la vicinanza con l’adolescente presuppone ascolto, empatia, parità. Il mondo composto dai mille stimoli non offre vicinanza: eppure è la prima necessità per chi è alla scoperta della vita. Solo l’empatia ed il rispetto permettono l’avvicinarsi a quell’età, con il risultato di trovarsi di fronte a immaturità non patologica, ma semplicemente di crescita. L'età giovanile scorre normalmente, quando la famiglia, rimasta a fianco dell’età della crescita, ha saputo essere in ascolto del/della proprio/a figlio/a, senza giudicare, ma anche senza negare la grande missione di essere educatori. Capaci di indicare la strada, senza sconti, pur essendo sempre comprensivi e amorevoli. Nella giovane età è possibile incontrare amicizie, occasioni che portano a strade problematiche. La mancanza di prospettive, l'isolamento, incontri devianti possono avere conseguenze serie e malate. Se, nonostante gli errori, si interviene precocemente, la vita da adulti può essere salvata. Trascorrendo troppo tempo nelle difficoltà, la condizione risulta irrecuperabile. Gli adulti debbono affrontare tre grandi problemi: la dimensione affettiva, lavorativa ed infine sociale. L’adulto/a deve affrontare la vita con responsabilità. La priorità è la stabilità degli affetti: formarsi una famiglia, oppure affrontare, in solitudine, la propria esistenza. In genere la convivenza o il matrimonio offrono la soluzione. Il clima più libertario, rispetto al passato, sembra offrire molte possibilità. Eppure, la costruzione solida degli affetti esige impegno e continuità. La facilità delle relazioni accelera le scelte, ma non per questo esse sono più stabili. Scegliere il futuro stabile è un investimenDonVinicio Albanesi to. Se riuscito, rende felici, altrimenti complica la vita, che influisce anche sui futuri/probabili figli. L'altro impegno è il lavoro. Non si vive senza: immaginare di usufruire di rendite è illusione, non solo perché sono molto poco numerosi coloro che possono permetterselo, ma anche perché, senza lavoro, subentra la dimensione della nullità. Il lavoro è faticoso, ma indispensabile: non solo per vivere, ma per dare dignità alla propria esistenza. Infine, è importante avere, nella vita civile, una propria posizione: coerente, degna di essere difesa, rispettosa degli altri. Una dimensione che sembra attutita dalla libertà di esprimere le proprie opinioni, magari in modi anonimi: ciò non toglie lo spessore o la pochezza delle proprie idee e posizioni. Infine, arriva, ed è un bene, l’età della vecchiaia. Molti la temono e vorrebbero eluderla. La natura dice che chi invecchia ha più possibilità di vita. Nel mondo attuale la terza età è disprezzata e male gestita. È un errore, perché tutte le età hanno soddisfazioni e problematicità. La paura della morte può spingere a temerla fino ad arrivare a non volerla vivere. Se gestita - in tutto l’arco della vita - con dignità, generosità, rispetto, anche la terza età ha un suo significato che procura soddisfazione. Prendersi cura significa occuparsi di chi ha bisogno di sostegno e di compagnia. Sembra, dall’esterno, che occorrano grandi qualità, quasi eroiche, per occuparsi di chi ha bisogno. Non è così: sicuramente occorrono sensibilità, generosità, ma anche professionalità. Le vicende umane sono complesse: a volte le disgrazie si cumulano su storie di persone, senza colpa e senza motivo. Il rispetto delle storie di ciascuno è la prima condizione di stare accanto. Le vicende non si possono disaggregare, per appiattirle secondo schemi prestabiliti. Proprio perché sono vite possibili possono sembrare non risolvibili. Eppure, essere accanto, operare per alleggerire, accompagnare vite difficili è utile. Sempre nel rispetto delle persone, dei loro desideri e dei loro sogni. Non facendo della propria opera di aiuto una specie di trono nei confronti di sudditi, ma soltanto sorreggendo, senza secondi fini ed interessi. Anche se le soluzioni definitive non si ottengono, offrire momenti di pace di ricostruzione offre sempre sollievo. L’attenzione deve essere alta, in momenti come nel presente, quando la tendenza è ad essere e apparire performanti. Tutti siamo fragili e bisognosi di sostegno. Dalla nascita alla morte. L’umanità è chiamata a vivere nella collettività, in un aiuto reciproco che fa vivere dignitosamente. L’essere fortunati non è un merito, ma una condizione che non spetta a noi scegliere. Noi possiamo utilizzare quanto Dio e la natura ci hanno concesso. L’importante è mettersi in sicurezza. Con uno slogan si potrebbe dire sii felice e rendi felice. La Bibbia ha lasciato scritto “meglio dare che ricevere”. Giovanni Testori, Ritratto di Alain, olio su tela Giovanni Testori, ritratto di ragazzo, olio su tela Giovanni Testori, ritratto di ragazzo, olio su tela

13 Portare Don Milani a scuola, oggi a scuola dovrebbe essere un ascensore sociale. La mia storia lo dimostra. Io sono figlio di genitori che hanno fatto solo la quinta elementare, a casa mia non c’erano libri, io vengo dal basso, dalla cantina, non ho avuto una famiglia ricca dal punto di vista culturale, economicamente non ci mancava niente, però se io non avessi avuto la scuola, non avrei raggiunto gli obiettivi che mi ero proposto. Quindi io credo che la scuola dovrebbe favorire il raggiungimento degli obiettivi. Ma non basta, perché c’è un problema alla base da affrontare: è il problema dell’uguaglianza delle condizioni di partenza. Tutti dovrebbero partire dalla stessa posizione, invece non è così, in quanto ancora oggi chi è avvantaggiato parte 10 metri più avanti rispetto ad un altro. Questo è il tema lanciato da Don Milani. Pierino e Gianni, i due bambini di cui parlava il prete di Barbiana, andavano di fronte alla maestra, recitavano la stessa lezione, poi uno prendeva 8 e uno 6, però Gianni era quello che non aveva mai letto un libro in vita, eppure aveva ripetuto la lezione, Pierino si era limitato a fare il compitino, ma lui era andato al cinema, a teatro, allora ecco che quella prof. avrebbe dovuto calcolare questo scarto, questa L Ama Festival È il Fondatore della Penny Whirton, una scuola nata da un sogno: «insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi e senza voti». A Don Milani ha dedicato un libro, L’uomo del futuro. Abbiamo chiesto ad Eraldo Affinati quanto sia attuale la lezione del maestro di Barbiana. differenza fra i due scolari. Ne abbiamo avuto una conferma nel periodo della pandemia, quando chi ha potuto fare la didattica digitale è andato avanti, mentre tanti ragazzi hanno abbandonato la scuola, perché non avevano il computer. Oppure, se l’avevano, non avevano spazi domestici adeguati, wifi, per seguire le lezioni. Così abbiamo avuto un’ondata di abbandono scolastico, a conferma di come il grande tema dell’uguaglianza delle posizioni di partenza sia attuale ancora oggi. La scuola dovrebbe garantire a tutti questo raggiungimento, ma non sempre è così. Per questo dobbiamo lottare affinché ciò accada. Il compito della scuola è quello di consegnare il testimone. Scoprire il futuro degli adolescenti che abbiamo di fronte, spesso a loro stessi ignoto. Invece oggi si spinge sulla parola “merito”, pensando che possa essere un motore che fa crescere l’istruzione. Così si rischia di trasformare le nostre aule in campi di gara, dove, dopo apposite performance chiamate interrogazioni, si stabiliscono gerarchie di valore fra chi vince e chi perde. Senza comprendere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario: vedere l’imperfezione incarnata dal compagno fragile può essere più formativo che gustare la solitudine del campione. Ma se non lo hanno recepito neppuEraldo Affinati re gli adulti, come facciamo a farlo entrare nella testa dei giovani? Invece la scommessa è quella di cambiare l’approccio, fin dal primo gesto della mattina. Quando un docente fa l’appello, deve guardare i suoi studenti e già in quel gesto si prende cura dei ragazzi. Se il docente non fa questo, è inutile che spieghi e vada avanti con il programma. La scuola, secondo me, non dovrebbe misurare le competenze dei ragazzi, ma dovrebbe aiutare nella conoscenza della realtà, del mondo; certo, tutta la tradizione del passato, le materie, le lingue sono importanti, però capire che tutta la dimensione culturale, gli apprendimenti devono servire per conoscere il mondo e noi stessi. Ho cercato di dimostrarlo scrivendo un libro come l’Elogio del ripetente: noi ci impegniamo a misurare la competenza, ma a volte il ripetente dice a me adulto, insegnante quello che il ragazzo che ha fatto il pieno di competenze non saprebbe dirmi. Don Milani questo lo sapeva bene. Se non si ha il coraggio di un approccio così, si crea quella che ho definito “la classe pazza”, cioè la classe chiusa che adotta lo schema ermeneutico obbligato dove io spiego, tu riporti quello che io ho spiegato e ti metto il voto, a questo schema che va bene, se ne deve affiancare un altro.

14 Io, cioè te storia imperfetta di un riflesso Ama Festival Alessandra Morelli Quando nel 1937 Wolfgang Reitherman fu chiamato ad animare lo Specchio magico per il film Biancaneve e i sette nani, si trovò inizialmente in grande difficoltà. La testa del personaggio non si muoveva, non aveva pupille e gli effetti del fumo che apparivano nelle scene lo rendevano asimmetrico: per dargli espressività, Reitherman non poteva che animarne soltanto gli occhi e la bocca. E ci volle più di un tentativo, perché sia lui che il produttore Disney fossero soddisfatti del risultato. Dare rappresentazione ad uno specchio: Reithermann aveva fatto per il grande pubblico ciò che da secoli si tesse attorno ad un oggetto quotidiano che “serve a guardare”, specere, e che per le sue caratteristiche non ha mai smesso di colpire l’immaginario umano. Tra tutte, la capacità di incarnare qualcosa ed il suo esatto contrario, un universo alternativo ed un mondo al rovescio, la decadenza e la vanità, l’Eterno ed il fugace, la conoscenza e la divinazione, il simile ed il dissimile, l’illusione in cui precipita Narciso, che uccide Medusa e da cui Dioniso sempre rinasce. Una riflessione su ciò che riflette. Allo specchio ci si perde e ci si riconosce, ci si duplica in un’immagine “che torna indietro”, re-flectere, un riflesso che gli antichi credevano essere stato generato anche da una singola goccia, dall’aria o dalla luna. Strumento in grado di accendere un fuoco e di polverizzare le navi nemiche, è anche una delle mirabilia racchiuse all’interno di cofanetti da cui sbirciare le immagini di piccoli oggetti moltiplicarsi all’infinito, o di cui la corte francese è sontuosamente tappezzata, per educare a quelle “buone maniere” che all’essere anteponevano l’apparire. Elliot Erwitt, Californian kiss, 1955

15 Ama Festival E, mentre per le Sacre Scritture lo specchio è simbolo epifanico della divinità che “creò l’uomo a sua immagine”, Genesi 1, 27, cioè come un suo riflesso, la poesia lo intreccia indissolubilmente alla fibra dell’umanità che, di quel Dio, anela a vedere il volto. Beatrice tutta nell’etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote: così descrive Dante il sole del Paradiso, vv. 64-66, come un riflesso che, dagli occhi di Beatrice ai suoi, rende esprimibile una visione inesprimibile. È miracolo del cuore che riposa, lo stesso che Salvatore Quasimodo descrive come un intimo appuntamento con il Mistero primaverile: … e sono quell’acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi più azzurro il suo pezzo di cielo, quel verde che spacca la scorza che pure stanotte non c’era. Specchio Talvolta la superficie specchiante è testimone dell’amore tra due creature terrene, così sconfinato da dilatare il tempo, come nei versi di Shakespeare Non mi convincerà lo specchio ch’io sono vecchio … Abbi tu, perciò, amor mio, cura di te come io ne avrò, non per me, ma per te, custodendo il tuo cuore, e ne avrò cura qual tenera nutrice che un bambino guardi dal male Sonetti, XXII, vv. 1-12; di dettagli, niente affatto trascurabili: a dirlo è addirittura una mistica, Simone Weil: Una bella donna, guardandosi allo specchio, può credere di essere soltanto quello; una donna brutta sa di non essere soltanto quello. È allora che il riflesso può diventare un metro di giudizio talmente feroce da non risparmiare neppure una dea. Penso a quella giovane candida, che i manuali tramandano come la Venere di Arles: la testa inclinata è rivolta alla sua mano sinistra, verso quello specchio che reggeva, e che oggi non esiste più, ma che il tempo ha eternato nella sua invisibilità. Un illustrazione di John Tenniel per Alice attraverso lo specchio Venere di Arles, marmo, I sec. a.C. Parmigianino, Autoritratto entro specchio, 1524 C’è chi lo specchio, poi, riesce ad oltrepassarlo, una bambina, per la precisione. Appena sei mesi dopo il suo viaggio nel Paese delle Meraviglie, mentre sonnecchia su una poltrona del suo salotto, Alice si chiede cosa mai potrà esserci dall’altra parte: “Facciamo che ci sia un modo per passarci attraverso… Ma guarda… si trasforma! Sarà facile passarci adesso!”. La cosa più stupefacente non è tanto quel che Alice vi trovò, parte integrante del titolo originale che Lewis Carrol decise di dare al suo libro, quanto come la piccola ne uscì, dopo aver passato l’esame finale per diventare Regina, risvegliandosi dal suo sogno, mentre il Cavaliere Bianco canta: “All’Amor non c’è mai Fine”. talaltra, è il mezzo eletto per scoprire il sé, la propria crescita e prospettiva, piana o convessa come un autoritratto del Parmigianino, anche se questo può significare perdersi: quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire, dice Luigi Pirandello. Se lo specchio è nelle mani di una donna, è testimone impietoso del suo fiorire e del suo sfiorire, nonché disvelatore

16 A R I E N T I , L ’ A R T E C H E O B B E D I S C E A L S O L E Cosa vuol dire per un artista far proprio il concetto di “cura”? Non può essere una preoccupazione programmatica; non basta mettersi, anche generosamente, al servizio di buone cause. Nell’esperienza artistica la “cura” è qualcosa che agisce dall’interno del processo creativo, che lo plasma, definendone il linguaggio e l’identità poetica. “Cura” non è qualcosa di intenzionale, ma qualcosa che deve essere introiettato. Ci sono delle spie che evidenziano la bontà di un percorso: ad esempio una sostanziale mitezza espressiva, un arretramento dell’ego dell’artista, che si concepisce come tramite e dimette il ruolo di primattore. È un profilo che corrisponde a Stefano Arienti, tra gli artisti più importanti oggi sulla scena in Italia. Mantovano, nato nel 1961, Arienti concepisce il suo operare sempre come un entrare in dialogo con la situazione in cui viene chiamato a intervenire. Una conferma la si ha vedendo la mostra che ha allestito nello scenario meraviglioso di Villa Carlotta, con il suo grande giardino affacciato sul Lago di Como. Per comporre i suoi interventi all’aperto, Arienti ha utilizzato piante, fiori, libri, oggetti di uso comune, sfalci, radici, materiale di riuso: la presenza degli interventi artistici innesca una visione caleidoscopica che entra in dialogo con le fioriture presenti nel parco, tra cui spiccano i colori di azalee, camelie e rododendri. Soprattutto Arienti lavora negli ultimi anni ispirandosi alle Meridiane: uno strumento che parla grazie alla luce del sole. Le sue Meridiane sono linee colorate disegnate seguendo ugualmente il muoversi del sole. L’opera è dunque realizzata obbedendo ad un fattore esterno che la fa essere. È la stessa logica che vediamo applicata a Villa Carlotta: un allineamento di gardenie dragon, l’opera è intitolata Linea, suggerisce la presenza di una meridiana naturale nell’aiuola, dove domina la presenza di una imponente palma del Cile; una seconda installazione, Riflesso, realizzata con nastri colorati disposti a raggiera, rievoca la luce di uno spettro solare, sovrastando la grande vasca che convoglia le acque per l’irrigazione della villa (la si vede in una delle foto in questa pagina). Nel Giardino dei Bambù l’artista ha allestito l’opera Nido dei libri, una struttura solida di forma circolare composta da libri e da materiale vegetale che, per le sue fattezze, può richiamare alla mente i nidi costruiti dagli uccelli. Ma gli interventi sono disposti anche nelle aree meno battute del giardino, per offrire una visione inedita sul parco e sul Lago di Como. Così Arienti è intervenuto nella zona alta dell’uliveto, allestendo in una piccola stalla delle Meridiane realizzate su telo antipolvere (ricalcando le ombre di rami e cespugli presenti a Villa Carlotta), e, al tempo stesso, nell’area bassa del giardino vecchio, in corrispondenza della Fontana dei Nani, dove allestisce le Alghe, formate da ritagli ottenuti con materiale plastico che assumono l’aspetto di organismi vegetali filiformi che, scendendo dalla fontana, assecondano il movimento delle piante (nella foto in questa pagina). Proprio la presenza dell’acqua, in quanto simbolo di rinascita, è una delle componenti ricorrenti che connette gli interventi realizzati da Arienti all’interno del giardino botanico. Giuseppe Frangi Stefano Arienti, Quadrante Solare. Villa Carlotta, Tremezzo (CO), 2023. ©Walter Carrera O S S I M O R I

17 TITOLO La Cura AUTORE F. Battiato ALBUM “L’Imboscata”, 1996 TITOLO Il Grande Gatsby AUTORI F. S. Fitzgerald CASA EDITRICE Feltrinelli TITOLO La Cura AUTORE H. Hesse CASA EDITRICE Adelphi TITOLO L’insostenibile leggerezza dell’essere AUTORE M. Kundera CASA EDITRICE Adelphi C O N S I G L I D I L E T T U R A La Cura inutile resistere all’istinto di scalare la ripida pendenza dell’originalità senza menzionare La cura di Franco Battiato. Questa canzone, celebre come poche, risuona spesso in occasioni di matrimoni, battesimi e perfino funerali, grazie alla sua universale risonanza. La sua forza risiede proprio nell’ambiguità poetica che non delinea chiaramente se le parole siano pronunciate da un genitore verso un figlio, tra amanti o amici. Questa vaghezza conferisce alla canzone un senso di eternità, rendendola un innegabile punto di riferimento quando si parla di “cura”. La cura è una canzone d’amore senza mai usare la parola “amore”, - diceva Battiato - perché la cura è un amore che non ha un ritorno, un amore a senso unico. “La cura” danza così attraverso epoche, lingue e arti. Si tesse nelle note di una canzone, si riflette nelle pagine del romanzo omonimo di Hermann Hesse, attraversa le trame del Novecento con Il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald e L’Insostenibile leggerezza dell’Essere di Milan Kundera, e riemerge, con semplicità, in Esopo: Il Leone e il Topo, è una favola amatissima dai bambini di ogni tempo. Nel romanzo di Hesse, un intellettuale ospite alle terme di Baden, in cerca di sollievo per la sciatica, intraprende un viaggio di introspezione ed autocomprensione. Il dolore fisico, che paradossalmente peggiora in un ambiente che concepisce la cura solo come protezione e non come catalizzatore di cambiamento, scatena una crisi esistenziale che lo guida verso una cura più profonda e personale attraverso l’analisi della propria anima. Questa concezione della cura, così profondamente intrisa di spiritualità e introspezione, riflette l’influenza del pensiero orientale e dell’interesse di Hesse per il Buddismo e l’Induismo, che considerano la consapevolezza e l’autocomprensione come strumenti fondamentali per la guarigione e l’armonia interiore. Sempre nel Novecento, Fitzgerald e Kundera propongono diverse interpretazioni della cura. Nel Grande Gatsby assistiamo ad una cura ossessiva ed autodistruttiva da parte di Gatsby per Daisy. Una cura singolare, come aveva intuito Hesse, non in armonia con la vita, che è invece fatta di una molteplicità gioiosa. Al contrario, L’Insostenibile leggerezza dell’Essere di Kundera è un’opera che esplora la cura attraverso le complesse dinamiche affettive dei suoi personaggi. Il romanzo segue le vite di Tomas, un chirurgo, e Tereza, la timida moglie, in un viaggio che rivela le molteplici sfaccettature dell’amore e dell’attenzione. La cura in questa opera si rivela nelle delicate tensioni tra la leggerezza dell’essere di Tomas e il peso dell’esistenza di Tereza. Kundera sottolinea come la cura non sia solo una questione di atteggiamento, ma anche di comprensione reciproca ed accettazione delle differenze. La cura, qui, si intreccia con il perdono, la tolleranza e l’affetto, dimostrando che può essere un potente strumento di crescita e di comprensione umana. Esopo nella favola Il Leone e il Topo esemplifica la cura nella sua forma più pura. Il leone, re indiscusso della savana, risparmia la vita ad un minuscolo topo in un atto inaspettato, e quando si troverà in difficoltà, il topo lo soccorrerà, simboleggiando l’interdipendenza e reciprocità della cura. Queste opere, ciascuna a suo modo, presentano “la cura” non solo come trattamento di un male, ma come gesto d’amore, come attenzione verso l’altro e come responsabilità per la nostra esistenza. Che si tratti delle armonie di Battiato, delle trame di Hesse, Fitzgerald, Kundera o della semplicità di una favola, il messaggio è lo stesso: la cura è un’arte, un impegno, un atto di nobiltà e, soprattutto, una forma di amore assoluto ed incondizionato. Antonella Roncarolo É TITOLO Favole AUTORE Esopo CASA EDITRICE BUR

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